Report a cura di Luca Pessina
Foto di Returntothepit.com
Il sottoscritto nel 2013 si è preso una pausa dal Maryland Deathfest per dedicarsi ad altri interessi, ma non nasconde quanto sia stato duro non presenziare al proprio festival preferito lo scorso anno. La primavera appena trascorsa ha però offerto la “finestra” giusta per prenotare un nuovo viaggio oltreoceano e così per chi scrive il Maryland Deathfest 2014 ha potuto diventare realtà. Siamo arrivati in quel di Baltimore carichissimi come sempre ed è stato subito un piacere constatare come l’happening, pur essendosi un filo ingrandito, non abbia perso nulla del suo spirito originario. Il Maryland Deathfest è e rimane l’evento principe per chiunque segua la musica estrema underground a tutto tondo. Da qualche tempo a questa parte, la rassegna statunitense ha trovato il modo per offrire un cartellone letteralmente “da panico” per un death metaller legato alle ramificazioni più estreme e underground del genere, così come per un hardcore/grinder da centro sociale, senza dimenticare sempre più numerose – e gradite – “pillole” di black metal, doom e sludge, le quali rendono il bill ulteriormente vario e competitivo, quasi come se si trattasse di una risposta made in USA ai vari Roadburn ed Hellfest (quello dei palchi “minori”). D’altra parte, la cura riposta dagli organizzatori nell’allestimento di un cartellone sempre avvincente e originale è da tempo fuori discussione: il MDF è l’esempio perfetto di festival organizzato da persone che amano veramente gli estremismi sonori e che hanno tutto fuorchè una mentalità chiusa; i gruppi chiamati a parteciparvi sono quasi sempre al top dei loro rispettivi filoni, hanno un seguito più o meno “di culto” e non sono soliti inflazionarsi con mille uscite o tour. L’evento, in sintesi, racchiude tutto ciò che il fan medio, soprattutto americano, non può avere modo di vedere nei soliti tour che attraversano il continente: ogni show è speciale, se non addirittura esclusivo. Sulla lineup, insomma, non si può proprio dire niente di negativo. Per quanto riguarda invece l’assetto del festival, quest’anno abbiamo notato alcuni cambiamenti che non sempre sono stati accolti con favore dal pubblico. Per cominciare, l’area principale, quella che un tempo era costituita dalla strada e dal parcheggio situati di fronte al Sonar (il locale in cui aveva luogo buona parte del festival) è stata spostata di un paio di isolati verso la periferia della città: sempre di un parcheggio si tratta, ma l’area è ben più ampia e meglio attrezzata, con un vero e proprio metal market, diversi punti ristoro e una zona d’ombra offerta dal cavalcavia della tangenziale antistante. In quest’area all’aperto sono stati chiamati ad esibirsi tutti gli headliner e una manciata delle formazioni più note (soprattutto in campo death e black), assieme a qualche nome più di nicchia per aprire le ostilità nel pomeriggio. Un manipolo di altre band ha invece avuto il piacere di esibirsi ogni (tarda) serata presso il Rams Head, venue fantastica nel centro città, mentre la quasi totalità dei gruppi hardcore e grind è invece stata collocata presso il Soundstage, locale situato a poche centinaia di metri dal suddetto Rams Head. Quest’ultima scelta è stata motivata principalmente con il desiderio di vedere certi gruppi esprimersi nel loro cosiddetto habitat naturale, ovvero al chiuso, su un palco piccolo e senza transenne ad impedire il contatto coi fan. Nulla da dire su questo punto, anche se crediamo che il tutto sia stato innescato anche dalla volontà di togliere dalla strada i vari crusties e punkabbestia che ogni anno accorrono a Baltimore per godersi questa frangia del bill. In passato tali avventori erano soliti accamparsi fuori dal Sonar con i propri cani e vedere alcuni concerti dalla recinzione o addirittura dal cavalcavia, senza il bisogno di acquistare il biglietto; ora che i “loro” gruppi sono stati spostati all’interno di un edificio, è invece toccato loro aprire il portafoglio e radunarsi in un unico punto. Se ciò da un lato ha permesso all’organizzazione di eliminare i cosiddetti “evasori” e di avere maggiore ordine sia in termini di divisione del bill per palchi che di “disciplina”, dall’altro ha messo vari avventori dai gusti ampi nelle condizioni di doversi sobbarcare delle vere e proprie escursioni di venti minuti per raggiungere i locali dall’area principale e viceversa. Il fatto di dover percorrere circa un miglio per raggiungere le varie aree del festival ha scoraggiato a tal punto certi fan che non è stato raro vedere delle band esibirsi davanti ad un pubblico tutto sommato scarso anche in orari serali, oppure assistere a contrattazioni feroci fra avventori e tassisti per farsi portare da una parte all’altra nel minor tempo possibile e senza spendere un patrimonio. Insomma, il MDF quest’anno è diventato a tutti gli effetti l’unico festival al mondo dove i fan sono arrivati a dover prendere un taxi per non perdersi nemmeno un minuto della loro band preferita! Certo, chi è accorso a Baltimore per godersi esclusivamente hc/grind o black metal avrà probabilmente sofferto pochissimo, visto che stando davanti ad un determinato palco si aveva modo di ascoltare quasi tutte le band dello stesso filone, tuttavia coloro dai gusti ampi – diciamo chi passa senza problemi dai Machetazo ai My Dying Bride, dai Taake ai Ratos de Porao – avrà letteralmente sudato ettolitri nel camminare da una parte all’altra del centro città. Dal canto nostro, speriamo vivamente che l’organizzazione si sia resa conto dell’inconveniente e che dal prossimo anno vengano presi alcuni provvedimenti: Baltimore a livello di infrastrutture non offre parecchio, ma già spostare l’area principale al vecchio parcheggio potrebbe aiutare. A parte ciò, il festival è stato un succcesso senza precedenti: l’affluenza è stata la più ampia mai registrata e il cartellone ha offerto una lunga serie di concerti memorabili. Ci tocca ripeterci, ma il Maryland Deathfest è per noi una sorta di paradiso in terra. Non possiamo far altro che sperare di poter tornare da queste parti nel 2015.
