A cura di Davide Romagnoli
Fotografie di Francesco Castaldo
Anche se i tempi dei palazzetti più grandi e delle aspettative ancora esaltanti le masse, per non parlare delle polemiche e proteste filo-religiose che contornavano la scena, sono tutte cose di un’epoca che fu, un’affluenza ancora stoica e fedele riempie il locale meneghino di zona Maciachini, con tutto il rispetto e la reverenza per un’icona che non ha ancora evidentemente abbandonato il suo fascino. E’ dunque il momento per molti di rispolverare il corpetto di pelle, l’eyeliner tenebroso, il mascara, il rossetto più oscuro, le borchie più appuntite e rinverdire i vecchi fasti di un mito generazionale; e anche, per alcuni nuovi adepti, il momento di conoscere per la prima volta se quello che si è visto nei dvd e si è tanto ammirato corrisponda effettivamente a realtà. “The Pale Emperor”, ultima fatica del Reverendo, in effetti sembrava essere stato un colpo di coda, o addirittura un risveglio del Vampiro delle Hollywood Hills, del Mefistofele di Los Angeles, del pallido imperatore del Sunset Strip, anche se non più artista rivoluzionario e controverso capace di scardinare a colpi di irriverenza e ‘maledettismo’ le regole della performance live e della musica tout-court. Le carte in gioco sono queste da molti anni ormai, e le ultime prestazioni non sono state all’altezza del passato. La data milanese, però, poteva forse essere l’occasione buona per tornare ad apprezzarlo. E le urla “Manson, Manson!” echeggiano fin dalle tarde ore pomeridiane in via Valtellina…
POP EVIL
Sintomo che il pubblico non é quello dei più avvezzi ai concerti, e probabilmente anche perchè pressochè composto dalle più giovani generazioni di fan del Reverendo, è proprio il fatto che quando salgono sul palco Leigh Kakaty e i suoi Pop Evil molti credono sia già salito proprio Mr. Brian Warner. Le urla “Manson, Manson!” accolgono quindi con un boato l’ingresso della band di North Muskegon, Michigan, e del loro alt-metal potente e sbarazzino, suonato con professionalità da performer più che rodati e con una setlist dotata dei migliori pezzi della loro carriera quasi quindicennale. L’apprezzamento del pubblico caldo ed appassionato colpisce pian piano anche la formazione sul palco in maniera diretta e meritata e il coinvolgimento della band è percepibile eccome, tanto che Kakaty si lascia andare a commenti inneggianti all’audience italiana come la migliore di tutte quelle testate fin lì. Frasi come “move your hands like a Kentucky bullrider” fanno scattare un movimento coinvolgente nella folla, anche se poco dopo la stessa mossa non riesce, quando il frontman vorrebbe far abbassare la folla per l’ultima “Trenches”, probabilmente vittima della situazione in cui su palco italiano la comunicazione in inglese non è fra le più immediate (cosa che ricorderà poco dopo lo stesso Manson). Fatto sta che la formazione supporter dei Michigan Wolverines riesce nell’intento di introdurre nella maniera più opportuna il main-act della serata: i singoli “The Boss’ Daughter”, “Deal With The Devil” e “Last Man Standing” sono fatti per essere suonati dal vivo e catturano per la loro verve catchy e radiofonica. Sintomo, questo, che l’appeal di un tour di Manson si muove ormai in queste tendenze.
