A cura di Luca Pessina
Foto di Return To The Pit
Dopo aver regolarmente proposto novità e cambiamenti in ogni edizione dell’ultimo lustro, il Maryland Deathfest sembra oggi aver trovato la sua dimensione più congeniale. Nel 2014 gli organizzatori del celebre evento statunitense hanno presentato la nuova disposizione del festival, inaugurando l’Edison Lot – ovvero una grande area ricavata da un parcheggio situato ad un paio di isolati di distanza dal centro di Baltimore – e accaparrandosi il Ram’s Head e il Soundstage, due ottimi locali vicino al lungomare. Rimasta soddisfatta dell’esito dell’esperimento, nel 2015 l’organizzazione ha quindi deciso di replicare, non cambiando di una virgola l’assetto base, ma cercando di migliorare ulteriormente i servizi. Se le venue nel centro cittadino si sono limitate a velocizzare il più possibile i controlli all’ingresso, l’Edison Lot ha invece presentato un numero maggiore di bagni chimici, un’offerta più ampia di cibo e bevande e diversi tavoli in più all’ombra dell’ormai noto cavalcavia della tangenziale che attraversa quella parte della città. Migliorie che – assieme ad una temperatura stranamente temperata (il termometro ha oltrepassato i trenta gradi solo di domenica) – hanno reso l’esperienza molto più vivibile del solito per tutti gli avventori. Avventori che, ancora una volta, sono arrivati soprattutto da Stati Uniti (ovviamente) e dai “vicini” Canada e Messico, con solo qualche temerario ad affrontare la traversata da altri paesi o continenti. Fortunatamente le proteste e i tafferugli con protagonisti polizia e comunità afroamericana che hanno avuto luogo a Baltimore nelle prime settimane di maggio non hanno affatto scoraggiato i fan, che hanno invaso la città come al solito, occupando tutti gli hotel e i motel attorno al centro. Detto di location e “fauna”, non ci resta che accennare al cartellone del festival: come già ampiamente illustrato nei nostri report delle ultime edizioni, il Maryland Deathfest è ormai diventato il principale evento underground su suolo statunitense. Dopo esordi all’insegna del death metal più brutale e oltranzista, l’happening anno dopo anno, pur rimanendo assolutamente fedele al verbo extreme metal, ha iniziato ad inglobare band di varia estrazione, finendo per diventare un evento appetibile per tanti palati diversi; un evento che oggigiorno sembra sempre di più un incrocio tra Kill-Town Death Fest, Party.San, Roadburn e Obscene Extreme. Tra death metal, black, doom, grind, thrash e post hardcore ce n’è per tutti i gusti, per un bill che riesce sempre a dare spazio sia a nomi storici che a realtà a dir poco di nicchia. Basta del resto un rapido sguardo alle locandine per capire come alla base della selezione vi sia una cultura immensa, attaccamento alle origini e, al tempo stesso, una costante voglia di stare al passo coi tempi. L’unico appunto che teniamo a fare agli organizzatori riguarda la scelta di piazzare alcuni gruppi dal suono astratto o decisamente atmosferico nell’area esterna: funeral doom o prog non legano particolarmente bene con un parcheggio assolato. Già nel 2014 avevamo faticato a comprendere certi ragionamenti e quest’anno l’episodio si è ripetuto, anche se dobbiamo ammettere che solo poche band hanno davvero sofferto l’insolita sistemazione. Per il resto, il Maryland Deathfest si è rivelato il solito successo, con il Ram’s Head e il Soundstage completamente sold out, l’Edison Lot sempre discretamente affollato, orari rispettati e suoni quasi sempre decenti. In generale, abbiamo visto solo facce sorridenti in tutte le aree del festival e l’atmosfera ci è parsa sempre molto serena, tanto che non siamo a conoscenza di alcun fatto spiacevole tra pubblico e security. Come già sostenuto varie volte, a nostro avviso il Maryland Deathfest è uno dei migliori eventi metal al mondo: ora bastano giusto un paio di ritocchi affinchè diventi il nostro festival definitivo!
SKINLESS
Come ormai da qualche anno, il MDF si apre ufficialmente di giovedì sera, con un manipolo di band pronte ad intrattenere i primi fan accorsi a Baltimore. L’Edison Lot verrà aperto al pubblico solo il giorno seguente, ma il Ram’s Head e il Soundstage sono già operativi e iniziano ad accogliere i primi avventori. Il Soundstage questa sera ospita un bill 100% death metal che ricorda le vecchie edizioni del festival: arriviamo sul posto quando Mortal Decay, Origin e Internal Bleeding hanno già avuto modo di esibirsi, ma non ci perdiamo il set degli Skinless, che oggi presentano ufficialmente il nuovo album “Only The Ruthless Remain”. Al momento del loro arrivo sul palco la sala è piena e le fantasie di persone letteralmente scaraventate da una parte all’altra del locale si concretizzano in pochi secondi: al gruppo di New York basta sfoderare un paio di hit come “The Optimist” e la nuova “Serpenticide” per dichiarare ufficialmente aperte le ostilità e per vedere il pubblico in delirio. Come sempre, il materiale degli Skinless dal vivo acquista almeno due marce in più e anche gli ascoltatori più distratti non possono fare a meno di sbattere la testa e muovere il piede a tempo. Sherwood Webber è in forma e il resto della lineup lo segue a ruota, con il bassista Joe Keyser a dimostrarsi il più partecipe tra gli strumentisti. I primi show del festival sono sempre tra quelli più divertenti: il pubblico è fresco e carico, l’esaltazione per il weekend che si prospetta è palpabile e le band danno tutto quello che hanno per far sì che non ci si dimentichi di loro nei giorni successivi. Gli Skinless chiaramente non mancano di centrare l’obiettivo: i Nostri hanno smesso di andare in tour da anni, tengono solo pochi concerti selezionati e una vetrina prestigiosa come quella offerta dal MDF non può che essere un ulteriore spinta a dare il massimo. Detto, fatto: quaranta minuti di show e fan annichiliti con una scaletta serratissima che ha introdotto ampiamente il nuovo album senza però dimenticare classici come “Crispy Kids”. Il festival è già decollato.
DEVOURMENT
Si rimane su registri sobri e leggeri con i Devourment, tra gli indiscussi pionieri della corrente slam. Vista la natura della musica, sappiamo già che il concerto dei Nostri sarà di una cafonaggine paurosa e ovviamente bastano pochi minuti per averne conferma. Di recente la lineup del gruppo ha subito qualche stravolgimento, ma Ruben Rosas – ora tornato dietro al microfono dopo anni alla sei corde – è una visione rassicurante per tutti i fan. D’altronde, bisogna anche sottolineare come la proposta dei Devourment non sia poi così difficile da replicare dal vivo: il quartetto si è evidentemente ben preparato per l’occasione e i brani fuoriescono dagli amplificatori con il giusto tiro. Certo, a livello di presenza scenica lo show dei death metaller texani è molto più freddo di quello degli Skinless: i musicisti non fanno granchè per interagire con gli astanti e non si segnala particolare movimento sul palco, tuttavia il pit resta animato per tutto l’arco del set. Le occasioni per vedere live la formazione non sono mai moltissime e l’audience appare giustamente adorante in questa sagra dell’ignoranza: “Choking On Bile” e “Babykiller” sono le hit che tutti aspettano e quando giunge il loro momento ovviamente in sala si scatena il circo, con l’uomo-pollo e l’uomo-cavallo (due degli avventori storici del MDF) impegnati in continui stage dive. Basta questo per far morire dal ridere gran parte dei presenti, mentre il gruppo macina breakdown e slammoni con lo sguardo fisso sul pavimento. Potevano magari esibire un pizzico di brio in più, ma non si può dire che quest’oggi i Devourment non abbiano fatto il loro dovere.
