Introduzione di Luca Pessina
Report a cura di Mattia Alagna e Luca Pessina
Foto cortesia di RETURN TO THE PIT
Tre edizioni di fila. Non ci nascondiamo più. Nonostante sia diventato un po’ più costoso rispetto a un paio d’anni fa, per chi scrive, il Maryland Deathfest è al momento il miglior happening al mondo; e, molto probabilmente, è lo stesso per chiunque segua con innata passione il metal underground e le derive più marce e deviate del mondo hardcore/punk. Non solo il festival di Baltimore è ormai diventato l’evento numero 1 per questo tipo di sonorità sul suolo statunitense, ma è ormai ai vertici anche per quanto riguarda il resto del globo, visto che festival come il tedesco Party.San o il ceco Brutal Assault hanno negli anni preso una piega un pelo più “mainstream”, mentre eventi come il Nuclear War Now!, l’Obscene Extreme o il Kill-Town Death Fest si rivolgono solitamente a una sola fascia di pubblico (rispettivamente black, grind e death metal), evitando il più possibile le contaminazioni. Il MDF, insomma, è oggi l’unico appuntamento al mondo in cui un amante della musica estrema underground può saziare ogni suo genere di appetito: sul palco del Sonar e sui due stage allestiti all’esterno – nella via che separa il suddetto locale dall’ormai famigerato “parcheggio death metal” situato sotto il cavalcavia della tangenziale – si esibiscono colossi che hanno a tutti gli effetti fatto la storia del metal estremo, band di culto che puntualmente scelgono Baltimore per compiere la loro reunion o il loro show “speciale”, una lunga serie di realtà di valore solitamente avulse ai grandi tour/festival e, infine, una bella selezione delle più agguerrite formazioni da scantinato, che in ogni caso l’avventore medio del MDF è solito conoscere e venerare tanto quanto i cosiddetti grossi nomi. Proprio la passione e la “cultura” che si respirano nei quattro giorni dell’evento rendono il MDF qualcosa di speciale: chi accorre a Baltimore ogni anno nell’ultimo weekend di maggio è generalmente un vero appassionato ed è presente solo ed esclusivamente per assistere ai concerti di artisti che ama. Certo, si “fa bordello” in compagnia, ma la ragione per cui si è qui, alla fine dei conti, è la musica: non si viene con l’idea di fare bunjee jumping, partecipare a una sessione di metal karaoke o salire sulle giostre. Ci si reca a Baltimore per “spararsi” ore e ore di musica massacrante, per condividere una passione che, spesse volte, è anche uno stile di vita. A maggior ragione negli USA, dove nell’underground i confini tra mondo metal e mondo hardcore/punk sono piuttosto labili e dove black metaller e punkabbestia anarchici stanno fianco a fianco senza mai manifestare divergenze attitudinali, politiche o altre amenità. Per quanto stucchevole possa suonare, la musica qui unisce e, per chi scrive, è un vero piacere ritrovarsi a trascorrere quattro giorni in un tale clima. Prima di lasciarvi ai report dei concerti, sottolineiamo come, tra le tre edizioni alle quali il sottoscritto ha preso parte, quella di quest’anno sia stata senza dubbio la più folle e selvaggia. Ad esempio, mai ci saremmo immaginati di poter vedere dei poliziotti seguire lo show dei Morbid Angel e mostrare le corna al pubblico dopo aver arrestato un “povero pirla” che aveva avuto la brillante idea di salire sul cavalcavia della tangenziale per seguire meglio il concerto; oppure di ritrovarci a contare le scarpe perse nel pit del Sonar e mai reclamate… o, infine, di vedere “crusties” aggirarsi mezzi nudi per il noto parcheggio e diventare un tutt’uno con l’asfalto, le pozze d’alcol e i cani che puntualmente si portano dietro. Questo e tanto altro è il Maryland Deathfest. Ancora una volta, siamo stati più che contenti di esserci stati e ci auguriamo vivamente di poter ripetere l’esperienza anche l’anno prossimo.
N.B. Nel redarre il report abbiamo volutamente ignorato band come i vari Suffocation o Napalm Death, che vanno in tour in Europa con estrema regolarità e che abbiamo già avuto modo di recensire numerose volte.
ABSU
Il “warm up day” del Maryland Deathfest presenta un bill che potrebbe tranquillamente essere quello di un rispettabilissimo festival di un giorno. Entriamo all’interno del Sonar mentre gli idoli di casa Dying Fetus stanno macellando una buona fetta di presenti, ma alla fine decidiamo di risparmiare le nostre energie per lo show successivo, che vede protagonisti gli Absu. Proscriptor McGovern è ovviamente dietro le pelli e gli ci vuole poco per aizzare le folla e convincerla a seguirlo in un set tiratissimo, che vede i Nostri pescare da vari periodi della loro discografia. In verità, le invettive del batterista/cantante fanno (sor)ridere i più, se non altro perchè recitate nel classico screaming strozzatissimo del Nostro, ma, dopo tutto, anche questo fa parte dello spettacolo. In molti, soprattutto tra coloro che non hanno familiarità con la band, sembrano restare nei pressi del palco anche solo per godersi questi intermezzi, quindi stima per Proscriptor, che evidentemente sa come attirare l’attenzione e far sì che il suo gruppo si esibisca davanti a più gente possibile. Del concerto apprezziamo sopratutto gli episodi provenienti da “Tara” (“Pillars Of Mercy” e “Manannán”), mentre rimaniamo un po’ freddini sugli estratti dall’ultima fatica. Comunque, il black-thrash epicheggiante della formazione regge bene i quaranta minuti ad esso concessi e scalda a dovere gli astanti, ormai del tutto calati nell’atmosfera festivaliera e pronti a godersi le imminenti esibizioni dei “pezzi grossi” della serata, ovvero Agalloch, Eyehategod e Autopsy.
