12/06/2004 - MARILLION – MARBLES TOUR Spring 2004 @ Foro Italico - Roma

Pubblicato il 24/06/2004 da


A cura di Loredana Miele
Foto: Gabriella Zincone


Roma, domenica 13 giugno 2004. Cielo sereno, temperatura 27 °c. Il Foro Italico è pronto per accogliere, al Campo Centrale del Tennis, la seconda data italiana del Marbles Tour 2004, che segna il ritorno in Italia di uno dei più longevi e tenaci act inglesi che quest’ultimo ventennio abbia conosciuto: i Marillion sono di nuovo tra noi, infine, a tre anni di distanza dal tour che aveva supportato l’uscita del precedente, stupendo “Anoraknophobia”. Eccoli di nuovo on the road, quindi, i giganti dei tempi che furono e di quelli attuali, oggi al grido imperioso di “Let’s marble the world!”. Sì, perché se l’ultimo tour aveva allegramente chiamato a raccolta tutti gli anorak del mondo per alzare la testa “senza paura”, oggi le biglie di Hogarth e soci sono pronte a invadere ogni angolo in cui vi sia qualcuno disposto a tirar fuori le proprie direttamente dalla Scatola dei Ricordi, in nome di tutti i mai domati Bambini di ogni età. Ed eccoci pronti, allora, con il nostro sacchetto di biglie vecchie di quindici anni in tasca (perché la nostra, diciamolo pure, è forse una delle ultime generazioni cresciute senza troppi videogiochi a tenerci inchiodati in casa), puntuali all’appuntamento con questo straordinario gruppo all’indomani dell’uscita dello stupendo “Marbles”, attualmente candidato per la conquista della palma di disco più variegato, più complesso ed emotivamente coinvolgente mai partorito dal quintetto di Aylesbury. Giunta a destinazione nel primo pomeriggio per raccogliere l’intervista a Steve Rothery, storico fondatore della band, che prossimamente leggerete sulle nostre pagine virtuali, alle 20.30 chi scrive era già in prima fila sulle transenne, pronta ad assistere all’evento e alla rappresentazione del concept di “Marbles”…

GAZPACHO

Il concerto inizia, spaccando il minuto, alle 21, e tocca ai Gazpacho aprire le danze di questa attesissima data. I nostri sono una giovane formazione norvegese nata nel 1996 e con all’attivo due album autoprodotti, “Bravo” (2003) e “When Earth Lets Go”, uscito il mese scorso. Il gruppo si presenta travolgendo il pubblico con un rock a metà strada tra i Marillion, per l’appunto, e sonorità che richiamano alla mente i Katatonia dell’ultimo periodo, e che spaziano da un certo melancholic pop fino a toccare lidi ben più… pesanti, per così dire. Immaginate un incrocio tra le due band appena citate e Radiohead, Placebo, Coldplay, Travis, Muse, Sigur Ros, Pink Floyd… l’idea che ve ne fareste sarebbe tuttavia incompleta. Come dire: questi ragazzi sembrano avere un’anima propria! Nonostante l’attenzione del pubblico sia inizialmente scarsa, i Gazpacho salgono sul palco all’imbrunire di questa calda e serena domenica con l’intenzione di dare una scossa al Centrale del Tennis a suon di melodia e chitarre magistralmente distorte… ed è sincera la sorpresa del pubblico, che reagisce con entusiasmo all’energia e alla grinta dei cinque norvegesi, che ci riversano addosso senza alcun preavviso musica di ottima qualità! Sonorità prettamente rock, incursioni metal con qualche velato spunto progressive, passaggi folk di nordica memoria, momenti di amara malinconia che fanno cantare Ohme, la pulita e tuttavia versatile voce dei Gazpacho – che sembra melodiosamente poetare con una timbrica che passa dal lamento alla rabbia con vibrante passionalità – con il viso rivolto verso il cielo mentre il resto della band si produce in una performance strumentale davvero degna di nota. Su tutti, in quanto a presenza scenica, spiccano il bassista Roy Funner e il chitarrista Jon-Arne Vilbo, che incitano il pubblico con una grinta spaventosa per tutta la durata del set, perennemente scatenati, ma anche batterista e tastierista fanno con estrema passione la loro parte, per non parlare di Mikael che si alterna, nei vari pezzi, alla chitarra ritmica e al silent violin. Mentre le prime file cedono alla diffidenza iniziale già alla seconda canzone del set con qualche headbanging e scroscianti applausi e grida di incitamento, nella memoria di chi scrive restano stampate le bellissime “Snowman” e “Substitute For Murder” (che Ohme presenta come contenute nel nuovo album) e, su tutte le altre, la particolarissima “Bravo”, titletrack della meno recente uscita della band, che si chiude sulla cadenza di un solo/duetto di violino e flauto irlandese che fa scoppiare, in chiusura, un fragoroso boato dal pubblico, che ha decisamente apprezzato la performance di questa formazione che scopriamo, successivamente, essere una presenza che ha riscosso consensi da ogni parte nell’underground rock/pop europeo. Speriamo quindi di sentir presto parlare ancora dei Gazpacho, magari per poter conoscere la lungimirante etichetta che li avrà messi sotto contratto…