Setlist:
Festering Vomitous Mass
Postmortal Coprophagia
Choking on Bile
Incitement to Mass Murder
Self Disembowelment
Fucked to Death
Devour the Damned
Shroud of Encryption
Babykiller
CONAN
Terminata la rassegna death metal della serata, ci spostiamo nel vicino Ram’s Head per gustarci un cartellone molto più tendente al doom. Qui l’organizzazione ha deciso di omaggiare il Roadburn, mettendo sullo stesso palco e in rapida successione una serie di band che sono solite presenziare al noto happening olandese. Jex Thoth sembra aver spopolato nel locale solo pochi minuti fa, ma il nostro arrivo coincide con l’inizio del set dei Conan, una delle formazioni più scarne e pesanti di sempre. Sono solo in tre, ma fanno casino per dieci, questi britannici. Grazie al supporto della Napalm Records – che ha pubblicato il recente “Blood Eagle” – i Nostri sono riusciti a imporsi anche sul suolo statunitense e, non a caso, questa sera parte dell’audience sembra essere qui proprio per loro: le ampie balconate del locale danno modo a tutti di seguire agevolmente la performance del gruppo, che fa letteralmente di tutto per opprimere e prendere a badilate l’ascoltatore. Del resto, la formula dei ragazzi è molto semplice: immaginate i Sunn O))) suonati da un gruppo stoner. Le distorsioni sono a dir poco assurde e le cadenze pachidermiche, ma ogni tanto al terzetto piace vivacizzare lievemente l’andatura. Così facendo, viene innescato un divertente gioco di rimbalzi, con parti tese e pesantissime alternate a qualche breve fuga sul quale l’ascoltatore medio riesce quasi a fare headbanging. Uno dei loro brani si intitola “Total Conquest” e possiamo dire che l’espressione sintetizzi bene quanto ottenuto dai Conan durante la loro prova: chi non li conosceva è stato irretito, mentre i fan hanno completamente perso la testa.
Setlist:
Crown of Talons
Total Conquest
Foehammer
Hawk as Weapon
Battle in the Swamp
Satsumo
UFOMAMMUT
Fuori i Conan, dentro gli Ufomammut. Sempre di oppressione, pesantezza e lentezza si parla, ma il gruppo italiano è palesemente più fine e “artistico” del trio inglese. Del resto, la componente psichedelica ha da tempo un certo peso nel doom sound di Urlo e compagni e inoltre non vanno sottovalutate le proiezioni che accompagnano i loro concerti – un elemento che alcuni potranno trovare puramente di contorno, ma che in realtà costituisce parte integrante della proposta degli autori del recente “Ecate”. Senza dubbio, i riff della band piemontese sanno far male, ma l’impressione è sempre quella di trovarsi al cospetto di musicisti eclettici, che hanno soprattutto il pregio di riuscire a infondere una grande dose di eleganza e passionalità anche all’interno della più spessa mattonata. Al Roadburn i Nostri sono da tempo degli idoli di casa, ma pare proprio che anche qui, oltreoceano, la fama degli Ufomammut sia ormai su livelli degni di nota. Il marchio Neurot li avrà certamente aiutati nel convertire scettici e distratti, ma ugualmente non vanno sottovalutate l’ostentata professionalità, la loro voglia di mettersi in gioco e quella di lavorare sodo (quella di oggi è una delle prime date di un tour americano di un mese). Il Ram’s Head è pienissimo durante il concerto e, dal canto nostro, non nascondiamo una certa soddisfazione nel vedere un gruppo italiano ottenere un tale responso in un evento come questo. La speranza è ovviamente quella di vedere sempre più realtà italiane su questi palchi.
Setlist:
Stigma
Temple
Daemons
Oroborus
YOB
La popolarità di cui stanno godendo doom e derivati negli ultimi tempi ha fortunatamente baciato anche gli Yob di Mike Scheidt, in passato considerati dei veri e propri outsider, con album pubblicati sempre in sordina, e ora una volta per tutte diventati dei riconosciuti capisaldi del genere. Solo sei/sette anni fa il pensiero di vedere il terzetto chiudere una delle serate di un festival come il MDF sarebbe stato pura utopia; oggi però i Nostri sono effettivamente una delle doom metal band più celebrate del pianeta e giustamente si godono il momento, tenendo uno show fiero e compiaciuto, dal quale emerge una netta consapevolezza dei propri mezzi. Scheidt e soci spiazzano tutti partendo con la ferina “Ball of Molten Lead”, traccia ormai vecchia di un decennio, innescando subito un inaspettato headbanging tra le prime file. Il Ram’s Head è ormai sold out e il livello alcolico generale piuttosto elevato, tanto che persino la compassata “In Our Blood” (dall’ultimo “Clearing the Path to Ascend”) in questa sede sembra avere chissà quali cadenze euforiche. D’altro canto, la band sta godendo di ottimi suoni e a questo punto il colpo d’occhio all’interno del locale è di quelli in grado di esaltare anche i veri veterani del festival. Ebbrezza è il termine giusto per descrivere l’atmosfera che si respira su e giù dal palco in questa tarda serata: gli Yob finiscono per rimanere on stage più di un’ora, ma per tanti ciò pare non essere sufficiente. Questa sera Scheidt è a tutti gli effetti un (doom) metal god.
Setlist:
Ball of Molten Lead
In Our Blood
Nothing to Win
Marrow
VALLENFYRE
Il pomeriggio di venerdì per noi si apre ufficialmente con lo show dei Vallenfyre. Riusciamo ad accedere nell’Edison Lot poco prima che i death-grinder britannici (quest’oggi con batterista finlandese) salgano sul palco e siamo contenti di constatare che la temperatura all’interno dell’arena sia assolutamente tollerabile. Certo, ci troviamo pur sempre nel mezzo di un parcheggio di una città americana, con il sole sopra le nostre teste, ma per ora non ci sentiamo ancora in un girone infernale come accaduto in passato (anche se crediamo che ai trve-necro-messicani seduti accanto a noi tale visione non dispiacerebbe affatto). I Vallenfyre sono freschi reduci da un tour americano di supporto ad At The Gates e Converge e hanno visto la loro popolarità crescere a dismisura da queste parti: il frontman Greg Mackintosh, non a caso, appare infinitamente più spigliato rispetto a qualche tempo fa e non perde tempo per aizzare la folla. Il clima, come dicevamo, è tutto sommato clemente, ma ci pensa il sound del quintetto a schiacciarci il cranio. Pare infatti che la band abbia deliberatamente selezionato i propri brani più pesanti per il set di oggi: “Bereft” e la title track dell’ultimo album, “Splinters”, vessano il già numeroso pubblico presente, rendendolo un tutt’uno con l’asfalto, mentre la più datata “Desecration” fa scattare uno dei primi circle pit della giornata. Per essere un side-project apparentemente senza grandissime pretese, i Vallenfyre stanno ottenendo risultati davvero notevoli!