(Luca Pessina)
CASTEVET
Ottima performance per i Castevet, che aprono le danze in occasione della seconda giornata del festival, purtroppo per loro di fronte a una main room ancora tutt’altro che gremita. Ma i Nostri non si fanno evidentmente scoraggiare e dimostrano di essere in gran forma, sfoggiando un sound, se possibile, ancora più coeso e aggressivo di quanto si sente sul loro debut album “Mounds Of Ash”, dal quale il loro set giustamente va ad attingere maggiormente, e facendo una gran lavoro nel non far mai calare l’intensità. La band riduce al minimo l’interazione col pubblico, optando invece per un atteggiamento più sostanziale, distaccato e freddo che li aiuta molto a trasmettere al pubblico una sensazione di intransigenza, professionalismo e grande serietà. In questa occasione, inoltre, la band presenta al pubblico il nuovo bassista, Nick McMaster, musicista che smussa senz’altro gli angoli e gli spigoli del sound della band, grazie a una padronanaza tecnica dello strumento quasi da virtuoso, che energizza e sprona non poco il set della sua nuova band. Il musicista infatti è principalmente noto per essere il bassista dei tecnicissimi Krallice, e in parte ha anche portato la rontondità e la precisione matematica di quella band anche nel sound dei Castevet. A conti fatti, insomma, la performance dei newyorkesi è impeccabile sul piano esecutivo. Se poi si prende anche in considerazione il particolare sound della band stessa, che fonde alla perfezione black metal, crust e hardcore, si ci rende conto che i Castevet sono senz’altro una delle band più particolari dell’intero festival, ed una di quelle di cui eravamo più ansiosi di seguire le gesta. Soddisfatti a pieno.
(Mattia Alagna)
NASHGUL
Tipica band da MDF, i Nashgul rendono il venerdì pomeriggio eccitantissimo con una rasoiata grind-core vecchio stampo che, per una mezzora scarsa, trasforma la sala interna del Sonar nel classico girone infernale a base di pogo e circle pit. Il gruppo spagnolo è in tour sulla east coast da qualche giorno e arriva a Baltimore già ben rodato e pronto a lasciare il segno. L’ultimo full-length “El Dia Despues Al Fin De La Humanidad” ha messo in mostra un buon songwriting e uno stile ibrido fra primi Napalm Death e proto-death alla Repulsion che non ha lasciato indifferente i più accaniti fan della sporcizia old school e quest’oggi abbiamo la conferma di tale consenso di pubblico: i Nostri vengono acclamati a più riprese e si lanciano in un set ultra serrato (quasi venti tracce proposte!) che infiamma i crusties così come i death metaller più vecchia scuola, soprattutto nei breakdown e nelle successive ripartenze, che costantemente chiamano a gran voce pratiche come appunto circle pit e stage diving. Uno show breve e senza pretese, ma che diverte proprio per la sua semplicità. Questa sì che è musica da festival: ad un evento simile, del resto, l’idea di concentrarsi troppo risulta a dir poco indigesta.
(Luca Pessina)
DEMIGOD
Esibirsi nel pomeriggio su uno dei palchi esterni non è il massimo al MDF, soprattutto quando vi sono circa 35 gradi e l’asfalto è incandescente. I Demigod, per giunta finlandesi, sembrano soffrire la condizione climatica non poco e forse è anche per questo motivo che il loro show risente di una presenza scenica e di un coinvolgimento della folla piuttosto modesti. Questi storici death metaller cercano comunque di indirizzare lo show su binari sicuri, proponendo il loro album di maggior successo, il classico del 1992 “Slumber Of Sullen Eyes”, quasi per intero e i fan più accaniti si godono il momento come un vero e proprio “concerto della vita”. Noi, dal canto nostro, non riusciamo però proprio a schiodarci dal nostro riparo sotto i pochi alberi presenti nell’area, anche se di certo le riproposizioni di “Transmigration Beyond Eternities” o della title track non ci lasciano completamente indifferenti. Nel palco interno la resa e il colpo d’occhio sarebbero stati sicuramente migliori, ma bisogna anche riconoscere che, nonostante tutto, i Demigod quest’oggi non hanno dato comunque l’impressione di essere perfettamente a loro agio sul palco. Forse i lunghi anni di assenza dalle scene devono ancora essere assorbiti del tutto.
(Luca Pessina)
TODAY IS THE DAY
Steve Austin si presenta sul palco dell’indoor stage del MDF con uno sguardo inorridito, come se la massa di persone davanti ai suoi occhi siano una qualche forma di vita parassitaria inferiore da estirpare. Chi conosce i TITD e quest’uomo sa benissimo che questa band è tanto musica e sostanza quanto personalità, e che il carattere rissoso, violento e arrogante di Austin sono ormai un tutt’uno indissolubile con la musica della sua band. I TITD dunque ci danno un altro inequivocabile esempio di quale tensione e carica il MDF riesca a iniettare nelle band che lo popolano e di come queste “sentano” l’evento come una cosa unica e irripetibile in cui dare il massimo assoluto. E i TITD infatti sembrano caricati a molla e diventano presto autori di una performance violentissima e molto fisica, in cui il loro ormai iconico e schizzoide mix di noise rock, grindcore e sludge metal trova sublimazione totale. “Spotting A Unicorn”, “Sidewinder”, “Afterlife” e “ Blindspot” sono solo alcune delle vere e proprie granate che Austin spinge in gola al pubblico e dal quale estrae poi la spoletta con un cinismo spietato. Erano anni che non assistavamo al reverendo così in forma e soprattuto così ottimamente accompagnato da dei musicisti degni del suo nome, che per una volta non si fanno eclissare dalla sua debordante personalità, ma che anzi lo aiutano a riempire il palco e a soffiare ancora più vita nelle canzoni dei TITD con una performance della sezione ritmica davvero coesa e squassante.