MGLA
Il trasferimento di buona parte dei gruppi più hardcore e marci nei locali del centro ha comportato un deciso “annerimento” del bill dei palchi del parcheggio (l’area denominata Edison Lot), il quale quest’anno si è aperto come mai in passato a band black metal e affini. Nella giornata di venerdì riusciamo ad accedere all’area festival mentre i Castevet stanno terminando il loro breve concerto, ma non ci perdiamo nemmeno un minuto di quello dei polacchi Mgla, formazione che ha rilasciato una vera e propria perla nera con il proprio ultimo album, “With Hearts Toward None” (2012). I membri dei Mgla calcano il palco con il volto coperto da drappi neri e indossano rigorosamente jeans e giacche di pelle. Niente dell’identità dei Nostri viene rivelata al pubblico, ma quest’ultimo, già solo per questa particolare (e rischiosa, vista l’alta temperatura!) immagine inizia a seguire il set con forte interesse. Il black metal del quartetto è eccellente per personalità e impatto: melodia e cattiveria duellano incessantemente generando un vortice sonoro dall’invidiabile carica emotiva. Come sempre, è difficile trovare termini di paragone per il gruppo, che, provenendo appunto dalla Polonia, sembra essersi svincolato dai raffronti con le più note scene black. I Mgla sono i semplicemente i Mgla e oggi ne abbiamo conferma anche dal vivo. I Nostri suonano con grande maestria e non lasciano nulla al caso: dal disco al palco, tutto viene preservato. Già un paio di anni fa avevamo avuto la sensazione di aver scoperto una grande realtà, ma questo pomeriggio è arrivata la definitiva conferma: a dispetto del caldo e della location per certi versi inadatta, il gruppo ha davvero impressionato.
THE RUINS OF BEVERAST
Chi invece pare soffrire parecchio calura e luce del sole sono i black-doom metaller The Ruins Of Beverast, che si esibiscono direttamente dopo i Mgla, sull’altro palco all’interno dell’Edison Lot. I tedeschi arrivano al MDF avvolti dal mistero e forti di una discografia di tutto rispetto, la quale di recente ha fatto registrare un altro highlight grazie all’uscita di “Blood Vaults – The Blazing Gospel of Heinrich Kramer”. Chiamati ad esibirsi su uno dei palchi esterni, i Nostri tuttavia finiscono per apparire ben presto come i classici pesci fuor d’acqua: senza il favore dell’oscurità, con un impianto luci che in questo momento può fare poco e privi di grandi doti a livello di presenza scenica, i The Ruins Of Beverast perdono subito gran parte del loro fascino agli occhi degli ascoltatori più distratti. Il loro repertorio, inoltre, composto in prevalenza da brani lunghissimi e molto strutturati, non è esattamente il più adatto a sposarsi con una location fatta di asfalto e cemento sotto un sole cocente. Il mastermind del progetto, Alexander von Meilenwald, deve aver previsto il tutto e non appare troppo demotivato, ma fra le file del pubblico pare serpeggiare l’idea che l’abbinamento The Ruins Of Beverast / Edison Lot sia stato un grande azzardo. Il gruppo suona anche dignitosamente, ma a conti fatti non riesce a lasciare il segno.
NECROS CHRISTOS
I Necros Christos sono gli ennesimi protagonisti di questo primo pomeriggio nell’Edison Lot. Probabilmente anche i tedeschi avrebbero preferito esibirsi al chiuso o in notturna, ma quest’oggi fanno evidentemente buon viso a cattiva sorte, sfoderando una performance assolutamente solida e convincente. La base death metal della proposta aiuta a sopperire alla mancanza di atmosfera, i brani assumono tratti più groovy e il pubblico reagisce bene, pur consapevole che che i Nostri, almeno su disco, siano qualcosina in più della classica old school death metal band. Insomma, i Necros Christos ben si adattano alle circostanze, mettendo per il momento da parte il loro lato più riflessivo/liturgico e puntando tutto o quasi sulla loro compattezza metal. Brani come “Baal of Ekron” e “Necromantique Nun” centrano il bersaglio e la gente – non solo tra le primissime file – inizia finalmente a muoversi.
COFFINS
La nostra prima visita all’interno del Soundstage avviene in concomitanza con lo show dei Coffins, i quali si sono esibiti in quel di Baltimore già un paio di sere fa. I giapponesi fanno il bis per sostituire i defezionari The Secret e sembrano subito ben felici di aver avuto tale opportunità. Il Soundstage è un ottimo locale e ha forse un’acustica migliore rispetto al vicino Rams Head; ci vuole quindi poco affinchè il quartetto inizi a martellare come si deve il pubblico, che, di contro, reagisce con il più ignorante degli headbanging. Il doom-death metal della band è così asciutto e lineare che dal vivo non può che risultare vincente: ogni riff trasuda groove e potenza e il growling del nuovo arrivato Jun Tokita spesso e volentieri sembra l’urlo di un cavernicolo. Abbiamo già avuto modo di ammirare i Coffins su un palco e in questo tardo pomeriggio è un piacere constatare che con la nuova lineup il loro affiatamento sia rimasto intatto. Certo, il gruppo non inventa niente e a molti può apparire limitato nel suo incessante tributo ad Autopsy e Celtic Frost, ma noi, che abbiamo da sempre un debole per simili dimostrazioni di ignoranza, accogliamo questi suoni a braccia aperte.