MARILLION

Dopo una ventina di minuti per il cambio palco, le luci si spengono… sull’enorme schermo a tutta parete del fondo dello stage, nel buio, inziano a scorrere le colorate immagini del ‘marbled world’… le biglie si avvicinano, e sul palco fanno la loro comparsa, uno dopo l’altro, Mosley, Kelly, Trewavas e Rothery. Il pubblico scoppia in un boato quando si accorge che l’unico posto vuoto che resta è quello di Hogarth che, al partire del radio tuning iniziale di “The Invisible Man”, ancora non compare. Nel buio il pulsare del primo giro di basso ha l’effetto di una scarica di pugni sullo stomaco… le luci si alzano gradualmente, ed ecco lentamente comparire dall’oscurità la figura di Steve Hogarth, vestito di tutto punto in abito grigio nei panni di quell’Uomo Invisibile di “Marbles”, ‘scivolato’ nel mondo durante un momento di ‘distrazione’… che inizia il suo viaggio in Musica in un concerto che prevede, a quanto abbiamo saputo da Steve Rothery, la rappresentazione dell’intero concept album. “The world has gone mad / And I have lost touch…”… e fin dalle primissime battute la band appare più in forma che mai! I suoni, in aggiunta a questo, sono perfetti: graziati anche dalla struttura anfiteatrica del Centrale del Tennis – oltre che dall’altissima professionalità del loro staff – i cinque inglesi dietro i loro strumenti costruiscono emozioni, donando brividi e poesia per un interminabile set che in pratica consiste nell’esecuzione della versione singola del disco, con la sola aggiunta di “The Damage” quale rappresentante delle track incluse nella versione doppia. E allora via, l’inesauribile sogno di una Vita comincia… dopo aver cantato la storia di impotenza e silenzio dell’Uomo Invisibile, l’istrionico singer si siede alla sua tastiera per cantare quella delle biglie perdute, e da qui in avanti la Musica muta in un incessante pulsare sottopelle: a “Marbles I” seguono il singolo “You’re Gone”, la sognante “Angelina”, il secondo capitolo del poema in musica che conduce il filo narrativo dell’album e ancora la stupenda “Don’t Hurt Yourself”, prossimo singolo in uscita. La band è talmente carica di energie da sorprendere ad ogni canzone: Hogarthdialoga, ammalia, guida il canto del pubblico irrimediabilmente rapito, e Trewavas – con il suo mai dismesso portamento rockettaro – non si prende un solo secondo di pausa dal suo continuo incitare le prime file ad alzare la voce. Ed infatti, poi, le successive battute sono una più trascinante dell’altra: “Fantastic Place” fa diventare le teste di tutti gli astanti una sola, ritmica onda, per “Marbles III” si alza un canto che arriva fino al cielo, e durante “The Damage” non c’è una sola persona ferma, sia in platea che sugli spalti! La prima parte dello show sembra chiudersi su “Marbles IV”, ma quando le luci si spengono e sul fondo palco viene proiettata l’immagine di QUELLA veduta di Londra sotto il cielo stellato dell’imbrunire sul quale si staglia la sagoma del Big Ben… be’, non c’è più alcun dubbio: “seconda stella a destra, e poi dritto fino al mattino”. Sta per iniziare la meravigliosa”Neverland”! Il pubblico è in visibilio, e un nutrito gruppo di persone che compone le primissime file stringe in mano un sonaglio. La lunga canzone che chiude “Marbles” fa struggere, volare, commuovere, sognare… Hogarth racconta e canta, travolgente come mai prima e, al termine di uno dei momenti più intensi di tutto il set, le luci si spengono sul suono di qualche decina di campanelli che, ora lo si comprende, un gruppo di amici ha portato per imitare il tintinnìo con il quale si conclude l’album. A questo punto le luci si riaccendono e la band annuncia che