(Mattia Alagna)
NEGURA BUNGET
I rumeni Negura Bunget ne hanno fatta di strada. Partiti dalle loro rustiche origini est-europee, la band transilvana oggi gode di una sorta di cult-status tra gli ammiratori del black metal più contaminato e progessivo. L’attività live dei rumeni è ridotta al minimo e questo non fa che accrescere l’aura di mistero e il fascino di questa band davvero unica. Finita l’era di Hupogrammos, chitarrista e membro fondatore della band dal 1994, il comando dell’ensemble rumeno è ormai completamente in mano all’altro fondatore, il batterista Nergu, che si circonda per l’occasione da una nutrita schiera di musicisti per dare un volto e una voce alla sua band in sede live. Tutti i musicisti coinvolti fanno onore alle canzoni dei Nostri e sono fautori di una performance dignitosissima e a tratti anche esaltante, anche se quel “genio” percepibile su album come “Om” e “’N Crugu Bradului” dal palco fa non poca fatica a trapelare. Il sound dei nostri fa ampissimo uso di strumenti a fiato e a corde tipci del folklore e della tradizione (addirittura pastorizia) est-europea, mentre qui a Baltimore la band si presenta sul palco con una formazione canonica, provvista solo di flauto e tastiere come “optional”. Inutile dire che il sound dei rumeni esce dunque abbastanza standardizzato e scarno, anche se la qualità superba di canzoni come “Cunoașterea tăcută“ e “Norilor” non fa alcuna fatica a trapelare. Sarebbe bello vedere i Negura Bunget dal vivo se più immersi nel loro ambiente naturale, ma con una band così è sempre dura essere soddistatti a pieno, tanto è particolare la loro proposta e probabilmente anche difficile da trasporre sul piano live. Evidente comunque che fanno il massimo possibile per l’occasione.
(Mattia Alagna)
GODFLESH
Il ritorno dei Godlfesh sul suolo americano dopo ben dodici anni ha causato una vera ressa al Maryland Deathfest, con il palco esterno su cui la band di Birmingham si sta per esibire letteralmente preso d’assalto da fan accorsi con ogni probabilità da ogni angolo del continente Nord Americano, e non solo. Chi ha visto i Godflesh suonare negli anni Novanta, o ha visto Justin Broadrick esibirsi con i Jesu, saprà benissimo che quest’uomo è un vero perfezionista, e uno che perde le staffe facilmente. Le prime tre canzoni del set fanno trapelare la frustrazione di Broadrick un po’ con tutto: con il sound delle spie, con le immagini video da lui stesso controllate e proiettate alle sue spalle, e con i settaggi della drum-machine. Poi, dopo una manciata di pezzi, si ricorda dell’immenso evento che è sua responsabilità traghettare al successo più totale, ed è a questo punto che il musicista di Birmingham manda tutto a quel paese, si piega sulla sua chitarra comincia a macinare dei riff talmente enormi che devono aver sbriciolato i vetri di ogni palazzo di downtown Baltimore. G.C. Green dal canto suo, al basso non fa una piega. Il sound del suo basso è travolgente, perfetto fin dalla prima nota, e il groove eretto dal bassista è colossale dall’inizio alla fine senza mai mostrare alcuna incertezza o alcun segno di cedimento. E’ a tutti gli effetti la spina dorsale della band. La scelta della setlist infine è praticamente bibilica. Partiti con una “Like Rats” travolgente, la band compie una escursione tra i picchi più sommi della propria carriera. “Crush My Soul”, “Life Is Easy”, “Christbait Rising”, “Mothra” e “Pure” fanno aprire l’asfalto sotto ai nostri piedi, mentre le sorprese vere arrivano con una insapettatissima “Slateman” e una ancor più sorprendente “Dead Head”, non suonata dal vivo chissà da quanti decenni. Stiamo ancora una volta facendo i conti con una personalità particolarissima, ma l’evento, ovviamente, è di quelli imperdibili. Da segnalare un paio di curiosità di questo concerto dei Godflesh, che anche se proprio non da poco per lo meno sono state interessanti . La prima è la figuraccia fatta Justin Broadrick quando si è reso conto di aver chiesto ai tecnici delle luci se potessero cortesemente spegnere i lampioni della strada per creare più “ambience”. Il secondo aneddoto invece è stato commovente: proprio mentre i Godlfesh facevano il soundcheck, sull’altro palco all ‘aperto erano intenti a sparare le ultime cartucce i Napalm Death, vecchia band di Broadrick. E’ stato commevente vederlo tentennare la testa alla note di “Scum”, canzone da lui stessa scritta quando aveva probabilmente diciassette anni.
SETLIST
Like Rats
Christbait Rising
Streetcleaner
Life Is Easy
Tiny Tears
Avalanche Master Song
Dead Head
Spite
Mothra
Pure
Crush My Soul
Slateman
(Mattia Alagna)
UNSANE
Bello vedere dei vecchi amici bighellonare nel backstage. Insieme ai Today Is the Day, e agli assenti Melvins, gli Unsane sono gli unici sopravvissuti ancora in attività della Amphetamine Reptile Records e sono arrivati al MDF per fare onore a questa nicchia rumorista invitata a dire la sua dagli organizzatori. Ancora orfani di un convalescente Vinnie Sognorelli, il trio-bulldozer di New York non ci pensa una, due,o tre volte a fare il suo solito macello di rumore assassino, fatto di blues rock deforme e punk-hardcore schizzato, e si lancia subito in un set polverizzante che rispetto al tour in corso in gran parte ignora i primi lavori, concentrandosi invece sulla crema (lurida) della loro carriera post-reunion, con vari estratti dall’ultimo “Wreck” a farla da padrone. Alcuni tra il pubblico gradiscono, altri meno, ma visto che questi tre brutti ceffi continuano a sfornare ottimi album nel presente, la qualità non viene certo a mancare.