CANCER
Torniamo di corsa all’Edison Lot per seguire lo show dei Cancer, il primo su suolo statunitense dal lontanissimo 1993. La death metal band britannica è recentemente tornata in attività per una serie di date live dedicate interamente alla riproposizione di materiale estratto dai primi album; il nome Cancer in verità non è strettamente fondamentale, ma, in questo periodo di riscoperta dei classici e di tutto ciò che è anni Novanta, anche questa band può dire la sua. Per noi che negli anni abbiamo ascoltato con una certa soddisfazione i vari “To The Gory End” e “Death Shall Rise”, vedere questi inglesi finalmente dal vivo è piuttosto gratificante. Davanti al palco non c’è il pubblico delle grandi occasioni, ma il colpo d’occhio è comunque più che buono. Spiace solo per dei suoni che, almeno dal fondo, sembrano andare e venire, tuttavia si vede che la band si è ben preparata prima dell’evento e che sta suonando con la giusta fame. Curiosamente i brani del debut vengono preferiti a quelli del più noto “Death Shall Rise”, ma la scaletta è comunque soddisfacente: i Cancer vanno dritto al sodo ed eseguono tutti i loro pezzi più ficcanti, tra cui “Witch Hunt”, “Cancer Fucking Cancer” e “Hung, Drawn and Quartered”. John Walker ogni tanto pare arrancare un po’ con la voce, ma si tratta di momenti: la resa complessiva è notevole e la cover finale di “Dethroned Emperor” dei Celtic Frost manda tutti a casa contenti.
CRIPPLE BASTARDS
È di nuovo tempo di Soundstage per il set dei Cripple Bastards, che tornano a Baltimore a due anni dalla loro ultima esibizione, giusto in tempo per promuovere anche da queste parti il loro nuovo “Nero In Metastasi”. La band vanta da tempo un seguito di tutto rispetto negli states, quindi non stupisce vedere la sala piena per la realtà italiana, che oggi tiene uno dei suoi primi concerti con la lineup a cinque (il secondo chitarrista Wild Vitto è di recente entrato in formazione). All’inizio, come per molti altri gruppi, i suoni necessitano di un’aggiustata, ma il tutto migliora nel giro di poche tracce. Il pit à animatissimo e sembra anche piuttosto ferrato sul repertorio dei Nostri, i quali spaziano come sempre da brani molto datati ad estratti dalle fatiche più recenti. Gli episodi di “Nero In Metastasi” si confermano una vera potenza anche dal vivo: i riff – a maggior ragione con due chitarre – hanno più groove e impatto e le strutture piene di cambi di tempo incitano al pogo più ignorante. Rendono alla grande soprattutto “Lapide Rimossa” e “Nemico a Terra”, che probabilmente diventeranno punti fissi dei prossimi concerti tanto quanto le varie “Misantropo a Senso Unico” o “Stupro e Addio”. Esibizioni di questo calibro, assieme al prestigioso marchio Relapse, testimoniano come i Cripple Bastards siano oggi all’apice della carriera. Inarrestabili.
BOLZER
I Bolzer sono stati tra le maggiori sorprese in campo black (progressivo) dello scorso anno e quindi non stupisce vederli qui a Baltimore. Uno dei pregi del Maryland Deathfest è quello di essere sempre sul pezzo quando si tratta di scoprire e promuovere nuove band meritevoli. Il duo svizzero si esibisce all’interno del Rams Head e risulta ampiamente atteso: l’area davanti al palco è gremita di gente e anche i piani superiori presentano un colpo d’occhio notevole, con decine di persone “appollaiate” e pronte a seguire la performance. Il duo svizzero si presenta “alla Inquisition”, ovvero senza basso o altri strumenti aggiuntivi: solo il drummer HzR e il chitarrista/cantante KzR fanno parte della lineup. La resa sonora complessiva, comunque, non ne risente affatto: i suoni sono quasi subito pieni e incisivi e KzR dimostra di non temere alcun onere. Il riffing di chitarra è agile e preciso come su disco e la voce non concede cali, giostrandosi abilmente fra classico screaming e quelle urla sporche che abbiamo già sentito su “Aura”. Un brano come “Entranced By The Wolf” risulta imponente anche dal vivo: incredibile come il duo riesca a riproporre con tanta fedeltà un pezzo così pieno di influenze e sfaccettature. C’è della classe innata in questa band, oltre ad un indubbio coraggio: presentarsi davanti ad una platea importante come quella del MDF e tenere uno show così brillante e spigliato non è da tutti.