Setlist:
Scabs
Cathedrals of Dread
Bereft
Instinct Slaughter
Savages Arise
Splinters
Desecration
LOCK UP
Da un veterano della scena – Greg Mackintosh – ad un gruppo che comprende solo ed esclusivamente reduci patentati. Con Shane Embury, Kevin Sharp, Anton Reisenegger e Nick Barker, i Lock Up sono a tutti gli effetti una “all star band” mascherata da progetto. Chiaramente i quattro hanno dato alle stampe le loro vere pietri miliari solo con le rispettive band madri, ma sfidiamo chiunque a non trovare comunque apprezzabilissimo un “Hate Breeds Suffering” o gli altri lavori targati Lock Up. Sharp è entrato nel gruppo solo di recente, ma ovviamente nessuno osa mettere in dubbio la sua capacità di sostituire degnamente Tomas Lindberg. Il Nostro come al solito si presenta scalzo e con aria strafottente, ma bastano “Feeding on the Opiate” e “The Jesus Virus” a farlo tornare serio; neanche a dirlo, la resa è ottima e nessuno sente la mancanza dei suoi pur illustri predecessori. Con un repertorio appunto dignitosissimo e il loro status di leggende viventi, Embury e soci potrebbero anche limitarsi a svolgere il cosiddetto compitino per appagare tutti gli appassionati di grind presenti nello spiazzo; tuttavia, dopo un incipit affidato a due delle sue maggiori hit, il quartetto decide di uscire un po’ dal seminato, omaggiando la vecchia band di Sharp con una mastodontica “Birth Of Ignorance” e, poco dopo, il compianto Jesse Pintado con una cover di “Fear Of Napalm” dei suoi Terrorizer. Il pubblico accoglie il tributo a braccia aperte e i circle pit e i crowd surfing si sprecano, strappando più di un sorriso a Sharp, che ormai appare anche un tantino brillo. La title track di “Hate Breeds Suffering” chiude poi alla grande un concerto rivelatosi tutto fuorchè “di mestiere”. I Lock Up non danno mai niente per scontato.
Setlist:
Feeding on the Opiate
The Jesus Virus
Birth of Ignorance (Brutal Truth cover)
Necropolis Transparent
Fear of Napalm (Terrorizer cover)
After Life In Purgatory
Brethren of the Pentagram
Stygian Reverberations
Detestation
High Tide in a Sea of Blood
Rage Incarnate Reborn
Hate Breeds Suffering
AURA NOIR
L’Edison Lot offre quasi esclusivamente death metal nella giornata di venerdì. Fanno in parte eccezione i truci Aura Noir, che con uno stile più vicino al thrash-black riescono a richiamare sotto al palco tutte le anime più blasfeme in circolazione. La frangia latino-messicana del pubblico sembra adorarli particolarmente: sarà forse per il background fortemente cristiano di questi paesi e per lo spirito di ribellione che di conseguenza anima i giovani di quelle parti… resta il fatto che le formazioni più oltranziste e vecchia scuola trovano sempre terreno fertile in Sudamerica e zone limitrofe. Questi norvegesi in carriera hanno anche prodotto opere raffinatissime e per certi versi lontane dal metal – vedi i Virus e i Ved Buens Ende di Aggressor – ma il monicker Aura Noir è sinonimo di pura ferocia e di fedeltà alle origini, come del resto si può evincere leggendo il titolo del loro vecchio debut album (“Black Thrash Attack”). Insomma, Sodom, Slayer, Bathory, Possessed, borchie, pelle, croci rovesciate e odio sputato in faccia agli esagitatissimi astanti. Lo show, come ampiamente prevedibile, si rivela una vera cafonata: la gente impazzisce, le corna al cielo si contano a centinaia e il gruppo dà l’idea di divertirsi un mondo, tanto da non riuscire a nascondere qualche sorriso tra una posa satanica e un’altra. Magari per qualcuno si sarà trattato della solita solfa, ma noi oggi abbiamo particolarmente gradito questa parentesi old fashioned.
SUFFOCATION
Per chi scrive vedere dal vivo i Suffocation non è più una novità da tempo, ma lo show di quest’oggi è per certi versi speciale. Il motivo è Frank Mullen. Un paio di anni fa il frontman storico della formazione ha deciso di smettere di andare in tour per dedicarsi a lavoro e famiglia, e ha quindi chiesto ai suoi compagni di trovare vari sostituti per gli impegni live. Bill Robinson (Decrepit Birth), Ricky Myers (Disgorge) e John Gallagher (Dying Fetus) sono stati visti dietro al microfono in ormai numerosi tour europei e americani. Per il MDF, tuttavia, si può fare un’eccezione: Baltimore è a poche ore di auto da New York e i Suffocation si presentano quindi al completo, ovvero con Mullen a capo della lineup! Prima dello show, il cantante riepiloga la situazione descritta poc’anzi e arriva persino a scusarsi coi fan: dopo questa dimostrazione di umiltà segue quindi quello che consideriamo il concerto più intenso di questa giornata del festival. Mullen è un leone appena uscito dalla gabbia e i suoi soci lo eleggono da subito loro condottiero: i Nostri suonano con la fame e la foga di un gruppo di esordienti, sparano un pezzo dopo l’altro e seminano devastazione nell’Edison Lot, facendo probabilmente registrare il record di crowd surfing della giornata. Vista l’occasione speciale, la scaletta è, come prevedibile, una raccolta degli episodi più famosi/storici del repertorio, con giusto tre brani a rappresentare la discografia post reunion. Non potevamo chiedere di meglio: con tutto il rispetto per i comunque validi lavori degli ultimi anni, siamo cresciuti ascoltando “Effigy Of The Forgotten”, quindi le canzoni estratte dalle prime fatiche sono e saranno sempre quelle in grado di smuoverci di più. Tutto il pubblico comunque sembra pensarla alla stessa maniera e i Suffocation finiscono quindi per aggiuficarsi il titolo di death metal kings della giornata. Performance strepitosa sotto ogni punto di vista!
Setlist:
Thrones of Blood
Effigy of the Forgotten
As Grace Descends
Breeding the Spawn
Funeral Inception
Entrails of You
Pierced from Within
Purgatorial Punishment
Liege of Inveracity
Catatonia
Infecting the Crypts
BLOODBATH
Nella tarda serata di venerdì all’interno dell’Edison Lot l’attesa è tutta per i Bloodbath, qui al loro primo vero show su suolo americano. La vecchia lineup del gruppo suonò a sorpresa un paio di pezzi alcuni fa, quando Opeth e Katatonia erano insieme in tour da queste parti, ma oggi si tratta ovviamente di una performance ufficiale, ulteriormente reclamizzata dall’arrivo di Nick Holmes e dalla pubblicazione dell’ultimo “Grand Morbid Funeral”. Un breve intro dà modo ai musicisti di fare con calma il loro ingresso sul palco; segue quindi il frontman, vestito da “reverendo satanico” e completamente ricoperto di sangue, come i suoi colleghi. L’apertura è affidata alla nuova “Let the Stillborn Come to Me” e a noi bastano un paio di minuti per capire che i Bloodbath sono in forma: la scelta di tenere pochi show selezionati mette evidentemente la formazione nelle condizioni di essere sempre carica e smaniosa e la furia che i Nostri trasmettono non fatica ad irretire i fan. Holmes, esattamente come Mullen dei Suffocation (anche se per motivi chiaramente diversi), non si trova a fronteggiare una death metal band tutti i giorni, quindi il suo entusiasmo è anch’esso tangibile: esattamente come durante i concerti dei Paradise Lost, tra un pezzo e l’altro il suo humour inglese non si fa attendere, ma quando è il momento di cantare la prova è cruda e spietata come sull’album. In effetti si rimane colpiti dalla resa di Holmes, che regge tempi e profondità senza grossa fatica, mettendo in mostra una capacità di adattamento che onestamente non immaginavamo così lampante. Su “Eaten” Anders Nyström si occupa come sempre delle backing vocals e il brano assume toni se possibile ancora più pesanti, mentre su “Cry My Name” il gruppo stupisce con un graditissimo colpo di classe, collegando la coda strumentale di “Left Hand Path” al finale della canzone. Se i Bloodbath volevano chiudere la giornata in bellezza, di certo la missione può dirsi compiuta: uno show assolutamente degno di una cosiddetta “all star band”.