(Mattia Alagna)
SETHERIAL
È tempo di vero black metal al MDF. Spetta ai Setherial rappresentare la nera fiamma in questa prima vera giornata del festival e il gruppo svedese di certo non si tira indietro, vomitando tutto il suo gelido disprezzo sul pubblico inerme che gremisce la sala interna del Sonar. Diciamo subito che l’unica cosa che questa sera ci sentiamo di appuntare alla band è la scelta di aver inserito in scaletta solo un pezzo tratto dal mitico “Nord…” (“För Dem Mitt Blod”), che resta ancor oggi il suo album più riuscito e famoso; per il resto, Alastor Mysteriis e soci fanno decisamente onore alla loro fama semi-leggendaria, rendendosi protagonisti di un set lungo il giusto, dai suoni accettabili e dalla buona intensità (per certi versi inaspettata, visto che i Nostri non suonano live tanto spesso). La band si esibisce con tanto di corpse paint, indossando giacche e pantaloni di pelle, incurante del caldo torrido che regna all’interno del locale; al solo pensiero di cosa voglia dire avere addosso tali indumenti ci viene da svenire, ma gli svedesi, dal canto loro, non danno segni di cedimento, sembrando persino sempre più in forma ed entusiasti man mano che il concerto procede. Al di là dei soliti Marduk o Watain, il pubblico statunitense non è abituato a vedere realtà underground di questo tipo live da queste parti, quindi il responso è chiaramente caloroso. I Setherial vengono accolti da veri re del black metal e lasciano il segno esattamente come ci si aspettava.
(Luca Pessina)
NASUM
Spetta ai Nasum chiudere questo venerdì al Maryland Deathfest. Chi scrive ha avuto modo di vedere varie volte il gruppo all’opera nella sua vera incarnazione – ovviamente quella con Mieszko Talarczyk al microfono e alla chitarra – e stasera si accinge ad assistere allo show dei Nostri con una certa curiosità. Tutto sommato, non c’è timore che la band faccia una brutta figura dal punto di vista esecutivo, visto che Keijo Niinimaa è un buon frontman e che tutti gli altri membri hanno già fatto parte prima o dopo della lineup. Piuttosto, si è curiosi di vedere come il pubblico reagirà alla performance, anche se è probabile che buona parte della gente presente questa sera non abbia mai avuto modo di vedere on stage i vecchi Nasum e che quindi sia impossibilitata a fare un raffronto. In tutta sincerità, per il sottoscritto è come assistere a uno show di una cover band; possibilmente, la miglior cover band al mondo, ma pur sempre una cover band. Del resto, con le più che dovute proporzioni, è come se i Metallica si esibissero senza James Hetfield – ovvero senza il proprio cantante storico e senza colui che ha composto la maggior parte della musica – ma con personaggi come Dave Mustaine o Kerry King sul palco: indubbiamente un evento speciale, ma pur sempre qualcosa di diverso dall’originale. Parte “Mass Hypnosis” e ci buttiamo nel pit: la folla è entusiasta, i musicisti pure e le prime tracce vengono snocciolate senza che si abbia un secondo per rifiatare. Il gruppo suona effettivamente bene e, nonostante dei suoni forse un po’ troppo alti e confusi, rende piena giustizia al repertorio. Le due chitarre, soprattutto per i brani degli ultimi due album, sono dovute e il bassista Jesper Liveröd riesce anche ad occuparsi delle backing vocals, proprio come faceva una volta (e come ha fatto nei Burst sino a pochi anni fa). L’esecuzione è insomma piena e potente e i Nostri, guidati da un Niinimaa ben calato nella parte, non fanno prigionieri. Con “Fury” e “Wrath” il concerto entra nel vivo, per poi esplodere definitivamente nel finale, affidato a classici come “Circle Of Defeat” e “Inhale/Exhale”. A fine set, c’è quasi da contare i feriti, proprio come succedeva un tempo. Ma questa volta, purtroppo, la scena non è contemplata da Mieszko e dal suo ghigno.
(Luca Pessina)
LOOKING FOR AN ANSWER
Nella giornata di sabato arriviamo al Sonar giusto in tempo per goderci il set dei Looking For An Answer. La grindcore band spagnola è da qualche tempo parte del roster Relapse, etichetta che ha base nella zona, quindi è ovvio che i ragazzi ci tengano a fare bella figura davanti ai loro sponsor. Missione compiuta, diremmo… perchè il quintetto spazza letteralmente via fan e curiosi con uno show dinamitardo, che non presenta pause nè difetti formali. Probabilmente al mixer i Nostri hanno messo Mazinga, perchè i suoni sono letteralmente enormi: nemmeno gli headliner della sera prima hanno goduto di una tale potenza e definizione. Il grindcore vecchia scuola della formazione fuoriesce dagli amplificatori come se fosse un Mammoth e funge da base perfetta per le “evoluzioni da pit” dei più esagitati. Si poga proprio di gusto, quasi come se si trattasse della fine della giornata e si avesse la consapevolezza che di lì a poco avremo modo di metterci a letto e riprendere le energie. Invece sono appena le due del pomeriggio e i Looking For An Answer stanno dominando il palco interno del Sonar da band navigata, autoritaria on stage tanto quanto chissà quale nome storico. Un grande concerto, il loro, senz’altro tra i migliori di sabato. Napalm Death e Terrorizer ne sarebbero stati orgogliosi.
(Luca Pessina)
DRAGGED INTO SUNLIGHT
La band che per il sottoscritto si contenderà in eterno con gli Ulcerate lo scettro di migliore band esibitasi al Maryland Deathfest 2012. Questo combo britannico è poco più che esordiente, ma già mostra la stoffa di chi sta cambiando i connotati dell’extreme metal dal di dentro. I Nostri, come al loro solito, fanno uso del loro ormai tipico live show, già riconoscibilissimo nonostante la limitata attvità live della band. Scultura in ferro con pentacoli, testa di capro e candele piazzata davanti al palco – dove canonicamente risiederebbe un vocalist – strobo bianco a balenare dietro la batteria, tutti e quattro i musicisti con le spalle rivote al pubblico e via così, senza muoversi e senza pause. Per quaranta orrendi minuti la band si addentra, trascinando il pubblico con sè, nei meandri di quell’”Hatred For Mankind” che ha scombussolato un po’ tutto la scena estrema nel 2011. La band suona incredibilimente coesa, il suo strambissimo e soffocante sound dal vivo esce ancora più estremizzato e catastrofico di quanto si sente su supporto musicale. L’unica chitarra dal vivo inoltre rende il sound dei Nostri più scarno e gelido, con tinte quasi “punk”, che trasmettono una visceralità e crudezza davvero atroce. Inappuntabile la sezione ritmica, che nei menadri dei vari sali-scendi sia musicali che emotivi che sono l’essenza dell’assurdo sound dei Nostri, non sbaglia mai un colpo e mantiene sempre a fuoco la performance della band, risultata in definitiva solidissima e squassante. La carneficina di black metal, death metal, doom metal e prog dei Dragged Into Sunlight si consuma così, tra una ferocia difficilmente calcolabile e una perizia tecnica invidiabile. Band praticamente completa sotto l’aspetto sia formale che sostanziale e performance assolutamente da incorniciare.