ENTHRONED
Gli Enthroned sono una band che ha vissuto diversi alti e bassi nella propria carriera. Vederli occupare un posto di rilievo nel bill del Maryland Deathfest – slot nel Rams Head verso fine serata – dimostra però che il gruppo belga al momento gode di ottima popolarità, oltre che di buona salute a livello compositivo (il recente “Sovereigns” è senz’altro uno dei loro migliori album). Il leader Nornagest, passato dalla chitarra al microfono da qualche tempo, deve forse affinare ancora un po’ le sue doti di frontman, ma la lineup alle sue spalle gira veramente alla perfezione; con tutta probabilità, gli Enthroned nella loro storia non hanno mai potuto contare su dei musicisti così preparati. Questi sono gli Enthroned al massimo della forma e dell’affiatamento e il pubblico del MDF non può che godere di fronte ad una performance tanto intensa e curata. Certo, la setlist, nettamente improntata sulle opere recenti, lascia un po’ da parte quel lato thrash che una volta dal vivo faceva faville, ma l’atmosfera acida di pezzi come “The Edge of Agony” e, in generale, l’esaltazione della componente black metal più apocalittica non lasciano nessuno indifferente. Dopo aver messo a segno un gran colpo con il nuovo platter, la band questa sera si conferma “rinata” anche dal vivo. Avanti così!
DIOCLETIAN
Il nostro sabato si apre con il concerto dei Diocletian. Per assistere ad una performance dal vivo di questa ferocissima compagine neozelandese torniamo volentieri in quel forno chiamato Edison Lot e per fortuna non veniamo delusi. C’è un discreto numero di persone davanti al palco, segno che il quartetto è riuscito a costruirsi un suo seguito con i primi due full-length e il recente “Gesundrian”. A differenza di tante altre formazioni dedite a questo oltranzista mix di death/black/”war” metal, i Nostri hanno un’immagine piuttosto sobria, quasi come se trovassero ogni tipo di orpello scenico totalmente superfluo. Come dire, la musica è già assolutamente bestiale di suo, il resto sono chiacchiere. Il bassista/cantante Logan Muir sparge odio profondo solo con lo sguardo, mentre alle sue spalle i chitarristi macinano riff dopo riff, instancabili nell’erigere un muro sonoro che a tratti sembra il frutto di uno scontro fra Blasphemy e Bolt Thrower. I Diocletian possiedono in effetti un afflato epico che li fa spiccare un bel po’ nel loro circuito: la proposta è caotica e costantemente aggressiva, ma rispetto a tanti altri, loro ogni tanto godono a lasciare spazio ad alcune cadenze marziali. Insomma, i Nostri esprimono concretezza qualsiasi cosa facciano e pezzi come “Steel Jaws” o “Beast atop the Trapezoid” finiscono per convincere anche i più scettici. Gran concerto, alla faccia dell’afa.
ENTRAILS
Con gli Entrails ci somministriamo la nostra dose quotidiana di swedish death metal. Questa è la prima esibizione statunitense per il gruppo, che arriva a Baltimore sulle ali di una crescente popolarità conquistata in terra europea e con l’importante marchio Metal Blade a fungere da garanzia per i meno ferrati in campo underground death metal. Il chitarrista e leader Jimmy Lundqvist si è circondato negli ultimi anni di una lineup solidissima, fra cui spicca il batterista Adde Mitroulis, e quindi non sorprende la confidenza con cui i Nostri affrontano la materia live. Il bassista/cantante Jocke Svensson, già compagno di Mitroulis nei Birdflesh, non è magari il più ciarliero dei frontman, ma va bene lo stesso: in questo clima festivaliero conta che i suoni siano all’altezza e che il materiale smuova il pubblico. Gli Entrails non sono certamente il gruppo più originale e talentuoso sulla piazza, tuttavia nel loro mondo sono in grado di farsi rispettare: la gente presente nell’Edison Lot nel pomeriggio di sabato viene investita da sonorità novantiane per circa una quarantina di minuti e fra gli uptempo serrati – e seganti – del recente singolo “Berzerk” e il groove da headbanging di “To Live Is to Rot” ognuno trova qualcosa di proprio gradimento. Band da festival come poche.
MACHETAZO
Il concerto più ignorante e coinvolgente di sabato è senza dubbio quello dei Machetazo. Il gruppo spagnolo rappresenta al 100% il vero underground, con tonnellate di split e uscite minori a costituire il grosso della propria discografia e concerti tenuti nei posti più immondi. Il Maryland Deathfest premia la dedizione e il valore del terzetto concedendo loro uno slot nel pomeriggio su uno dei palchi principali: la folla ad attenderli è decisamente consistente, con svariate dozzine di ragazzi di origine latina che animano il pit ancora prima che sia stata suonata una nota! Il tasso alcolico generale è elevatissimo e la band sembra letteralmente adorare l’atmosfera venutasi a creare. Forse anche per questo, lo show assume un’urgenza e una ferocia incredibili: ogni pezzo è una mattonata sul volto, ogni introduzione del drummer/cantante Dopi un invito a fare ancora più casino. Il basso del nuovo arrivato Iago Alvite è la sintesi della sporcizia, mentre la chitarra di Rober Bustabad ha quella profondità alla Autopsy mischiata con la ruvidezza dei primi Carcass… un sogno! Alla fine dei conti, comunque, è la straordinaria genuinità della formazione a fare la differenza: una quarantina di minuti di Machetazo oggi sono il miglior biglietto da visita possibile per qualsiasi tipo di codice e mentalità underground. Avevamo alte aspettative nei confronti degli spagnoli e questi ultimi non hanno per niente deluso.
NOCTURNUS A.D.