Setlist:
Let the Stillborn Come to Me
Mental Abortion
So You Die
Breeding Death
Anne
Cancer of the Soul
Weak Aside
Soul Evisceration
Unite in Pain
Like Fire
Mock the Cross
Eaten
Cry My Name / Left Hand Path
DRAWN AND QUARTERED
Da qualche anno a questa parte dozzine di death metal band sembrano aver (ri)scoperto Incantation e Immolation, cosa che ha dato vita ad un mini-trend underground che ad un certo punto ha anche sfiorato il ridicolo. Non sappiamo quale sia l’opinione dei Drawn And Quartered su tale fenomeno, ma se fossimo in loro – che si sono sempre cimentati in queste sonorità, soprattutto quando erano considerate antiquate – saremmo un filo infastiditi, se non altro perchè oggi in molti si dimenticano di loro quando si tratta di stilare pseduo classifiche underground. Per questo motivo, letteralmente corriamo verso il Ram’s Head una volta terminato lo show dei Bloodbath: non vogliamo perderci del tutto la prova del gruppo di Seattle, che, fra le altre cose, non è certo una realtà che è solita farsi vedere spesso dal vivo. Per nostra grande soddisfazione, la corsa viene ripagata da un concerto poderoso, che soddisfa tutte le nostre aspettative. Sappiamo di non poterci aspettare chissà quale presenza scenica da questo schivo terzetto, ma quando si tratta di potenza, impatto e annichilimento del (vasto) pubblico presente in sala, non possiamo fare altro che segnare tutte le caselle: i Drawn And Quartered in pratica fanno ciò che gli Immolation avevano fatto l’anno scorso, ovvero catapultano macigni su file e file di crani intenti a fare headbanging. Chi pensava di andare a letto presto per recuperare le energie spese durante la giornata è stato costretto a cambiare idea e ad inghiottire l’ennesima dose di death metal.
DARKENED NOCTURN SLAUGHTERCULT
I tedeschi Darkened Nocturn Slaughtercult non sono certo la black metal band più originale sulla piazza, ma dal vivo hanno senza dubbio un’attitudine e una presenza polarizzanti, che in festival tanto grossi e dispersivi possono davvero fare la differenza in termini di impatto sul pubblico. Il gruppo può contare sulla cantante/chitarrista Onielar, una delle poche frontwoman nel black metal, e negli anni ha confezionato album più che rispettabili, inserendosi nella tradizione del black metal norvegese con la giusta autorità. Dal vivo si resta in primis colpiti dal look inquietante di Onielar – completamente vestita di bianco, tanto da sembrare uno spettro – e poi dalla ferocia e dalla convinzione con cui i Nostri tengono il palco. Per suono e determinazione sembra di essere al cospetto dei cari vecchi Tsjuder, altra band che, pur senza inventare chissà cosa, è riuscita a lasciare un segno notevole all’interno del panorama black. Del resto, quando si è capaci di scrivere brani espressivi l’originalità può anche essere messa da parte, soprattutto in un campo nel quale il rimanere fedeli alla tradizione è visto spesso come un grande pregio. In un Ram’s Head decisamente affollato i Darkened Nocturn Slaughtercult riescono dunque a lasciare un’ottima impressione sia tra i fan che tra coloro che passavano di lì per caso: non crediamo che tutta la gente di fronte al palco fosse a conoscenza del repertorio della band, ma probabilmente a fine show in molti saranno andati a documentarsi. Obiettivo centrato per il quartetto.
Setlist:
Tempestous Sermonizers of Forthcoming Death
Das All-Eine
Nocturnal March
INTER ARMA
Tra i tanti gruppi ultimamente cimentatisi in un ibrido sludge / “post” hardcore / black metal, gli Inter Arma sono tra quelli più personali. La band di Richmond, Virginia, si è fatta segnalare grazie al notevole “Sky Burial” su Relapse Records, ma è grazie a dei concerti davvero ardenti e passionali che il panorama underground ha definitivamente preso nota delle sue doti. Il frontman Mike Paparo ha una presenza quasi teatrale che in un tale contesto spicca immediatamente, mentre, di contro, il resto della formazione ostenta una fisicità che non sempre è possibile rintracciare in gruppi giovani di questo tipo. Negli ultimi tempi pare quasi che certe frange del metal abbiano bandito espressioni come l’headbanging o il contatto diretto col pubblico, in favore di pose introspettive e velleità pseudo artistiche che alla lunga lasciano un po’ il tempo che trovano. Gli Inter Arma invece riescono a confezionare un suono sì profondo, spesso a cavallo tra Neurosis ed Enslaved, ma anche ad ostentare una confortante schiettezza e un attaccamento a certe tradizioni metal. Barbe, capellli lunghi, sudore, urla… saremo nostalgici, ma fa piacere vedere una band che sa suonare, sa essere per certi aspetti originale e che, al tempo stesso, tira fuori i coglioni e non si prende esageratamente sul serio. Gli Inter Arma sono forse un gruppo che, almeno per ora, rende meglio dal vivo che su disco: un piacere vederli suonare nel Soundstage in questo primo pomeriggio di sabato.
Setlist:
The Survival Fires
The Long Road Home
———-
‘sblood
FULL OF HELL
La recente collaborazione con Merzbow ha portato ulteriori riflettori sui Full Of Hell, che hanno visto pubblicazioni non strettamente underground interessarsi al loro operato e, di conseguenza, il loro seguito ampliarsi oltre i soliti confini metal e hardcore. Lo show del MDF tuttavia avviene ovviamente davanti al pubblico “di casa” (in tutti i sensi, visto che i ragazzi sono di queste zone), in un Soundstage che, senza transenne a dividere pit e palco e con i fan più esagitati del festival, è l’habitat perfetto per accogliere i deliri grind / noise / powerviolence della formazione. Il bassista pare infortunato – continuerà a sedersi nelle pause tra i brani – ma quest’oggi il gruppo può contare anche su un trombettista che dona qualche spezia in più ad alcuni episodi, esattamente come il sassofono nel suddetto album con Merzbow. Per fortuna i suoni sono più che decenti, quindi il tutto non finisce per apparire esclusivamente come una trovata stravagante: le varie espressioni dei Full Of Hell trovano tutte il loro posto, sì sovrapponendosi, ma non annullandosi a vicenda. Vi è sicuramente tanta personalità nel modo in cui il gruppo si pone sul palco e interpreta i brani: anche spogli di effettistica e tromba, crediamo che i Nostri riuscirebbero comunque a spiccare tra la massa di grind band presenti oggi. Si respirano una tensione e un’ostilità diverse, una gravità quasi palpabile. I Full Of Hell senza dubbio si prendono sul serio, ma, a differenza di altri, mettono davanti fatti e vero talento, non solo arie e parole.
BULLDOZER
Dopo un paio d’ore trascorse dentro al Soundstage decidiamo di recarci presso l’Edison Lot per assistere al primo concerto statunitense della storia dei Bulldozer. Il sole del pomeriggio non perdona, ma qui abbiamo vissuto situazioni peggiori in passato (vedere i Disma con 38 gradi, ad esempio) e per fortuna anche buona parte degli astanti sembra non farci caso. Inutile spendere troppe parole sulla reputazione della band: i Bulldozer sono una realtà storica del mondo speed-thrash che è anche altamente rispettata dalle frange più estreme. In Italia la formazione milanese è da sempre sulla bocca di tutti, mentre qui è la tipica band di culto che i veterani underground non vedono l’ora di ammirare dal vivo. L’attesa per la loro esibizione è insomma elevata e il gruppo, per sua e nostra fortuna, non fa nulla per deludere, aprendo con “Cut-Throat” e bissando subito con un altro grande classico come “Insurrection of the Living Damned”. La scaletta è incentrata sui primi lavori in studio, coi quali i Bulldozer hanno decisamente l’imbarazzo della scelta a livello di hit da proporre. In effetti, il pubblico sembra conoscere bene il repertorio e man mano che lo show procede il pit si fa più animato, per la gioia di un AC Wild forse un po’ emozionato, ma spietato come al solito quando si tratta di cantare i pezzi. Dei suoni un po’ sporchi non rovinano quindi una performance che viaggia sulle ali dell’entusiasmo tanto dei musicisti quanto dei fan, per una celebrazione che ci ha ricordato tante altre “prime volte” e reunion avvenute al MDF negli anni precedenti. Per i Bulldozer questo deve essere un giorno da ricordare.