(Mattia Alagna)
DEVIATED INSTINCT
Annus domini 1984. Tanto indietro si spinge la storia dei brittannici Deviated Instinct, altra band che il MDF ha “riportato in vita” e che ha voluto mettere su un palco dopo anni di assenza a dimostrazione della loro grande influenza, quasi fosse una lezione di storia. I Deviated Instinct sono una crust band che fin dagli esordi si è sempre distinta dai suoi pari per la costante e morbosa presenza nel loro sound di sonorità e strutture musicali più prossime al death meral che al punk. La band sul palco fa dunque grande sfoggio del suo pionieristico sound ed è fautrice di un set devastante, nella sua essenzialità primordiale, senza però proporre nulla dei clichè tipici del death metal. Il suono sguaiato, oltranzista, essenziale, ma brutale della band inglese offre una fotografia nitidissima di quanto fosse fiorente quella scena punk brutalizzata inglese che a metà anni Ottanta diede vita a tante realtà più uniche che rare come i Discharge, i Doom, i Napalm Death, gli Amebix e così via. Lo show dei Deviated Instinct, in definitiva, è null’altro che una gran lezione di stile e attitudine, da parte di una band che ha raccolto sempre troppo poco rispetto all’immensa influenza avuta fino ad oggi.
(Mattia Alagna)
CONFESSOR
I Confessor sono un vero e proprio nome di culto del panorama metal. Il debut “Condemned”, uscito nel 1991 su Earache, potrebbe essere considerato a tutti gli effetti come il primo – e tutt’oggi unico – esempio di doom metal “tecnico”. I Nostri sono pionieri di un genere che, tutto sommato, non ha fatto proseliti: pur essendo venerati da vari intenditori, nessuno li ha mai davvero copiati e “Condemned” rimane una mosca bianca all’interno della scena doom, così come di quella progressive: è troppo contorto, “strano” e cangiante per l’ascoltatore medio di Candlemass e compagnia, ma, al tempo stesso, troppo lento, solenne e “metal” per la comune frangia prog. Ci aspettiamo di vedere tanti die-hard fan per la performance, magari accorsi a Baltimore quasi esclusivamente per i Confessor, e infatti le cose vanno proprio così: la band si esibisce all’esterno, a ora di cena, e le prime file davanti al palco sono composte per intero da persone che sanno a memoria ogni singolo verso o passaggio musicale. Verso il fondo, invece, si avvistano quasi solo curiosi, apparentemente incerti su come decifrare che cosa il gruppo sta proponendo. Il colpo d’occhio, tutto sommato, è discreto, ma non certo trionfale. I Confessor, come previsto, sono troppo “strani” per l’avventore medio del MDF. Inoltre, la loro presenza scenica è tutto fuorchè brillante, quindi attirare l’attenzione per i Nostri è realmente un’impresa ardua. Li seguiamo proporre “The Stain” e la title track del loro “classico” e pensiamo che sarebbe stato meglio per loro esibirsi al chiuso: la calura e il grigiore di Baltimore mal si sposano con il loro sound. I fan comunque non si lamentano, e, a dire il vero, nemmeno noi: l’esecuzione, al di là di tutto, è più che valida e ci rallegriamo di aver trovato una chicca del genere come break tra un massacro e un altro.
(Luca Pessina)
NOOTHGRUSH
Bene, ora stiamo per descivervi una delle performance vermente più esaltanti dell’intero festival. A volte ritornano. E a volte ritornano per fare male. I Noothgrush arrivano al MDF per fare veramente male e questo è immediatamente chiaro fin dalle prime note di “Oil Removed”, canzone-sarcofago che inuma letteralmente la folla in una tomba di rumore. Inedita anche la formazione dei Nostri, ora allargata a quattro grazie all’aggiunta dietro al microfono del loro carissimo amico Dino Sommese (ex-batterista dei Dystopia e degli Asunder e attuale batterista dei Ghoul), corso in aiuto dei suoi amici dopo che il bassista e ormai ex-vocalist dei Noothgrush Gary Niederhoff ha perso definitivamente l’uso delle voce. Che dire della performance di questa leggendaria sludge metal band californiana assente dalle scene da oltre dieci anni? Che è semplicemente colossale e violentissima. I riff di Russ Kent piegano la spina dorsale a tutti i presenti come una forza inarrestabile, e si percepisce nella stanza lo spostamento insopportabile di enormi masse d’aria sospinte dagli ampi. Perfomance a dir poco stellare che, come appena accennato, è, almeno per il sottoscritto, una di quelle da podio dell’intero festival.