Ogni tot anni, Mike Browning rispolvera il repertorio dei primi Nocturnus e lo porta in tour con i suoi amici degli After Death. Il monicker scelto per tenere le date quest’anno è Nocturnus A.D., scelta obbligata per evitare dispute legali con gli altri ex membri della storica formazione floridiana. E così, nel solito caldissimo pomeriggio di Baltimore, ci ritroviamo ad ascoltare nientemeno che l’intero “The Key”. Il debut album dei Nocturnus – che ricordiamo essere uno dei primi dischi death metal a presentare interventi di tastiere – viene proposto per intero da una lineup che ormai ha forse tenuto più concerti della “vera” band in questione: l’esecuzione, insomma, ha pochi difetti, a parte forse il growling dello stesso Browning, il quale pare aver perso un po’ di potenza in tutti questi anni (senza contare che il Nostro deve risparmiare il fiato anche per suonare la batteria). Per apprezzare lo show odierno basta quindi essere grandi estimatori del succitato album; noi lo siamo e questo ripasso live è senz’altro gradito, anche se non avremmo disdegnato un filo di impegno in più sotto il profilo della presenza scenica. Il gruppo si limita a suonare senza fare granchè on stage: Browning chiaramente non può muoversi, ma il resto della lineup in questo senso ha poche scuse. In ogni caso, le varie “Lake Of Fire” e “Neolithic” ci strappano più di un sorriso, così come “Chapel Of Ghouls”, perla estratta dal repertorio dei primi Morbid Angel, di cui Browning fece parte negli anni Ottanta. Il tutto poteva essere un po’ più caldo e coinvolgente, ma forse non dovremmo essere tanto esigenti con questi vecchietti…
VICTIMS
Torniamo al Soundstage per vedere i Victims, band che ultimamente sta suonando poco dal vivo a causa di diversi impegni di natura familiare. Il gruppo svedese (con chitarrista britannico) si è imbarcato in un breve tour da queste parti per sfruttare al meglio i voli offerti dal MDF, quindi arriva a Baltimore ben rodato e pronto a far male. Per una band come i Victims, il Soundstage è il locale perfetto, visto che le dimensioni del palco sono piuttosto contenute e il pubblico è composto in prevalenza da appassionati di hardcore e grind pronti a fare macello. Non sappiamo se sia stato un caso o una scelta ponderata, ma quest’oggi la scaletta del gruppo sembra vertere sugli episodi più veloci del repertorio: gli hardcorer di Stoccolma si dimenticano dei loro pezzi più ritmati e rockeggianti e investono l’audience con una frustata dopo l’altra, quasi a voler terminare lo show il prima possibile. Come previsto, questa attitudine genera un circle pit dopo l’altro, oltre a vari stage diving e invasioni di palco che in alcune occasioni mettono a repentaglio soprattutto l’incolumità di Gareth Smith, che sul palco è quello che si muove più di tutti. Dopo una mezzoretta scarsa a suon di sberle, chiude finalmente l’anthemica “This Is The End”, canzone-simbolo dei Victims che fa esplodere il Soundstage in cori da stadio all’altezza del ritornello.
DROPDEAD
Tra i concerti più coinvolgenti fra quelli avvenuti nel Soundstage va senz’altro annoverato quello dei seminali Dropdead, che con il loro serratissimo e iper politicizzato hardcore hanno influenzato dozzine di grindcore e crust hardcore band sin dai primi anni Novanta. Il frontman Bob Otis come sempre non risparmia dichiarazioni forti, invettive e un po’ di sana tribuna politica, confermando subito il fatto che il nome Dropdead è sinonimo sia di musica che di vero attivismo sociale, e il pubblico, composto tanto da curiosi quanto da die-hard fan, risponde con il massimo della passione e del trasporto. Il pit è una bolgia, gli stage dive si sprecano e l’esibizione del gruppo è a dir poco frenetica. I suoni sono buoni e ogni strumento è perfettamente distinguibile da ogni angolo del locale, ciò nonostante risulta impossibile tenere conto dei pezzi proposti: i Dropdead, a dispetto dell’età che avanza, sono un turbine senza freni. La setlist è divisa per grappoli di due/tre tracce suonate senza soluzione di continuità e spesso a velocità doppia; l’ultimo di questi, prima della conclusione, risulta però più memorabile degli altri perchè il gruppo chiama sul palco Rob Williams, batterista degli altrettanto storici hardcorer Siege, per una cover di “Drop Dead” dei suddetti e per una di “It’s Not What It Seems To Be” dei Lärm. A questo punto la gente impazzisce e ci ritroviamo nel pieno di un vero e proprio mosh pit inferno. Abbiamo ancora i brividi adesso mentre scriviamo.
DARK ANGEL
Il concerto più atteso da chi scrive si materializza nella prima serata di sabato, su uno dei palchi dell’Edison Lot. Dopo anni di smentite, cambi di posizione, dispute e sonore figure di merda, i Dark Angel si sono finalmente riformati e arrivano a Baltimore dopo un paio di concerti tenuti fra Europa e Sudamerica. La thrash metal band californiana questa sera pare attesa da tutti e ha oggettivamente tanto da dimostrare, ma, per nostra e sua fortuna, il primo impatto è dei più felici: il quintetto si presenta on stage carichissimo e con dei gran suoni e mette subito a segno un colpo mortale con “Darkness Descends”. La title track del seminale secondo album, per molti l’unica opera thrash anni Ottanta in grado di poter rivaleggiare apertamente con “Reign In Blood” per violenza e cattiveria, è il biglietto da visita ideale per reintrodurre la formazione e per fugare ogni dubbio: i Dark Angel si sono fatti attendere, ma non sono tornati tanto per fare. Tra tutti, stupisce Ron Rinehart, sì invecchiato e sovrappeso, ma ancora dotato di una voce degna di questo nome. È lui la sorpresa della serata, mentre Gene Hoglan e soci non tradiscono le aspettative: gente di grande esperienza che sa come stare su un palco e come interpretare al meglio queste sonorità. La scaletta è un mini-best of, incentrato tuttavia per lo più sul suddetto “Darkness Descends” e sul successivo “Leave Scars”. Title track a parte, non c’è invece grande spazio per il monumentale “Time Does Not Heal” e le sue incredibili suite techno-thrash. Forse anche per limiti di tempo, la band punta soprattutto su brani di breve-media durata e dall’impatto assicurato: “The Burning Of Sodom”, “Never To Rise Again” e “Death Is Certain” sono gli episodi che più fanno male, ma, a dire il vero, è tutto il set a impressionare. Per una band composta da gente non più giovanissima e che si è riunita da poco, lo show di questa sera è assolutamente sopra le righe. Non a caso, fra il pubblico scorgiamo membri di Immolation, At The Gates, Unleashed e tanti altri andare letteralmente fuori di testa: se loro – che probabilmente avranno avuto modo di vedere i Dark Angel negli anni d’oro – sono così esaltati, figuriamoci il resto dei presenti! A conti fatti, il gruppo finisce per essere il protagonista dello show più seguito e apprezzato dell’intero festival.