ora, dopo tre minuti di pausa, ci aspettano ancora “ninety minutes of old stuff”! Detto, fatto. In men che non si dica, i Marillion sono di nuovo dietro gli strumenti quando parte il beat di “This Is The 21st Century”, dal precedente “Anoraknophobia”, seguita a ruota dalla spettacolare “Quartz”, con la quale la band mozza il fiato a tutti dimostrando di non avere alcuna voglia di rallentare l’incedere dello spettacolo. Qui la band confeziona davvero la migliore performance dello show, con questo enorme impianto pop/rock/prog che accarezza, prende per mano l’audience e infine la trascina in una danza scandita a ritmo di battito cardiaco… che si esaurisce di colpo, lasciando tutti a bocca aperta e pronti a ricevere l’altro pugno nello stomaco della serata, ovvero la doppietta “Bridge”/”Living With The Big Lie”, i due brani di apertura dello storico “Brave”. Qui non si resiste più, sfuggono lacrime e canti a pieni polmoni per questo che è un altro momento tra i più emozionanti, per chi scrive, di questo concerto. Dopo la Grande Menzogna, poi, si fa ancora un salto indietro nel tempo con “The Party”, ripescata direttamente da “Holidays In Eden”, per poi chiudere sulla più recente “Between You & Me”, che pure porta via con sé le vibrazioni di tutte le corde vocali presenti. Qui termina il concerto, con la tradizionale breve pausa prima degli encore durante la quale il Centrale del Tennis non cessa mai di richiamare sul palco i Marillion, che puntualmente tornano per terminare l’evento con quattro perle del passato… una più ‘passata’ dell’altra! Si ricomincia a cantare con la malinconica “Estonia”, e si prosegue con l’episodio più datato della setlist, che si tira dietro un coro da piccolo stadio con una delle canzoni più conosciute e amate dell’era Hogarth, “The Uninvited Guest” (correva l’anno 1989, signori…). Il ruolo di gran finale spetterebbe poi alla vecchia hit “Cover My Eyes (Pain And Heaven)” – sulla melodia del cui refrain Hogarth gioca al botta-e-risposta con il pubblico per diverso tempo – se non fosse per “Easter”, richiesta con tale insistenza da spingere i cinque musicisti ad accontentare di buon grado il pubblico. E così, sulla altrettanto famosa ballad di “Seasons End”, si chiude definitivamente uno show pressoché perfetto, per esecuzione ed intensità emotiva: ognuno dei cinque musicisti sembra non solo aver suonato, ma aver PARLATO tramite il proprio strumento, e in quel particolare idioma che solo la più intima, muta sensibilità individuale di ognuno può intendere. Non una sbavatura, non un colpo andato a vuoto, non una imperfezione… nemmeno quando, per un ritardo da parte del sound engineer nell’apertura del canale della chitarra di Hogarth che doveva entrare al secondo giro di “The Damage”, lo strumento è rimasto muto facendo voltare tutta la band verso il mixer; i nostri, neanche scomposti più di tanto, hanno allora preso vivacemente la palla al balzo per riarrangiare all’istante il restart della canzone, in un minuto di puro divertimento generale. All’uscita dal Centrale del Tennis la sensazione che aleggia nell’aria trasmette un certo senso di appagamento, anche al di là delle consuete, bonarie recriminazioni sulla setlist della seconda parte del concerto. Soddisfatti e sorridenti tutti, anche i fan dello zoccolo più duro, ci allontaniamo dal palco sul quale si è appena svolto un concerto a dir poco indimenticabile… ma, del resto, da professionisti e poeti di tale calibro, non si poteva davvero attendere altro. Per fortuna, la vera Dedizione dallo scorrere del Tempo trae soltanto benefici. Grandi, grandissimi Marillion.

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