(Mattia Alagna)
TSJUDER
Se la memoria non ci inganna, quella di oggi è la prima esibizione su suolo americano degli Tsjuder… e si vede! Il Sonar è stra-pieno per accogliere i norvegesi, che salgono on stage belli carichi e pronti a “buttare tutto in caciara e blasfemia”. Si vede che i Nostri hanno preparato minuziosamente la performance, perchè i suono sono ben più curati rispetto a quelli di altre black metal band che si sono esibiti sinora e perchè la setlist pesca da buona parte della discografia, andando a formare un piccolo “best of” che certamente fa la gioia dei fan del posto, che hanno atteso questo momento per vari anni. La parte del leone la fanno naturalmente gli estratti da “Desert Northern Hell”, il disco di maggior successo del terzetto, dal quale vengono suonati “Helvete”, “Mouth Of Madness”, “Unholy Paragon” e “Ghoul”. Al sottoscritto, lo show ricorda parecchio quanto gli Immortal erano soliti ricreare sul palco negli anni ’90: suoni graffianti, presenza scenica essenziale e tanto sudore, con la musica sempre e comunque in primo piano. Le influenze thrash di alcuni brani in sede live acquistano maggior vigore e, anche se “pogare non è black metal”, il pit ben presto si anima e riflette al meglio quanto sta avvenendo on stage. Due inaspettate cover – “Sacrifice” dei Bathory e “Deathcrush” dei Mayhem – chiudono il set in una sorta di tributo ai padri di questo genere di musica. Gli Tsjuder sono arrivati a Baltimore per farsi finalmente vedere dal pubblico americano, ma evidentemente anche per insegnare a quest’ultimo un po’ di storia.
(Luca Pessina)
WINTER
Ormai completamente “scongelati”, gli Winter continuano la loro sporadica ma costante stringa di apparizioni live che rimangono comunque per ora esclusivo appannaggio degli eventi più esclusivi ed importanti, come la chiusura della giornata di sabato del MDF 2012 appunto. Il trio newyorkese non può far altro che riproporre più o meno la stessa setlist proposta in tutti gli altri eventi, visto il loro repertorio praticamente limitato ad un solo album e ad un EP, in oltre venticinque anni di storia della band. Tuttavia non si può che ribadire allo sfinimento che questa band, soprattutto in sede live, è in possesso di un sound più unico che raro e completamente sui generis. Se la pesantezza della musica dei Nostri è dunque assolutamente squassante, e la lentezza con quale la somministrano, assolutamente annichilente, va anche detto che non è vi alcuna sporcizia, alcuna perturbazione o alcuna forma spuria nel loro sound, e questo li rende dal vivo davvero una band stupefacente. Quando si suona death-doom comatoso a quei livelli di pesantezza, lentezza e brutalità, come si fa a risultare anche estremamente “estetici” e sontuosi? Questo solo i Winter lo sanno, ma resta il fatto che i suoni di questa band in sede live, nonostante tutta la rivoltante pesantezza di cui la loro musica è pregna, sono assolutamente perfetti, ricercatissimi e convogliati al millimetro. Il feedback è talmente controllato che la band riesce addirittura come a farlo sparire in presa diretta, come se in un assurdo gioco di prestigio. Come un buco nero appunto, il sound di questa band inghiotte tutto e non fa rimanere alcun frammento di rumore in vita. Tutto viene avvolto dal chaos e poi desintegrato. Band davvero più unica che rara.
(Mattia Alagna)
DISMA
Assistiamo allo show dei Disma sotto un sole impietoso, nel primo pomeriggio di domenica. L’arsura è insopportabile, ma riusciamo a resistere: d’altronde, la curiosità di vedere la band all’opera è troppa e quest’ultima si sta per di più rendendo protagonista di un gran bel concerto. L’ex Incantation Craig Pillard non ha perso il suo growling inconfondibile, come del resto dimostrato nel recente “Towards The Megalith”, e il resto della band lo segue a ruota, sfoderando una prestazione massiccia. Fa sorridere vedere questi omaccioni sul palco: jeans e maglietta, il fisico che non è più quello di un ragazzino, nessuna pretesa di “fare spettacolo”… i membri dei Disma sembrano aver appena smesso di lavorare. Ce li immaginiamo in ufficio, in fabbrica, nei campi… persone normalissime, ma con una passione per il death metal. Il pubblico li acclama e i Nostri, umili e un pochino insicuri, nonostante abbiano dato alle stampe uno dei migliori dischi death metal del 2011, sembrano quasi intimiditi davanti a una tale risposta: si vede che i live per questo gruppo sono una cosa rara. “Lost In The Burial Fog” ci spazza via e siamo grati ai Disma per tanta maestosità death metal. Alla fine, però, ciò che più ci rimane impresso dello show è l’attitudine dei Nostri e il colpo d’occhio generale: cinque ragionieri suonare musica abominevole davanti a una folla di scalmanati. Priceless.
(Luca Pessina)
COUGH
Altra nube tossica proveniente dalla lurida pancia del profondo sud degli Stati Uniti. I Cough sono una band di doom metal praticamente brutalizzato da una carica immonda di satanismo e nichilismo. Il loro sound è fortemente esoterico e trasuda maligno da ogni poro. Le ritmiche di questa band sfiorano lo sveniment , tanto sono lente e comatose, e la loro musica, tutta basata sulla ripetizione e il volume, offre poche variazioni. Il loro show dunque è senz’altro qualcosa che gli amanti del genere possono apprezzare, ma è palpabile in sala l’insofferenza di una buona parte del pubblico, che piano piano si è fa meno folto e più sparso. Reazione comprensibile, comunque, visto che il doom metal dei Nostri è talmente rallentato, monolitico e unidirezionale che a tratti anche il sottoscritto, che apprezza non poco certi suoni, ha la sensazione di essere entrato in uno strano stato di ipnosi o semi coscienza. La band propone un set ristrettisimo, dovuto alla durata enorme delle propre canzoni, propendo tre, forse quattro – difficile capirlo – brani dal fortunato debutto “Ritual Abuse”, uscito nel 2011 per la Relapse Records. Insomma, live set al limite dell’estenuante, ma esperienza che andava comunque fatta. Senza dubbio la band più “lenta” del lotto.