HOODED MENACE
Il Rams Head ci riaccoglie per gli Hooded Menace, che sono al loro primo show su suolo statunitense da quando la lineup è stata modificata con l’arrivo di Markus Makkonen al basso e alla voce. Il leader della band, tuttavia, è e rimane il chitarrista Lasse Pyykkö, che, come sempre, si presenta incappucciato e con occhiali da sole, a dispetto del buio in sala. Makkonen sembra avere un growling un po’ meno incisivo rispetto a quello del suo predecessore, ma la resa complessiva della band è rimasta immutata: a dispetto di una presenza scenica sostanzialmente inesistente, gli Hooded Menace fanno ondeggiare centinaia di teste con il loro doom-death orrorifico. L’acustica del locale premia il gruppo, che può far valere i suoi riffoni nel migliore dei modi, così come quelle parti più melodiche ed evocative che sovente danno respiro ai pezzi. Gli intrecci di chitarra risaltano bene e il materiale tutto dal vivo acquista la consueta marcia in più. Del resto, i finlandesi suonano ormai con una certa regolarità e sono diventati una live band di un certo affidamento nel loro campo. Non avranno magari più quell’aura misteriosa e underground di qualche anno fa, ma queste sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano davanti alla bontà della proposta musicale. Per quanto ci riguarda, ascoltare live pezzi come “Never Cross The Dead” è sempre un estremo piacere.
SCHIRENC PLAYS PUNGENT STENCH
Per varie dispute legali al momento in corso, questa sera i Pungent Stench non sono i Pungent Stench, bensì Schirenc Plays Pungent Stench. La differenza, per quanto ci riguarda, è minima, visto che praticamente da sempre identifichiamo la band austriaca nella voce e nel riffing del chitarrista/cantante Martin Schirenc. Il resto, con tutto il rispetto per gli altri strumentisti, conta sino ad un certo punto. E così, ci approcciamo allo show di questa incarnazione del gruppo con poche preoccupazioni. Anzi, a dire il vero, siamo “presi benissimo” perchè sappiamo che la setlist sarà incentrata solo sui primi capitoli della discografia. Parte “Pungent Stench” e anche gli ultimi dubbi vengono spazzati via: Schirenc ha assemblato una buona lineup ed è decisamente in forma. Sinora siamo rimasti soddisfatti dei suoni del Rams Head, ma per gli svizzeri il lavoro al mixer ci risulta perfetto: il death metal del trio esplode con vigore e nitidezza, ma è anche ruvido il giusto, quasi a voler ricreare l’atmosfera di dischi come “For God Your Soul…” o “Been Caught Buttering”. Non sapevamo invece cosa aspettarci a livello di responso di pubblico, visto che da queste parti i Pungent Stench ci sono sempre parsi meno popolari di tanti altri colossi europei, tuttavia il locale offre un ottimo colpo d’occhio e si rivela pieno di veri fan. La scaletta, come anticipato, è assolutamente old school e dalla suddetta “Pungent Stench” presenta solo vecchi classici, peraltro tutti suonati con una rabbia che non ravvisavamo in Schirenc da diverso tempo. Solo la conclusiva “Viva La Muerte”, col suo incedere più groovy e rock’n’roll, lascia intravedere il lato “fun” della formazione. Si chiude buttandola in caciara e il tripudio è generale!
GRAVES AT SEA
Il primo pomeriggio di domenica ci regala una rara performance dei Grave At Sea, rozzi sludge/doom metaller di Portland che, dopo alcune buone registrazioni nei primi Duemila, sono spariti per vari anni per poi tornare sulle “scene” solo alcuni mesi fa. Ricordavamo con piacere il frontman Nathan Misterek, responsabile di uno screaming acidissimo, che sembra quasi quello di una donna (potete sentirlo anche in un paio di tracce di “White Tomb” degli Altar Of Plagues) e oggi possiamo dire che il Nostro non sia affatto cambiato: è lui una delle principali attrattive del combo. Questa voce straziante sembra quasi provenire da un’altra persona e da un altro luogo, mentre chitarra, basso e batteria sono indubbiamente davanti a noi, visto che ci percuotono e schiacciano il cranio con inusitata potenza. Per una mezzoretta ci sembra di essere tornati al Roadburn, con queste enormi chitarre fuzz, le andature ciondolanti e il pubblico che, per buona parte, sembra un tantino high e “più di là che di qua”. Avremmo preferito goderci il quartetto di sera o al chiuso, ma ormai, come avrete capito, quest’anno al MDF funziona così. I Graves At Sea, in ogni caso, ben figurano davanti ad un’audience che non è completamente quella a cui sono abituati: impatto e modestia conquistano quasi tutti.