Setlist:
The Exorcism (intro)
Cut-Throat
Insurrection of the Living Damned
IX Desert IX
Ilona the Very Best
The Great Deceiver
Don’t Trust the “Saint”
Minkions
The Final Separation
Ride Hard – Die Fast
Bastards
Impotence
Fallen Angel
Willful Death
Whisky Time
SOLSTICE
L’annullamento dello show dei Sodom – bloccati in Germania per problemi burocratici con l’ufficio di immigrazione – ha liberato un posto nel bill. Non avendo modo di far arrivare un altro nome europeo, gli organizzatori hanno deciso di invitare i Solstice, cult band della Florida anni Novanta, autrice di un grande album come l’omonimo debutto del 1992. Molta gente non ha preso bene la cancellazione dei thrasher tedeschi, ma la nostra reazione è l’opposto, visto che non abbiamo mai avuto il piacere di vedere all’opera questi death-thrasher amici di Malevolent Creation, Cannibal Corpse e Demolition Hammer. La lineup non è ovviamente quella storica – Rob Barrett è ormai da tempo uno dei chitarristi dei succitati Cannibal Corpse – ma il giovane Ryan Taylor (18 anni!) quest’oggi fa un figurone al microfono e alla chitarra. La band sa di non essere attesa tanto quanto i Sodom e sfodera quindi una prestazione grintosissima per impressionare il più possibile il pubblico. Missione compiuta, perchè davanti a brani come “Aberration” e “Transmogrified” i presenti si scaldano a mille e innescano una serie di circle pit onestamente insperata. Come cosiddetta ciliegina sulla torta viene anche proposta una cover della mitica “.44 Caliber Brain Surgery” dei Demolition Hammer, pezzo che porta tanti ad invocare una loro reunion per la prossima edizione del festival. Da outsider totali ad eroi del pomeriggio di sabato: i Solstice hanno dato a tutti un’iniezione di energia in vista delle bombe della serata.
ARCTURUS
Dopo avere elargito varie forme di brutalità per tutta la giornata di sabato, il festival svolta con l’arrivo degli Arcturus e del loro circo progressive e avantgarde (black) metal. I norvegesi hanno tenuto alcuni show in Europa in primavera e si presentano al MDF ben rodati; certo, suonare in un parcheggio a Baltimore non è esattamente come esibirsi in qualche sofisticato locale tedesco od olandese, ma sta calando la sera, l’impianto luci è notevole e l’atmosfera che si viene a creare risulta dunque appropriata all’evento. I costumi di scena sono da sempre un punto forte della band, ma fra tutto colpisce in particolare l’attitudine di ICS Vortex, che rimane piantato al centro del palco con le mani in tasca e un cappello calcato sugli occhi per quasi tutto il concerto. Più mobili e teatrali gli altri musicisti, che regalano in effetti una prova degna della loro fama: a dispetto della ricchezza delle trame, le canzoni vengono rese con notevole precisione e trasporto, rendendo piena giustizia a quella che, nonostante tutto, è una performance impeccabile da parte di Vortex. In una scaletta ricca di episodi, la cosiddetta parte del leone la fanno gli estratti dal mai dimenticato “La Masquerade Infernale”: la trionfale “Painting My Horror” per molti sarà sempre la canzone simbolo degli Arcturus, indipendentemente da quanti ottimi lavori il gruppo pubblicherà in carriera. Il crescendo finale di “Nightmare Heaven”, da “The Sham Mirrors”, è poi un altro momento da ricordare, con la sua fuga di tastiere e l’assolo di Knut Magne Valle ad evocare realtà fantasmagoriche. Alla fine, ognuno riesce a trovare un suo apice in questo sontuoso concerto dei norvegesi. I Nostri potevano fare la figura dei pesci fuor d’acqua in questa colata di asfalto e cemento, ma, a colpi di classe, ne sono invece usciti a testa alta.
Setlist:
Evacuation Code Deciphered
Nightmare Heaven
Painting My Horror
The Arcturian Sign
The Chaos Path
Alone
Pale
Hibernation Sickness Complete
Master of Disguise
Raudt Og Svart
Shipwrecked Frontier Pioneer
RAZOR
Si cambia totalmente registro con l’arrivo dei Razor. La Relapse ha recentemente ristampato parte del catalogo dei thrasher canadesi ed era prevedibile che i Nostri venissero invitati a partecipare al MDF, a maggior ragione ora che la loro attività live è tornata ad essere abbastanza regolare. Dischi come “Evil Invaders” o “Shotgun Justice”, con il loro sound furioso, i testi colmi di iperboli e le copertine becerissime, sono da tempo entrati nell’immaginario collettivo di tutti i thrasher degni di questo nome e questa sera in molti hanno finalmente l’opportunità di ascoltare alcune delle loro hit per la prima volta dal vivo. Dave Carlo e Bob Reid sono gli indiscussi mattatori dello show: il primo ruba addirittura il palcoscenico al frontman quando si tratta di presentare certi episodi, ma a Reid va comunque dato atto di essersi presentato in buona forma e decisamente “sul pezzo”. L’età avanza per tutti, ma quando vi sono genuino entusiasmo e stupore nel vedere così tanta gente – anche giovanissima – elettrizzata dalla propria proposta è facile trovare energie supplementari. Per anni certa stampa ha considerato i Razor un cosiddetto gruppo di seconda fascia nel grande panorama thrash e questa sera il quartetto dell’Ontario si prende una rivincita non da poco, chiudendo il sabato nell’Edison Lot con un concerto da vero headliner e con una potenza e una definizione a livello di suoni di cui solo pochi hanno potuto godere sin qui. A “Stabbed in the Back” va la palma di brano svita-teste della giornata: incredibili l’headbanging e i circle pit scatenati da questa canzone vecchia ormai venticinque anni!
Setlist:
Nowhere Fast
Cross Me Fool
Cut Throat
Violent Restitution
Instant Death
All Fist Fighting
Goof Soup
Stabbed in the Back
Sucker for Punishment
Electric Torture
Iron Hammer
Behind Bars
Speed Merchants
The Pugilist
Take This Torch
Evil Invaders
GNAW THEIR TONGUES
Chiuso l’Edison Lot, ci incamminiamo verso il centro per vedere i noise / black metaller Gnaw Their Tongues esibirsi nel Ram’s Head. La one man band olandese non è ovviamente una realtà che si fa vedere su un palco ogni giorno, quindi la curiosità attorno alla performance è grande. Grande per noi e pochi altri, visto che una volta entrati nel locale la scena che ci si para davanti è piuttosto desolante: non vi è molta gente nei pressi del palco e il resto dei presenti pare più interessato a chiacchierare attorno ai bar che a prestare attenzione allo show. Show che, oggettivamente, sembra non decollare mai: il factotum Mories – qui con tastiere e laptop – è accompagnato da un bassista, ma il suono risulta dispersivo e la prova è sin troppo distaccata. Chiaramente da una formazione di questo tipo è impensabile aspettarsi presenza scenica, movimento e chissà quali tentativi di interazione con l’audience, ma magari si potrebbe trovare una via di mezzo tra quanto appena descritto e lo stare in un angolo del palco, per giunta abbigliati in maglietta e pantalocini. Magari il Ram’s Head è un locale troppo grande per esibizioni di questo genere, ma delle proiezioni o dei giochi di luce un po’ più ricercati avrebbero probabilmente migliorato l’impatto della performance. Comprensibile, insomma, che in tanti non siano riusciti a connettere con il progetto e il suo delirio di noise, metallo nero e terrore industriale questa sera, tra un contesto non del tutto appropriato e un po’ di inesperienza da parte del duo. Per adesso continueremo a considerare Gnaw Their Tongues una realtà da studio.