(Mattia Alagna)
RWAKE
Poteva mancare il southern metal al MDF 2012? Certamente no. Dopo gli Eyehategod, dunque, ecco che grazie ai Rwake possiamo allegramente subire un’altra infornata di veleno sudista di quello puro e della qualità più atroce. Incredibile come queste band non solo ci sono, ma ci fanno anche, o viceversa, come volete voi. Sta di fatto comunque che i Rwake ci riserbano uno dei momenti più avvincenti e “brutali” del festival, grazie alla condizione veramente atroce in cui versa il frontman C.T.. Non passano neanche tre minuti dall’inizio del set della band dell’Arkansas, infatti, che il paffuto vocalist comincia a inondare il palco di vomito. Appena salito sul palco, il vocalist già appare alquanto confuso e “perso”, ma dopo giusto lo sforzo di due urla, i probabilmente cinque litri di whisky appena trangugiati dal nostro amico nel backstage devono aver fatto fatica a rimanergli dentro, ed è così che si consuma di fronte ai nostri occhi una delle scene più oneste, divertenti e avvincenti del MDF 2012. Per la cronaca, infine, i Rwake, una volta che C.T. si riprende dal momento infelice di cui è protagonista, suonano egregiamente e sono fautori di un set violentissimo, sguaiato e quasi maledetto, proprio come il verbo southern sludge nichilista richiede. Da sengnalare il fatto che i brani del nuovo “Rest” suonino molto meglio dal vivo che su disco, aspetto questo che ci fa ricredere su più di un dubbio che avevamo sulla effettiva qualità di quel lavoro. Band onestissima e molto diretta, insomma, che fa il suo sporco lavoro senza grosse sbavature.
(Mattia Alagna)
ULCERATE
Nonostante delle nerborute radici ancora ben ancorate alla solida e inscalfibile roccia del death metal, gli Ulcerate sono una band vincente perchè assorbono energie vitali anche da altri mondi musicali limitrofi e sono dunque come possessori di una sorta di “super sound”. Il death metal dei Nostri, infatti, oltre ad essere sferzante e trucido come il buon death metal dovrebbe essere, è anche maestoso, monumentale, vasto ed estremamente fiero. Di riflesso, la loro presenza sul palco è altresì fierissima e trasmette un fortissimo senso di immersione, vastità e emotività. Il pilastro centrale della band è senz’altro il batterista Jamie Saint Merat, musicista dalle doti tecniche assolutamente fuori dal comune, dotato di una creatività e inventiva dietro le pelli che pochi batteristi possono vantare. Il sound degli Ulcerate, dunque, grazie alle doti quasi balistiche di Saint Merat, ha un andamento quasi ondoso e propulsivo, che appare inarrestabile. Le ritmiche sono tutte dettate dalle sue escursioni allucinanti sui tom e da un un uso del doppio pedale che appare disumano in tutto, mentre le due chitarre e il basso sembrano semplicemente creare ambience infernale intorno alle contorsioni percussive del batterista. Il risultato è scoinvolgente. Il rumore avvolge ogni cosa come una nube tossica, ma questa ha anche al suo interno un cuore pulsante e una forma ben definita. Soprattutto gli estratti dall’ultimo, eccellente “The Destroyers Of All” trasmettono in sede live questo senso di vastità inarrestabile. Delle squassanti e stranianti “Burning Skies”, “Omens” e “Dead Oceans” rappresentano il “grosso” del set dei neozelandesi, ma la conclusiva “Everything Is Fire” fa da closer perfetta riportandoci dall’annegamento in un oceano di lava di nuovo sulla terra ferma a subire una sana mazzata di death metal futuristico. Band davvero stellare, che in sede live non fa che confermare tutte le voci di reverenziale ammirazione che circolano sul loro conto.
(Mattia Alagna)
MORGOTH
Rispetto ai Disma, i Morgoth non possiedono certo chissà quante marce in più a livello di carisma, però i tedeschi possono contare su un frontman decisamente esperto come Marc Grewe, che può permettersi di reggere da solo tutta la scena. Per l’avventore medio – quello che non è die-hard fan nè dei Disma nè del quintetto teutonico – lo show dei Morgoth risulta quindi più divertente: i musicisti tengono il palco con maggior scioltezza, i suoni sono un po’ più curati e l’entusiasmo di Grewe si rivela ben presto contagioso. Proprio come quella all’Hellfest 2011, la performance dei Morgoth è tecnicamente ineccepibile, con un Marc Reign sugli scudi dietro le pelli e una coppia d’asce molto affiatata e che non perde un colpo. Come al solito, nella setlist viene dato spazio esclusivamente al materiale sino a “Odium” (compreso), in modo da accattivarsi facilmente le simpatie del pubblico del MDF, che probabilmente non gradirebbe le derive post punk e industrial di un album come “Feel Sorry For The Fanatic”. Fa sempre un caldo atroce, ma i Morgoth paiono sopportarlo alla grande e riescono a tenere alta la tensione con un set molto serrato e coinvolgente, che tocca i suoi picchi all’altezza della magnifica “Under The Surface” e del classico “Isolated”, questa volta posto in chiusura. Plauso finale a Grewe anche e soprattutto per aver indossato pantaloni lunghi di pelle con 40 gradi!
(Luca Pessina)
SAINT VITUS
Wino e company devono essere probabilmente arrivati sul palco dopo una giornata a bere nonstop, a giudicare dallo stato con cui si presentano al pubblico del MDF a sera ormai iniziata. Nessun problema, comunque… se non sono morti ora, dopo trent’anni di vita da cani, a questo punto non creperanno più. Questo loro stato alteratissimo, anzi, rende solo la loro performance ancora più energica e tipica; del resto, saimo di fronte a una band fatta di motociclisti e avanzi di galera che non hanno proprio nulla da perdere e che in vita loro devono averne viste di cotte e di crude. I Nostri di sorprese ne riserbano ben poche, ma il numeroso pubblico accalcato sotto al palco non è lì per assistere a chissà quale rivoluzione, ma per sentire solo e unicamente una sana dose di classico doom metal americano fumoso e pessimista, come solo i Vitus sanno suonarne. Vocalmente Wino sta vivendo una seconda giovinezza, e ormai dal vivo sembra non sbagliarne una. La sua performance è a dir poco passionale ed emozionante e la sua interazione col pubblico costante e caldissima. Dave Chandler, bandana arrotolata, sempre calata in fronte, dal canto suo non fa che fare eco allo stato splendido di Wino e suoi assoli, come sempre strampalatissimi, e suoi riffoni carbonizzati fanno gioire il pubblico senza riserva alcuna. Altra band storica che a cospetto dei tempi in rapido cambiamento e alla eterogeneità del pubblico, riesce sempre a catalizzare una approvazione pressochè unanime.