WRATHPRAYER
Per i Wrathprayer tocca rifare a grandi linee il discorso fatto per lo show dei The Ruins Of Beverast. Due giorni più tardi, il caldo e una location che dona tutto tranne che un’atmosfera appropriata “ammazzano” una performance che altrimenti avrebbe potuto rivelarsi discreta. Certo, è evidente che il gruppo cileno non goda di chissà quale esperienza live e che il suo materiale non sia quel classico death-black dai riff e dalle ritmiche corposi, ma riteniamo che un palco più piccolo e il buio avrebbero potuto giovare alla resa di tanti brani del notevole “The Sun Of Moloch”, debut album del terzetto. Tra le prime file contiamo vari “fedelissimi” e un trasporto che ha poco da invidiare a quello di realtà più esperte e impattanti, ma dal fondo la cornice risulta alquanto desolante: il sole è un martello sul nostro cranio, tanti presenti continuano a cambiare posizione per poi allontanarsi verso il metal market, mentre i suoni dell’inquietante (e a tratti a dir poco caotico) black-death della band non appaiono mai sufficientemente potenti e definiti. È forse vero che certa musica non è fatta per essere riproposta dal vivo, per di più ad un festival all’aperto… davanti ad un tale “spettacolo” non possiamo far altro che applaudire i Wrathprayer per averci comunque provato. Loro di certo non hanno lesinato energia. Prima di esprimere un giudizio definitivo sulla loro resa live attendiamo di vederli in un locale.
INQUISITION
Gli Inquisition sono ormai un’istituzione in terra americana. Del resto, i Nostri qui sono di casa, sono spesso in tour per tutto il continente e quindi oggi possono vantare un seguito assai più nutrito di quello di tante realtà scandinave ben più storiche. L’essere poi abituati alla dimensione live li mette nelle condizioni di saper tenere un buon concerto anche in un contesto open air come quello dell’Edison Lot. Il duo composto da Dagon e Incubus sa di essere atteso e mostra subito grande confidenza sia col palco che col pubblico. Il nuovo “Obscure Verses for the Multiverse” risuona ancora nelle orecchie di molti e infatti i Nostri decidono di partire con “Force of the Floating Tomb”, prima di dedicarsi ad una panoramica del vecchio repertorio. Il suono risulta pieno nonostante l’ormai cronica assenza di un basso; Dagon, ancora una volta, è il solo vero protagonista on stage e, come sempre, riesce miracolosamente a riprodurre con notevole fedeltà quanto udibile su disco. Il cantante/chitarrista irretisce la folla canzone dopo canzone, idolatrato quasi come un Abbath o un Nergal. Consapevole però del fatto che che da lui dipenda l’intera riuscita dello show, il Nostro non eccede in pose o dialoghi: la concentrazione è tutta sullo strumento e così il set finisce per presentare pochissime pause. A volta sembra di trovarsi davanti gli Immortal di una quindicina di anni fa, prima che questi diventassero un nome da grandi masse; d’altronde, gli Inquisition sono ancora tutto sommato una realtà underground e paiono voler restare tale, almeno giudicando dallo stile delle loro composizioni e dall’approccio ai concerti. Questo grande impegno e l’aura malevola si traducono in uno show assolutamente soddisfacente.
LEFT FOR DEAD
Il successo (postumo) dei Cursed e di praticamente tutto ciò che è hardcore/crust/sludge ha oggi portato sotto i riflettori tante altre band che negli anni Novanta o nei primi Duemila erano rimaste confinate in quell’underground che aveva visto la nascita e l’evoluzione di tali sonorità. Fra queste rientrano i Left For Dead, velocissima hardcore band canadese capitanata da Chris Colohan, colui che qualche tempo dopo divenne frontman dei suddetti Cursed. Dopo essersi riunito e aver ristampato buona parte del loro vecchio materiale su A389 Recordings, il gruppo è tornato a suonare live saltuariamente e arriva oggi a Baltimore per uno show pre-serale all’interno del Soundstage. A parte un simpatico siparietto in cui il gruppo accoglie sul palco la piccola figlia del proprietario della A389 Recordings, il set dei Left For Dead è esattamente come ce lo si aspettava: rapido, grezzo e violento. L’hardcore della band è velatamente metallizzato, ma mantiene tutta la linearità e la capacità di sintesi di ascendenza punk; i brani (“Ripped Up”. “Cop Trap”, “Left For Dead”, ecc) sono fucilate schiette e ruvidissime, sulle quali Colohan sbraita a più non posso, tanto da perdere a volte il controllo della voce e del suo stesso corpo. Il gruppo davanti al pubblico si pone in maniera quasi distaccata, ma quest’ultimo pare non farci assolutamente caso, visto che il pit è come sempre pieno di esaltati. C’è tanta foga e poca lucidità nello show dei Left For Dead, ma questo è ciò che si voleva da una band che ha vissuto l’ambiente hardcore più underground quando questo era tutto fuorchè trendy. Il gruppo sputa odio in faccia alla gente e se ne va quasi senza godersi i meritati applausi. Contro tutto e tutti.