WOLFBRIGADE
Dopo la freddezza e l’imbarazzo di Gnaw Their Tongues il set dei Wolfbrigade ci sembra quasi uno show dei Metallica. Davanti ad un gruppo così sprezzante, che sul palco dà tutto, sputando furia e dolore, e un pubblico che ricambia con circle pit e del sano pogo vecchia scuola, la serata prende una piega a dir poco chiassosa ed euforica. I crust hardcorer svedesi hanno da tempo un seguito notevole da queste parti, ma l’ultimo “Damned” ha definitivamente aperto loro anche le porte della scena metal grazie ad una produzione più corposa e a delle strizzate d’occhio al tipico suono extreme metal del loro paese. Non a caso, nel pit del Soundstage scorgiamo crusties ma anche numerosi death e black metaller visibilmente divertiti dagli accenni che i Wolfbrigade fanno a band come i Dissection, sia in termini di sonorità che di presenza scenica. Luci frenetiche e suoni ben calibrati assistono il quintetto nel seminare distruzione: è un piacere vedere la folla divertirsi così tanto, ma bisogna dire che anche i musicisti, pur ostentando un’aria truce, sembrano godere, soprattutto se visti dal lato del palco come nel nostro caso. Alla fine dei conti, il concerto è talmente serrato ed intenso che quando i Nostri se ne vanno si ha l’impressione che siano rimasti sul palco solo per un quarto d’ora. Prima di entrare nel Soundstage stavamo per cedere al sonno, ma le sberle targate Wolfbrigade ci hanno rimesso in piedi. Esattamente come previsto.
Setlist:
March of the Wolves
Feed the Flames
Enter the Gates
Hellhound Warpig
From Beyond
Bastards
Living Hell
Dead Heading
The Curse of Cain
Barren Dreams
In Darkness You Feel No Regrets
Soul on Fire
Ride the Steel
Peace of Mind
No Future
Outlaw Vagabond
AGORAPHOBIC NOSEBLEED
Tra le chicche regalateci dagli organizzatori in questa edizione non possiamo evitare di includere il primo show in assoluto nella storia degli Agoraphobic Nosebleed, il progetto grindcore guidato dal famoso chitarrista/produttore Scott Hull. Accompagnato da un bassista e dai cantanti Jay Randall, Katherine Katz e Richard Johnson, il Nostro dà il colpo di grazia a tutti gli avventori del Soundstage con una delle performance più brutali della giornata. Immaginavamo che il grind “digitale” degli Agoraphobic Nosebleed avrebbe avuto più possibilità di riuscita del noise “nero” di Gnaw Their Tongues, ma non sapevamo quanto seriamente il gruppo avrebbe affrontato l’impegno; per fortuna Hull e soci, pur affindandosi ad una drum machine, decidono di proporre un set il più fisico possibile, dando spazio a molti dei brani più groovy, “riffati” e concreti del repertorio (“Timelord”, “Anti-Christian”, “Self Detonate”, “Agorapocalypse Now”…). Randall e Johnson in verità passano buona parte del tempo a vagare per il palco totalmente allucinati e ad inveire sul pubblico, ma Hull, il bassista e, soprattutto, la piccola ma incazzatissima Katherine Katz reggono lo show alla grande, innalzando un muro di suono e urla che trasforma il Soundstage in una zona di guerra. Assistiamo al concerto dal lato del palco e le prime file ci sembrano un vero carnaio, anche se pure a fondo sala pare che la gente non riesca a rimanere ferma. Nel complesso, si può quindi dire che la prova del live sia stata abbondantemente superata dal progetto: del resto, se i Pig Destroyer di Hull riescono ormai a mietere quasi più consensi in concerto che su disco, lo stesso destino pare alla portata anche degli Agoraphobic Nosebleed. Con i giusti pezzi in scaletta e la presenza della Katz il macello è garantito.
Setlist:
Bitch’s Handbag Full of Money
Kill Theme for American Apeshit
Built to Grind
Pantheon Crack Torch
Timelord One (Loneliness of the Long Distance Drug Runner)
Clit to Mouth Resuscitation
Anti-Christian
Unusual Cruelty
The House of Feasting
Vexed
Organ Donor
Home Invasion
Hung From the Rising Sun
Question of Integrity
Timelord Two (Paradoxical Reaction)
Self Detonate
Agorapocalypse Now
GOATSNAKE
L’ultima giorno del Maryland Deathfest si apre con un tributo a Black Sabbath ed Acid Bath firmato Goatsnake. La creatura doom-stoner di Greg Anderson calca uno dei palchi nell’Edison Lot nel primo pomeriggio, sotto il sole più bruciante sperimentato sin qui. Visti i rimandi desertici della proposta dei californiani, la location una volta tanto risulta perfettamente calzante. Con il nuovo “Black Age Blues” in procinto di essere pubblicato dalla Southern Lord dello stesso Anderson, il gruppo decide di presentare un paio di inediti alla folta audience radunatasi nei pressi del palco: le orecchie, tuttavia, sono tutte per i brani estratti dai lavori precedenti… dischi usciti in un periodo in cui certe sonorità non destavano alcun interesse ma che di recente sono stati notevolmente riscoperti da un pubblico che tutto ad un tratto pare aver capito il fascino di ritmiche blande, atmosfere fumose e costanti richiami ai padri degli anni Settanta e Ottanta. Un evento come il Roadburn è diventato una vera e propria Mecca per gli appassionati di certi suoni e ora anche il MDF vuole evidentemente allinearsi e dare spazio a questo fenomeno. Il frontman Pete Stahl non è esattamente un mostro di carisma, ma la folla lo segue con trasporto e a tratti sembra quasi portarlo su vette canore sinora mai raggiunte; la conclusiva “Mower” ne è chiara dimostrazione: i Goatasnake non sono mai stati il gruppo più personale sulla piazza, ma in questo finale di show, su un palco grande e davanti ad una platea particolarmente coinvolta, i Nostri giustamente ci prendono gusto e figurano come chissà quali dèi del doom, chiudendo con un crescendo di intensità tra applausi scroscianti.