(Mattia Alagna)
ELECTRIC WIZARD
Il carrozzone stonatissimo di Jus Oburn ci mette ben mezz’ora ad ingranare una qualsivoglia marcia, ma quando si vive a quello stato di narcotizzazione, le cose non potrebbero andare altrimenti. Quindici minuti buoni di rumore e feedback, altri quindici minuti di droni e tribalismi mummificati e obesissimi, e infine una diga che si sfalda rovesciando sulla folla dal MDF una gigantesca slavina di watt affumicati e tumefatti da fare schifo, materializzatasi sulle note si “Supercoven”. I Wizard seguono poi un copione completamente privo di alcun colpo di scena, ma è proprio questo copione ripetuto ormai da quasi vent’anni che li rende così celebri e iconici; e dunque, a Jus e soci, nessuno chiede altro se non una letale, continua e inarrestabile dose di puro e semplice doom metal ultra-stonato e gravido di melma, come solo lui e i suoi compagni sanno produrne. E proprio questo ci somministrano, questi quattro cavernicoli del watt di Dorset. Oltre un’ora di pesantezza pachidermica, esoterica e completamente narcotizzata, che striscia sulle note vecchie di “Dopethrone” e “Return Trip”, e su quelle più recenti di “Black Mass” e “Witchcult Today”, giusto per nominare alcuni di questi anthem di strisciante cacofonia wizardiana. Show prevedibilie praticamente in tutto, ma non per questo privo di emozioni. Anzi.
(Mattia Alagna)
SARGEIST
Parecchio black metal a questa edizione del Maryland Deathfest. La palma di miglior show della legione nera va probabilmente ai Sargeist, che si presentano sul palco interno del Sonar incappucciati e truccati come nelle foto dell’ultimo album, “Let The Devil In”. Pare di aver davanti un gruppo di frati posseduti dal demonio, ma il divertimento dura solo sino a quando i Nostri iniziano a suonare: il pit infatti si anima tantissimo e ci costringe a spostarci sempre più in fondo per non venire investiti da gente invasata. Come tante altre black metal band chiamate a prendere parte a questa edizione, i Sargeist sono qui per la prima volta e non hanno in programma un tour. La possibilità di vederli è una soltanto, almeno per l’immediato, e, di conseguenza, il pubblico accoglie i finlandesi come dei veri e propri messia (satanici, ovviamente). E i Nostri, dal canto loro, paiono effettivamente mettercela tutta per ben figurare, proponendo una scaletta che è sostanzialmente un “best of” della loro produzione e suonando con quel distacco prettamente finnico che in un contesto come questo – dove la proposta musicale è ugualmente gelida – risulta azzeccato e affascinante. Il sound dei Sargeist, agghiacciante ma sempre velato di una melodia ben distinguibile, coinvolge fan e curiosi per tutti i quarantacinque minuti a disposizione del quartetto, rivelandosi particolarmente adatto a essere proposto dal vivo; tutto questo a dispetto del fatto che, come tanti altri colleghi, i Nostri tendano a non esibirsi live troppo spesso. C’è un’immediatezza alla base del sound della band che rende quest’ultimo davvero accattivante, senza però compromettere l’integrità e la malvagità che il vero black metal dovrebbe sempre e comunque mantenere. A ben pensarci, questi finlandesi potrebbero raggiungere vette di popolarità notevoli se solo lo volessero, essendo tutto sommato più “easy listening” di gruppi come Watain o Dark Funeral. I Sargeist però rimangono nell’underground, apparentemente soddisfatti del loro status di “nome per pochi” e incuranti di ciò che avviene nella loro scena di appartenenza. A noi, comunque, va benissimo così, soprattutto se questa attitudine porta a concerti speciali e ad album sempre curati nei minimi dettagli.
(Luca Pessina)
MORTUARY DRAPE
Il fatto che siano proprio i Mortuary Drape a chiudere la decima edizione del Maryland Deathfest è motivo d’orgoglio per noi italiani. I piemontesi sono una vera e propria band di culto e la loro prima apparizione sul suolo statunitense viene salutata da un Sonar stra-pieno di fan e curiosi, il quale esplode non appena i Nostri, una volta compiuta la loro classica entrata cerimoniale, attaccano con la vecchia “Primordial”. I suoni sono più che decorosi e l’impatto thrash di parte del materiale della formazione coinvolge subito anche i più scettici: a tarda ora, per giunta nell’ultima sera del festival, una proposta troppo atmosferica e cerebrale avrebbe magari portato parte del pubblico a disinteressarsi, invece i Mortuary Drape vanno dritti al sodo con una serie di tracce ficcanti e scatenano un pit di belle proporzioni, che troverà pace solo al termine della magica “Vengeance From Beyond”, una delle primissime “hit” della band, che viene suonata praticamente a ogni show sin dagli anni ’80. Chi scrive ha avuto modo di assistere a concerti dei Mortuary Drape parecchie volte, ma solo quest’oggi si rende pienamente conto dello status e dell’importanza che Wildness Perversion e soci ricoprono all’interno del circuito black/horror metal. Spesso certe band vengono descritte come “speciali” o “importantissime”, quando magari, in realtà, non sono mai riuscite a lasciare un segno al di fuori della loro scena locale o, addirittura, della loro ristretta cerchia di conoscenze e die-hard fan. I Mortuary Drape, invece, possono vantarsi di avere portato il loro nome ben oltre confine e di aver dato vita a un vero e proprio culto underground, facendo esclusivamente leva sulla qualità della loro musica. Dopo oltre venticinque anni di carriera, un’esibizione simile, davanti a una tale risposta di pubblico, è un premio più che dovuto.
(Luca Pessina)