MARILYN MANSON
Sul “Requiem” mozartiano si abbassano finalmente le luci. Queste volta le urla sono tutte per lui. E tutto quello che -anche piuttosto oggettivamente- si è continuato a dire nel corso di questa ultima decade sul Reverendo, ovvero performance fiacche, voce ormai andata, album deleteri, forma fisica persa, viene messo a tacere dalle urla fameliche della folla. E anche se il fumo (probabilmente con qualche problema tecnico) oscura il Reverendo e la band per qualche minuto di troppo, le luci degli smartphone sembrano essere più potenti di qualsiasi impianto luci di qualsiasi club e gli spintoni e la calca fanno percepire una passione che vorrebbe superare le critiche succitate. Il The Hell Not Hallelujah Tour in Italia inizia con “Deep Six”, dell’ultimo “The Pale Emperor”, e sembra che l’atmosfera sia quella giusta; e anche se “Disposable Teens” non è quella di una volta, la catchy “mOBSCENE” fa saltare un pubblico ancora più caldo della temperatura infernale del locale, come ricorda Manson abbracciando Twiggy (suona strano pensare a come un tempo, invece, lo menava simulando fellatio e quant’altro…). Ma anche se si tenta di scacciare il più possibile la nostalgia, purtroppo però i nodi vengono ben presto al pettine. “No Reflection” fa ricordare, con una riuscita ancora più piatta che da disco, i momenti più dimenticabili della discografia ultima del Reverendo: i pezzi vecchi non suonano più come una volta (pezzi come “Angel With The Scabbed Wings” sembrano fatti da una cover band) e i musicisti sul palco (compreso lo spento Twiggy, che sfodera un completino kitsch più alla Richard Benson che alla Ace Frehley) sono meri esecutori senza un un briciolo di identità performativa da parte loro, laddove tutto é incentrato sulla figura di Mr. Warner. Dolenti note musicali a parte, nessuno si aspettava che la voce fosse magicamente tornata dopo gli ultimi anni, ma anche l’attitudine del Reverendo è ormai scevra e povera di ogni estremismo e irriverenza. Manson rimane un performer affascinante e professionale, riuscendo addirittura a cavarsela quando -non si capisce bene se per problema tecnico o esecutivo- il finale di “Sweet Dreams” viene ciccato alla grande, ma è anche vero che tutto il suo concerto inizia e finisce a questi due aggettivi. Professionale, perchè riesce sempre a fornire uno show che si sforza di non uccidere del tutto la sua immagine, e affascinante, perchè il suo background artistico e performativo non può nemmeno essere ucciso da questi ultimi anni poveri di contenuto. Il buono della serata rimane unicamente nello spirito -veramente encomiabile- dei fan fedeli e caldi come non mai, che non abbandonano mai il capitano che affonda con la sua barca e che probabilmente sono anche riusciti a godersi ciò che di buono è stato offerto loro durante la serata. I brani migliori sono proprio forse quelli dell’ultimo disco, e non si capisce come mai manchi il nuovo e intrigante singolo “The Mephistoteles Of Los Angeles”; oltretutto l’aspetto da crooner blues di “The Pale Emperor” non è nemmeno minimamente presente nell’immaginario di questo tour, che presenta invece qualche finestra con rappresentazioni sacrali col volto del Reverendo, come se -ancora una volta- fosse tutta una messainscena ormai trita e ritrita con sempre meno budget. Certo è che la setlist comunque offre canzoni senza tempo, ma è innegabile, nonostante si stia parlando di capolavori, come “Coma White” non possa più esprimere nessun disagio romantico giovanile, “Tourniquet” e “Lunchbox” siano maldestramente ripetute come must da setlist e nulla più, “The Dope Show” non sconvolge più nessuno per l’esplicita manifestazione di dipendenza dalla cocaina e surrogati, “Antichrist Superstar”, con quell’altare di cartone, ormai non comunica nessuna trionfale ribellione all’America e al Cattolicesimo, e ogni profondità poetica e artistica della sua produzione sembra essere solo riproduzione e forzatura. E se a tutto questo si aggiunge qualche problema tecnico di troppo (non si riesce a capire bene, come d’altronde accade spesso nelle ultime esibizioni), momenti morti tra un pezzo e l’altro, il taglio di “Personal Jesus” e “Cruci-Fiction In Space” dalla scaletta indicata sul palco, una band poco comunicativa…ecco, si può essere clementi fin che si vuole ed amare alla follia il personaggio, ma ci si è trovati di fronte ad un concerto ben lontano dall’essere memorabile. Caro Manson, peccato…come recita il titolo del film di Scola degli anni Settanta: “C’eravamo Tanto Amati”.
Setlist:
Deep Six
Disposable Teens
mOBSCENE
No Reflection
Third Day of a Seven Day Binge
Sweet Dreams (Are Made of This)
Angel With the Scabbed Wings
Tourniquet
Rock Is Dead
The Dope Show
Lunchbox
Antichrist Superstar
The Beautiful People
Coma White