Setlist:
Slippin’ The Stealth
Flower of Disease
The Orphan
Black Age Blues
Elevated Man
Graves
The Dealer
Mower
PRIMORDIAL
Le stesse ovazioni toccano ai Primordial, ma in questo caso il risultato non stupisce. Gli irlandesi sono oggi tra le migliori live band in circolazione: dopo aver calcato e dominato per anni i palchi di eventi enormi come Wacken, Hellfest e Summer Breeze, conquistare l’Edison Lot del Maryland Deathfest è un vero scherzo per i cinque ragazzi di Dublino. Fa quasi sorridere la facilità con cui il gruppo riesce ad attirare su di sè l’attenzione di tutto il pubblico presente nell’arena: pare che prima di oggi non tutti avessero familiarità con un frontman come Alan Nemtheanga ed è quindi tanta la sorpresa nel trovarsi davanti ad un tale condottiero e animale da palcoscenico. Come sempre, il cantante incita chiunque tra la folla a dare il massimo, ma si ha la netta sensazione che oggi non siano necessari troppi sforzi: il pubblico non è “viziato” come quello tedesco o britannico, i fan di qui non hanno già visto tutto mille volte, quindi sono curiosi e ben felici di farsi trasportare dalla performance. I Primordial, inoltre, azzeccano anche la scaletta: i Nostri potevano, come giusto, cercare di promuovere il più possibile la loro ultima fatica (“Where Greater Men Have Fallen”), invece decidono di evitare troppi calcoli e di offrire una rassegna dei loro episodi più significativi, sfoderando una tripletta finale da brividi. Con “No Grave Deep Enough”, “The Coffin Ships” ed “Empire Falls” suonate in rapida sequenza l’arsura sparisce per essere rimpiazzata da brividi lungo tutta la schiena. In assoluto uno dei momenti più intensi e gratificanti di questa edizione del festival.
Setlist:
Where Greater Men Have Fallen
Gods to the Godless
Babel’s Tower
No Grave Deep Enough
The Coffin Ships
Empire Falls
SKEPTICISM
L’Edison Lot, invece, risulta una sorta di martirio per gli Skepticism, che si ritrovano ad esibirsi completamente fuori dal loro ambiente naturale. Certo, non si può pretendere che i Nostri si esibiscano sempre all’interno di una chiesa, ma una via di mezzo tra quest’ultima e un parcheggio illuminato dai raggi solari si poteva trovare (vedi il vicino Ram’s Head, in questo caso). Pazienza, gli organizzatori avranno probabilmente avuto i loro motivi per assegnare proprio questo slot ai finlandesi, i quali, ad onor del vero, non sembrano badare troppo all’inusuale contesto, tanto da presentarsi coi loro soliti abiti di scena. Per circa tre quarti d’ora il funeral doom nordico si impone all’interno della soleggiata arena: la band è condotta da un Matti Tilaeus che non rinuncia alle sue pose da poeta affranto, pur se davanti a lui vi è tutto fuorchè raccoglimento. Alcuni cosiddetti die-hard fan sono presenti tra le prime file e la mostruosa “The Everdarkgreen” riesce nonostante tutto a lasciare il segno, con le melodie che vengono sottolineate anche da qualche coro. Più in là nel set arriva anche un brano inedito, che manda segnali confortanti sullo stato di salute del gruppo. Come ovvio, questo non è il contesto migliore per valutare una composizione nuova – anzi, sarebe difficile valutarla anche all’interno di un locale, visto che stiamo pur sempre parlando di funeral doom, una delle musiche meno immediate sul pianeta! – ma “The Departure” riesce qua e là a toccare le corde giuste. A conti fatti, non possiamo fare alcun appunto agli Skepticism, che interpretano lo show al meglio e senza battere ciglio. Il loro pubblico li segue sino all’ultimo e l’ovazione al termine di “The March and the Stream” è forse anche più fragorosa del solito, proprio perchè molti sanno che la band oggi ha dovuto far fronte ad un’ambientazione per essa piuttosto ostile.
Setlist:
The Everdarkgreen
Antimony
Oars in the Dusk
The Departure
The March and the Stream
DEMILICH
Attesissimi per una delle poche performance live di questa loro nuova reunion, i Demilich reganalo agli appassionati presenti nell’Edison Lot attorno all’ora di cena uno dei concerti migliori della giornata. La death metal band finlandese ha sempre avuto uno stile molto particolare, uno stile che non tutti sarebbero in grado di riproporre fedelmente dal vivo, ma Antti Boman non è certo un musicista qualunque e lo show della sua creatura finisce presto per configurarsi come qualcosa da ricordare. Colpisce soprattutto la scioltezza con cui la band interpreta il materiale (estratto per la stra-grande maggioranza da “Nespithe”): le trame sghembe, elastiche e progressive dei pezzi sembrano quasi riff degli AC/DC per i Nostri, che riescono pure a dare al tutto un taglio più groovy e impattante. Certo techno-death metal tende a suonare freddo in sede live, ma i Demilich si rivelano miracolosamente in grado di renderlo fluido e quasi orecchiabile, tanto che il pubblico – tra cui si segnala Tom Hamilton degli Aerosmith, venuto a Baltimore espressamente per lo show dei Demilich! – ogni tanto pare persino saltellare sulle melodie instabili e i riff deviati delle canzoni che il gruppo propone. Rispetto al disco è giusto l’assurdo growl di Boman a venire un filo ridimensionato, ma per il resto il quartetto si rende protagonista di un concerto ineccepibile, peraltro baciato da una risposta di pubblico enorme e francamente insperata, vista la difficoltà della proposta. Potevano fare la figura del classico gruppo per pochi esaltati, ma i Demilich sono invece riusciti a piacere a tutti svelando un’altra loro grande dote, ovvero quella di sapere stare sul palco e di essere capaci di interpretare i propri brani con trasporto, sentimento e grinta, a dispetto dei tanti tecnicismi in essi presenti.
Setlist:
(Within) The Chamber of Whispering Eyes
The Sixteenth Six-Tooth Son of Fourteen Four-Regional Dimensions (Still Unnamed)
The Cry
Inherited Bowel Levitation – Reduced Without Any Effort
And the Slimy Flying Creatures Reproduce in Your Brains
The Planet That Once Used to Absorb Flesh in Order to Achieve Divinity and Immortality (Suffocated to the Flesh That It Desired…)
Vanishing of Emptiness
Emptiness of Vanishing
Introduction / Raped Embalmed Beauty Sleep
Erecshyrinol
When the Sun Drank the Weight of Water
The Echo (Replacement)
NEUROSIS
Cala la sera e l’Edison Lot si veste di grigio. Arrivano i Neurosis. Questi precursori del “post” hardcore sono uno di quei gruppi in grado di suonare – e ben figurare – ovunque. I Nostri da tempo trascendono i generi e sono riusciti a conquistare una notevole reputazione anche in ambienti che niente hanno a che vedere con il panorama metal e hardcore. Anche suonare davanti ad un pubblico prevalentemente composto da extreme metaller è una sfida per i Neurosis, che, tra l’altro, non amano granchè esibirsi all’aperto. Da qualche anno il gruppo non può più contare sui video di Josh Graham, ma in un evento open air questo elemento non avrebbe comunque reso come al solito. La prova dei Neurosis si dimostra dunque quasi subito notevolmente fisica e autoritaria: il quintetto carica al massimo basso e chitarre e ci va giù duro, sorprendendo per impatto anche alcuni dei metallari più tradizionalisti nell’arena. Non a caso, ben presto il 90% dei presenti si raduna davanti al palco dei californiani, i quali, dal canto loro, come al solito non fanno altro che suonare, evitando alcun tipo di vera e propria interazione con la folla. Lo scambio di energie fra quest’ultima e la band di Oakland è comunque tangibile: vuoi per il divario stilistico col resto del cartellone, vuoi per il magnetismo dei musicisti, il concerto di Scott Kelly e compagni finisce per marchiare a fuoco la corteccia cerebrale degli astanti, tanto che nele ore successive molti non parleranno d’altro. Dopo i peggiori abomini death o doom ascoltati sin qui, la toccante “The Tide” apre un vero vuoto nella rassegna e, di conseguenza, anche nella memoria di numerosi presenti. Fornendo una prova complessiva di incredibile intensità e, al tempo stesso, suonando un paio di hit quasi dimenticate, i Neurosis riescono a coinvolgere sia gli ascoltatori occasionali, sia i fan di vecchia data. Chi li dava a priori per vincitori della giornata nell’Edison Lot ha avuto ragione.