UNHOLY GRAVE
Quando si parla di leggende grind, dopo i soliti noti, bisogna per forza menzionare gli Unholy Grave, attivi dai primi anni Novanta e responsabili di una discografia semplicemente sterminata. I giapponesi sono fra le ultime band ad esibirsi nel Soundstage: la malinconia da post festival inizia a farsi un po’ largo fra i presenti, ma non mancano le energie per tributare al quartetto di Nagoya la giusta accoglienza. D’altronde, il frontman Takaho ben dispone chiunque da subito con il suo inglese stentato e il divertente modo di stare sul palco: il Nostro saltella da una parte all’altra come una bambina in un campo fiorito, mentre attorno a lui i compagni di band generano il caos a suon di death-grind elementare. Visto il repertorio enorme, non tutte le canzoni degli Unholy Grave sono in effetti perle e, di certo, alcuni riff sanno proprio di banalità, ma il gruppo ha contribuito a fare la storia del genere nel suo Paese e non solo, quindi tutti rimangono con gli occhi puntati sul palco, assolutamente divertiti nell’ammirare una formazione che è veramente felice di trovarsi qui e che dà l’impressione di divertirsi tantissimo on stage. Basta seguire le pose assurde di Takaho per farsi strappare un sorriso, oppure dare uno sguardo al pit, con la gente che si ribalta da una parte all’altra del locale. È l’ultima sera ed è party time al Maryland Deathfest.
RATOS DE PORAO
Il programma del Soundstage si chiude con lo show dei Ratos de Porão, attesissimi dal pubblico più vicino al mondo hardcore-punk e da tanti presenti di origine sudamericana. I brasiliani chiudono in bellezza con uno show tiratissimo e senza compromessi: la scaletta è tutta incentrata sul materiale di matrice hardcore e crossover, quindi non vi è spazio per quei brani thrash che il gruppo sperimentò negli anni Novanta. João Gordo è al comando e il pubblico risponde ad ogni suo ordine; ciò significa un circle pit dopo l’altro e un movimento continuo per tutta la zona davanti al palco. Mentre si assiste al concerto dei Ratos de Porão ci vengono in mente i nostri Cripple Bastards, e non solo perchè i due gruppi sono da tempo amici: i suoni, l’attitudine sul palco e le dinamiche che questi innescano fra il pubblico sono a volte assai simili a quelli della band italiana. Perseveranza e mentalità underground hanno pagato per il quintetto di São Paulo, che si presenta senza avere nulla da dimostrare, con piena consapevolezza dei propri mezzi e tanta rabbia genuina; proprio come è stato per i loro amici un paio di giorni prima, il responso in terra statunitense è a dir poco ottimo. Il MDF nel Soundstage chiude con un concerto-tornado.
ULCERATE
È un sollievo ammirare gli Ulcerate al chiuso: una proposta contorta e astratta come il loro death metal sarebbe stata letale per il nostro cervello se assorbita nella fornace del parcheggio. Per fortuna, il gruppo neozelandese si esibisce nel Rams Head poco prima degli headliner Immolation, avvalendosi fra l’altro di un ottimo impianto luci. Dopo la linearissima barbarità dei Ratos De Porao, non ci dispiace immergerci nelle complesse trame del gruppo di Auckland, che con i quattro full-length sinora pubblicati ha dimostrato che è possibile costruire un ponte fra il death metal apocalittico dei succitati Immolation e le riflessioni “post” dei Neurosis. Il suono anche in questo contesto è denso e penetrante e la band lascia che questo si abbatta sull’audience senza particolari freni: pur lungi dal diventare di facile presa, la musica del gruppo dal vivo acquista infatti maggior vigore e riesce a destare anche l’interesse di coloro che dal death metal pretendono solo sane mazzate. La setlist questa sera è molto breve e di certo i Nostri non brillano per presenza scenica, ma una “Cold Becoming” sembra mettere d’accordo tutti: da brividi la resa di questo pezzo, in assoluto fra i migliori del repertorio degli Ulcerate.
IMMOLATION
Il MDF 2014 per tutti si chiude quindi con lo show degli Immolation, che letteralmente demoliscono il Rams Head con una delle performance più violente che abbiamo mai visto da parte loro. Ross Dolan e soci hanno trascorso l’intero weeekend in quel di Baltimore, seguendo i concerti come chiunque altro, e vederli salire sul palco iper sorridenti e orgogliosi di avere l’onore di chiudere il festival non ha prezzo. Si sprecano i ringraziamenti nei confronti dell’organizzazione e degli gruppi presenti, poi, quando sia band che platea sono esaltati al massimo e pronti a chiudere in bellezza, parte il massacro. Corposissima la setlist del quartetto, che decide di partire con “Kingdom Of Conspiracy”, title track dell’ultimo album, per poi andare a ritroso nel tempo, toccando vari dischi e varie epoche della propria storia. Robert Vigna, come sempre, appare a dir poco tarantolato, ma questa sera è Dolan a far la cosiddetta parte del leone: i suoi discorsi tra un brano e l’altro ispirano sempre umiltà e simpatia, mentre quando si tratta di suonare e, soprattutto, urlare, il suo growling fa accapponare la pelle. Anche i suoni, inoltre, premiano gli Immolation: i volumi sono pompatissimi, il mixaggio è adeguato e quella sporcizia residua dona una marcia in più a pezzi come “Providence” o “Of Martyrs and Men”. Con il loro sound cupo, strisciante, ma anche maestoso all’occorrenza e un repertorio che da diversi anni conosce pochissimi cali, gli Immolation rappresentano ad oggi la vera èlite death metal. Salutare questa edizione del Maryland Deathfest sulle loro note è stata un’esperienza indimenticabile.