09/11/2015 - MARILYN MANSON + HANDS OF TIME @ Teatro ObiHall - Firenze

Pubblicato il 15/11/2015 da

Report a cura di Edoardo De Nardi

Non paghi della performance milanese del loro beniamino, risalente a qualche mese fa, gli irriducibili fan del Reverendo americano per antonomasia assalgono l’Obihall di Firenze per la seconda data italiana del The Hell Not Hallelujah Tour, l’ennesimo sold out preannunciato che proclama come definitivamente resuscitato, quantomeno a livello mediatico, un Marilyn Manson ormai mitizzato; ma al tempo stesso figura ormai un po’ statica e prigioniera dello stesso immaginario da lui irreverentemente creato negli anni ’90. Di seguito il report di una serata dove, a bruciare veramente, sembra essere rimasto solamente l’incondizionato calore ed affetto riservato ad una delle ultime rockstar della vecchia generazione, parimenti professionale e distaccata nei confronti della propria musica, un eroe decaduto che sembra muoversi nell’ombra di quella che è stata la sua inquietante fortuna nei Nineties e nei primi anni del nuovo millennio.

 

Marilyn Manson - locandina - 2015


HANDS OF TIME

L’onere/onore di aprire la serata fiorentina spetta agli italianissimi Hands Of Time, compagine orvietana che inizia il proprio spettacolo poche decine di minuti dopo l’apertura dei cancelli della ObiHall. La band dimostra una certa dimestichezza nei confronti di questo tipo di situazioni e, per niente intimorita dalle crescenti masse che popolano l’area sotto palco, cerca in tutti i modi di coinvolgere gli astanti con una formula piuttosto eterogenea, che mischia alternative rock, beat danzerecci e voci in pulito dal palese appeal pop-rock, per un risultato finale da intenti ‘scala classifiche’, presentando tutti quegli elementi radiofonici e, perché no, un po’ ruffiani necessari per poter raggiungere un successo ed una conoscibilità di ampio raggio, obbiettivo abbastanza dichiarato per questo giovane terzetto dalle belle speranze. Non mancano nel corso della tracklist momenti più concitati e rock-oriented, dove si inizia a riscontrare qualche timida risposta da parte del pubblico più esagitato; ma pur trovandoci ad un concerto lontano anni luce dalle sonorità e dall’estetica propria del metal, riteniamo fin troppo leggero e all’acqua di rose l’impatto degli Hands Of Time e della loro musica, persino rispetto alla proposta mai troppo spinta del celeberrimo headliner. Ad ogni modo alcuni dei pezzi in scaletta, estratti prevalentemente dall’ultimo arrivato “Time To Think”, ci mostrano un power trio affiatato e professionale, ben attento nel proporre un rock da arena studiato in tutti i suoi particolari, poco genuino quindi, ma artificialmente coinvolgente e sufficientemente propenso ad intrattenere pubblici variegati e poco definiti come in questi frangenti, compito non facile assolto però con scioltezza da questa band.

MARILYN MANSON
Gli opener della serata sono ancora sul palco per togliere la propria backline quando le urla di incitamento iniziano a farsi sentire prepotenti, invadendo tutta l’area concerti al grido di ‘Manson, Manson!’: è il simbolo più significativo dell’attaccamento più viscerale, quasi morboso, che molti dei presenti vivono nei confronti del loro idolo, rimasto invariato ed intatto anche a distanza di numerosi anni, passato incolume attraverso il periodo artistico più fosco e sterile vissuto dall’artista nel primo decennio degli anni Duemila, e solo parzialmente restaurato con la decente qualità dell’ultimo arrivato “The Pale Emperor”. Sono emozioni vibranti, sincere, quelle nutrite da figure di mezza età rimaste intrappolate nella malinconia adolescenziale delle canzoni del Reverendo, un sofferente sguardo sul passato immortalato per sempre nelle note dei grandi successi di “Antichrist Superstar” e “Mechanical Animals”, uno spirito decadente che convive però con l’entusiasmo ingenuo ed intenso dei più giovani accorsi al concerto, che del cantante americano hanno conosciuto ed apprezzato la svolta glamour rock iniziata da “Holywood” in poi, creando un interessante contrasto generazionale tra le prime file presenti sotto il palco. Le luci si abbassano, la musica di sottofondo scompare gradualmente ed un perenne fumo artificiale inizia a calare sulle note di apertura dell’intro pre-concerto: pochi attimi e si parte con “Deep Six”, primo singolo dell’ultimo lavoro accolto con un boato assordante e da un’esplosione di energia che pervade tutta la ObiHall. Manson fa la sua comparsa sul palco barcollando, di spalle al suo pubblico, avvolto in un pesante giaccone nero che ne occulta quasi completamente le fattezze, sommerso in un bagno di luci accecanti che rappresenteranno praticamente l’unica trovata scenica della serata, a dir poco spoglia per quanto riguarda scenografie, costumi e le suddette trovate sceniche che hanno reso popolare l’Anticristo rock per eccellenza. Il tiro dei pezzi, così come l’entusiasmo della gente, pur rimanendo alto con i rock-anthem “Disposable Teens” e “mOBSCENE”, inizia ad affievolirsi con la successiva “No Reflection”, finendo quasi per annoiare su “Cupid Carries Gun”. Il carisma di Marilyn Manson sembra offuscato e non brillante, il suo famigerato magnetismo on-stage obnubilato da una patina di stanchezza e manierismo che coinvolge anche i suoi fedeli musicisti, primo su tutti l’immancabile Twiggy Ramirez al basso, affetto da un overdose di noia, più che di droga, durante tutta la prestazione. Il pathos torna alto, altissimo, come le insicure stampelle-trampoli su cui viene eseguita “Sweet Dreams”, cantata a gran voce da tutto il palazzetto, mentre anche “Angel With The Scabbed Wings” riporta con la mente al periodo migliore del dannato cantore di Los Angeles, facendo percorrere più di un brivido sulla pelle dei meno giovani. Sarà proprio la seconda parte della scaletta, incentrata sugli episodi salienti di “Antichrist Superstar”, a ricordare da dove proviene il successo di Brian Warner e della sua band, includendo i suoi testi controversi, le sue azioni scandalose (fa quasi piacere notare come ancora, nonostante tutto, Manson compia ogni sera il gesto scandaloso di bruciare una Bibbia dal suo iconico pulpito anti-clericale) e, non per ultima, l’indiscutibile qualità dello shock rock messo in mostra quasi venti anni fa. In tal senso, il sipario cala dopo solo un’ora e un quarto con “Coma White”, probabile testamento artistico dell’americano, canzone simbolo di un’alienazione ed una dipendenza dalle droghe che sinceramente non sembra appartenere più molto ad una figura, almeno apparentemente, sobria e ripulita, eppure ancora maledettamente efficace nel trasmettere delle sensazioni impagabili per chi ha accompagnato determinate fasi delle propria vita con la musica del Reverendo. In definitiva, si è trattato più di un revivalistico amarcord per i vecchi estimatori che non di una dimostrazione di salute (artistica, naturalmente) moderna ed aggiornata, un concerto dove la nostalgia del passato ha prevalso sulla fredda concretezza del presente: Marilyn Manson appartiene ormai di diritto alla storia del rock mainstream, la sua figura shockante ha giocato un ruolo troppo importante nella creazione di un certo immaginario per poter essere dimenticata, ma dubitiamo che l’artista americano sarà in grado ancora a lungo di riuscire a mantenere in auge in maniera decorosa una nomea così altisonante, perlomeno per quel che riguarda le sue prestazioni in sede live.

 

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