Dopo il disastroso gig meneghino del 2009 di supporto al penultimo studio album “The High End Of Low”, puntualmente recensito all’epoca sul nostro portale, ci accingiamo con timore ed un tenue filo di speranza ad assistere alla data milanese del “Hey Cruel World…Tour”. Sebbene l’estro artistico del fu Brian Warner appare a dir poco sbiadito in questi ultimi anni, notiamo sin dalla fila esterna all’ippodromo di San Siro una folta e scalpitante schiera di giovani e vecchi fan adoranti – alcuni di essi truccati e vestiti in maniera a dir poco pittoresca – in attesa di assistere allo show del Reverendo. Riuscirà Manson a resuscitare la sua beffarda e sardonica anima da provocatore o ci toccherà appurare di avere a che fare con un artista mestamente incamminato sul prematuro viale del tramonto?
MARILYN MANSON
Sono le 22:20 e le calde tinte della luce solare hanno lasciato il posto ai freddi colori della notte, palcoscenico visivo ideale per accogliere la mefistofelica ed irriverente truppa americana. Il capiente open space dell’ippodromo accoglie un nutrito numero di persone sparse in platea ed una discreta quantità accomodata in tribuna, importunate di continuo da un massiccio esercito di fameliche zanzare, che a fine serata avranno raccolto un ricco bottino. A parte questo piccolo, ma fastidioso inconveniente, finalmente emerge dalle casse la consueta ed inquietante intro narrata, la quale ha il compito di trasportarci nel mood dell’evento. I primi vagiti emessi dalla melodia contorta di “Hey Cruel World” fanno calare il grosso drappo nero, che fino a qualche istante prima impediva la vista sul palco, scatenando di conseguenza l’entusiasmo della gran parte del pubblico. L’iconoclasta frontman che fu appare tutto sommato in discreta forma vocale, sebbene sia supportato da un’anonima band di contorno, capitanata senza neanche troppa convinzione dal vecchio compagno di bagordi Twiggy Ramirez, ora passato alle sei corde. Se tre lustri fa Manson aveva scatenato con estrema arguzia l’ira della stampa più conservatrice e delle più importanti sette pseudo religiose a stelle e strisce, impegnate quotidianamente a scagliare anatemi contro di lui, oggi assistiamo all’esibizione di un interprete legato inscindibilmente ad un passato estremamente remoto, intrappolato nel suo personaggio in decomposizione, quasi costretto a raccontare le sue malefatte in una sorta di macabro cabaret. La scaletta è furbescamente incentrata sulle sue hit più famose, e così “Disposable Teens”, “The Dope Show” e “Rock Is Dead” svolgono puntualmente il compito di galvanizzare ed infuocare le anime della platea, così come il nuovo singolo “No Reflection”, episodio che acquisisce ulteriore efficacia e grande impatto in sede live. L’intensa interpretazione della malinconica e sensuale “Coma White”, – estratta dal monumentale “Mechanical Animals” – accompagnata da un’abbondante nevicata sul palco (chiari ed espliciti i riferimenti alla cocaina), assume le sembianze di un colpo di genio partorito in uno spettacolo portato avanti con il pilota automatico. A tratti incomprensibile l’atteggiamento bizzoso di Mr. Warner durante la discutibile “Pistol Whipped”, nella quale il Nostro, armato di chitarra, produce una serie di inconcludenti feedback contro l’asta del microfono in coda al pezzo per circa due minuti. Decisamente evitabile il fedele remake di “Personal Jesus” dei Depeche Mode, che poteva lasciare tranquillamente spazio almeno ad un estratto dell’ottimo “Portrait Of An American Family”, mentre l’oscuro ed ossessivo rifacimento di “Sweet Dreams (Are Made of This)” viene accolta da un boato dai fan, che pendono letteralmente dalle labbra dell’artista. Dopo poco meno di un’ora, la band abbandona il palco per qualche istante e nel frattempo viene sistemato il celebre palco sul quale al rientro appare uno spiritato Manson, che tenta invano di impersonificare la sua figura diabolica con “Antichrist Superstar”, in questa occasione completamente svuotata dalla sua efficacia, complici alcuni imbarazzanti e scolastici cali di voce. L’attore si ritrova impegnato senza troppa convinzione a stracciare un paio di Bibbie e a lanciarle in mezzo al pubblico, ottenendo ampi consensi dai fan avidi di poter collezionare questo cimelio. Le luci si spengono di nuovo e rimaniamo attoniti al buio per qualche minuto prima di veder ricomparire il gruppo che annuncia il suo arrivederci con “The Beautiful People”, brano che quindici anni fa ha consacrato i Marilyn Manson come superstar del nuovo millennio e che oggi assume le sembianze di un laconico epitaffio di una band che non esiste più.