Setlist:
The Doorway
Times of Grace
My Heart for Deliverance
The Tide
At the Well
Stones from the Sky
AMORPHIS
L’Edison Lot chiude con l’atteso concerto degli Amorphis, qui all’unica data americana del loro tour per il ventennale dell’uscita di “Tales From The Thousand Lakes”. Dubitiamo che i finlandesi, un nome ormai piuttosto noto e che è spesso in tour da queste parti con band di alto profilo, sarebbe stati invitati al MDF se non ci fosse stato questo particolare evento da festeggiare; solitamente l’organizzazione tende a premiare realtà un po’ più ricercate, ma il caro vecchio “Tales…” è assolutamente un disco di culto, quindi l’eccezione ci sta tutta. Questa sera gli Amorophis tornano insomma a vestire i panni di promettente gruppo underground, rivisitando e celebrando quello che tra i fan della prima ora resta il loro miglior capitolo discografico e la sintesi perfetta di death metal, folk e progressive rock. Tomi Joutsen non ha la profondità di Tomi Koivusaari da giovane, ma il frontman si rende comunque protagonista di una prova più che convincente, sia sul growl che sul pulito. La band è reduce da varie esibizioni in terra europea e ha ormai affinato la resa anche dei brani meno noti (ovvero quelli assenti dalla scaletta dei concerti da più o meno due decenni): “The Castaway” o “Black Winter Day” quindi esaltano ma certo non sorprendono, mentre “First Doom”, “Forgotten Sunrise” o “To Father’s Cabin” fanno a tutti gli effetti viaggiare indietro nel tempo, riportandoci ad un’epoca in cui gli Amorphis erano una delle band più fresche in circolazione. Una volta proposto l’album per intero, seguendo rigorosamente la tracklist originale, il sestetto offre poi un breve bis nel quale viene mantenuta l’impronta old school del resto dello show: dal passato Abhorrence viene riesumata la malvagia “Vulgar Necrolatry”, mentre “Against Widows” omaggia un’altra perla della discografia degli anni Novanta, ovvero il magnifico “Elegy”. Di più non si poteva chiedere!
Setlist:
Into Hiding
The Castaway
First Doom
Black Winter Day
Drowned Maid
In the Beginning
Forgotten Sunrise
To Father’s Cabin
Magic and Mayhem
Vulgar Necrolatry (Abhorrence cover)
Against Widows
Folk of the North
IMPETUOUS RITUAL
Nell’Edison Lot il MDF si è ufficialmente concluso, ma il festival prosegue – almeno per qualche ora – nel più centrale Ram’s Head. E’ l’ora degli Impetuous Ritual, la death metal band australiana che condivide membri con altri pesi massimi come Portal e Grave Upheaval. La scuola, indubbiamente, è quella ormai tipica della zona oceanica, con chitarre ultra compresse e ritmiche a dir poco severe che esasperano i dettami dei vecchi Incantation ed Immolation. Per farsi ulteriormente segnalare, gli Impetuous Ritual calcano poi il palco indossando semplicemente degli stracci che coprono genitali e fondoschiena! Davanti a questi cavernicoli death metal, il pubblico non può fare a meno che prestare attenzione, dato che sia l’impatto sonoro che quello visivo sono ampiamente fuori dal normale. In realtà il gruppo non fa niente oltre a suonare, rimanendo praticamente immobile per tutti i quaranta minuti del suo set, ma forse anche questo fa parte del piano architettato dai Nostri, che evidentemente hanno pensato a lungo a come portare sul palco la loro bestiale proposta. Bisogna dare atto agli Impetuous Ritual di averci visto giusto, se non altro perchè immaginiamo che grazie a questa performance in molti prenderanno nota di loro e andranno a scoprirne la gesta su dischi come l’ultimo “Unholy Congregation of Hypocritical Ambivalence”. Senza nulla togliere al valore dei brani, dubitiamo che il gruppo sarebbe riuscito ad imporsi così tanto presentadosi in modo più tradizionale.
Setlist:
Despair
Convoluting Unto Despondent Anachronism
Sentient Aberrations
Venality in Worship
Elegy
Verboten Genesis
Unhallowed Ascendance Into Impurity
Ritual of the Crypt
Inservitude of Asynchronous Duality
Blight
KNELT ROTE
I Knelt Rote arrivano poco dopo e spazzano via tutto. Il gruppo di Portland è nato come progetto power electronics e solo dopo un paio d’anni si è trasformato in una micidiale realtà death-grind che, nei suoi momenti migliori, è in grado di far impallidire formazioni assai più blasonate. In effetti sembra di trovarsi al cospetto di una versione più asciutta e, se possibile, ancora più violenta dei primi Anaal Nathrakh. Privi, almeno dal vivo, di rimandi industrial, di voci pulite e di altri orpelli, i quattro scatenano un vortice di riff lanciati a velocità parossistica che fa davvero male. Le chitarre sono crude ed enormi e, in generale, i volumi sono pazzeschi, tanto che coloro che non sono più forniti di tappi per le orecchie (come chi scrive) sono costretti ad arretrare in fondo alla sala per poter continuare a seguire il concerto. In assoluto quella dei Knelt Rote è la performance più rumorosa fra quelle a cui abbiamo assistito a questa edizione del MDF: luci, presenza scenica e look diventano totalmente irrilevanti di fronte a questa manifestazione di pura urgenza ed odio. Uno slot tra Impetuous Ritual e Portal poteva innescare paragoni ingombranti, ma il gruppo li ha prontamente evitati facendo leva sulla sua arma migliore, ovvero la musica. L’impatto dell’ultimo “Trespass” ha trovato espressione più che soddisfacente anche su un palco di grandi dimensioni come quello del Ram’s Head.
PORTAL
Riposatasi durante il set dei Knelt Rote, parte degli Impetuous Ritual ritorna sul palco come Portal. Si tratta dell’ultimo concerto del MDF 2015 e il compito di chiudere l’evento è stato affidato agli australiani, i quali già alcuni anni fa avevano ottenuto ottimi riscontri da queste parti. Come di consueto, la prova del quintetto è molto teatrale, a partire dagli inquietanti abiti di scena, passando per gli altrettanto disturbanti video proiettati sullo sfondo per arrivare poi, ovviamente, alla musica. I Portal non hanno molti episodi in grado di farsi subito ricordare: addirittura alcuni potrebbero arrivare ad affermare che la loro proposta non si basi nemmeno su vere e proprie canzoni. In effetti il death metal è solo un punto di partenza per questa band, che negli anni ha forgiato un suono alieno e straniante come pochi altri. La sua forza è soprattutto l’innato senso di oppressione, che porta ogni elemento a saturarsi e a torturare la psiche. Se replicato in uno show sufficientemente compatto (massimo un’ora), il suono Portal puó davvero rivelarsi un’esperienza destabilizzante. A maggior ragione se supportato da una scenografia sopra le righe come quella descritta poc’anzi. Il più delle volte la gente non sa nemmeno come reagire davanti a questa alienazione: alcuni focolai di pogo si aprono qua e là, ma si tratta per lo più di personaggi completamente ubriachi. Chi sta davvero seguendo lo show non puó che restare basito, con gli occhi fissi sulla ignobile presenza di The Curator. Come nel 2010, i Portal lasciano insomma un segno indelebile sul cartellone del festival: chi li attendeva con ansia è stato abbondantemente ripagato e chi non li conosceva è rimasto almeno un po’ sconvolto. In ogni caso, il Maryland Deathfest 2015 si è chiuso nel migliore dei modi.
Setlist:
Swarth
Kilter
Vessel of Balon
Curtain
13 Globes
Abysmill
Glumurphonel
Black Houses
Omnipotent Crawling Chaos
Awryeon
Werships