Solitamente tra i tipici postumi di un festival primeggia quel sentimento strano tra malinconia per la fine di quello che è stato un weekend o una settimana esaltante, insieme con l’euforia e la speranza di poter rivivere tutto l’anno prossimo. Nel caso di buona parte degli avventori dello statunitense Maryland Deathfest, il ritorno alla cosiddetta vita reale è stato tuttavia più amaro del solito: certo, nulla potrà cancellare i – per lo più – fantastici ricordi legati all’esperienza da poco vissuta, ma quest’anno purtroppo si deve fare anche i conti con la consapevolezza che un MDF non ci sarà nel 2023, o magari addirittura mai più. Purtroppo i due anni di pausa forzata causati dalla pandemia e una lunghissima serie di imprevisti hanno più che mai messo a dura prova le finanze e la sanità fisica e mentale degli organizzatori di questo storico evento. Dopo quasi vent’anni di duro lavoro, dedizione e lungimiranza che hanno portato un piccolo happening locale a diventare piuttosto rapidamente un festival di livello mondiale, vera e propria mecca per moltissimi appassionati di metal estremo, Ryan Taylor e Evan Harting hanno deciso di ritirarsi e di dedicarsi ad altro, lasciando solo uno spiraglio aperto per un eventuale ritorno nel 2024. Di certo tutti gli eventi-satellite nati negli ultimi anni – i vari Netherlands, UK e Quebec Deathfest – non avranno mai più luogo, questo è più volte stato confermato dai due organizzatori. Per il resto, c’è solo da sperare che, dopo un adeguato riposo, il capostipite della famiglia Deathfest possa prima o poi tornare a dominare il calendario dei death metal fan del globo, magari anche solo in una veste più contenuta.
Venendo infine all’edizione 2022, la prima dopo due anni di silenzio, non possiamo che fare i complimenti a tutta la crew responsabile della manifestazione, dato che, tra spese impreviste, annullamenti, cambi di programma, condizioni climatiche avverse e un vero e proprio dramma – il suicidio del giovane Axel James Markle, avvenuto il secondo giorno del festival proprio davanti a uno dei locali – per gli addetti ai lavori questi quattro giorni di festival devono essere stati una vera odissea. Si ammira soprattutto la capacità di far fronte a questa enorme serie di imprevisti e di avversità mettendo sempre al centro il pubblico, il quale è stato sempre informato in tempo reale dei vari cambiamenti e messo nelle condizioni di potere vivere l’evento al meglio delle possibilità. Unico vero incidente è stata la chiusura forzata dell’Edison Lot – l’area esterna allestita in questo grande parcheggio appena fuori dal centro di Baltimore – per un’allerta fulmini nella serata di venerdì, dopo che la città era già stata sfiorata da un tornado nel primo pomeriggio. L’interruzione dei concerti open air ordinata dalle autorità locali ha comportato quindi lo spostamento di Obituary e Carcass, i cui concerti erano previsti in tarda serata, dal parcheggio al Power Plant stage, palco situato all’interno della struttura che ospita vari altri locali utilizzati dal festival: entrambi gli show ne hanno guadagnato in acustica, ma, purtroppo, viste le dimensioni e la capienza più contenute della nuova arena, non è stato possibile ammettere più di qualche centinaio di persone davanti al palco, lasciando così molti avventori con regolare biglietto/braccialetto in fila fuori dal locale. Una situazione che giustamente ha generato malumori, ma che oggettivamente non avrebbe potuto essere gestita in altra maniera, visto lo scarso preavviso: l’unica alternativa sarebbe stata annullare entrambi i concerti, ma fra tale opzione e uno show su scala ridotta, davanti a solo una fetta del pubblico, l’organizzazione ha preferito procedere con la seconda.
A parte ciò, si può insomma affermare che il MDF 2022 sia stato un successo sotto ogni punto di vista, degna conclusione (si spera temporanea) e celebrazione di un’avventura partita nel 2003. Con un programma fittissimo – subito annoverabile tra i migliori di sempre in questo ambito – fan accorsi da ogni parte del mondo e un’atmosfera generale positiva ed elettrizzante (a parte ovviamente alla notizia della morte di Axel), i quattro giorni del festival sono letteralmente volati, lasciando appunto ricordi indelebili nella memoria di tutti i presenti. Ora non resta che pazientare e augurarsi di potere avere aggiornamenti confortanti sulla saga MDF tra un anno o poco più.
MERCOLEDÌ 25 MAGGIO
Per noi il festival inizia già nella serata di mercoledì, con un ‘pre-festival show’ organizzato presso l’Ottobar, locale storico di Baltimore, situato in una zona periferica della città. Il primo gruppo che riusciamo a seguire sono i LEFT CROSS, death metal band di Richmond, Virginia, in cui milita il batterista S.B., oggi in forze ai sempre più chiacchierati Antichrist Siege Machine. Rispetto a questi ultimi, il sound della formazione è molto più quadrato e possente, chiamando in causa Autopsy, Bolt Thrower e Cianide come influenze primarie. La linearità del materiale e il grande entusiasmo che già si respira all’interno della sala – a cui contribuisce ovviamente la stessa band, guidata da un cantante/bassista, Wes Warren, sicuramente dotato del giusto ‘physique du role’ – fanno del concerto un piacevole antipasto in vista di realtà di maggior calibro. La prima di queste sono i SUFFERING HOUR, che arrivano a Baltimore da freschi reduci di un fortunato tour europeo. Si vede subito che la band è rodata e che ha voglia di mostrarsi al pubblico di casa completamente tirata a lucido. Seguiamo lo show dal lato del palco e non possiamo che constatare il notevole affiatamento raggiunto dal trio del Minnesota, abilissimo nel maneggiare il suo death-black metal tecnico e dissonante e nell’infondergli ulteriore verve sulle assi del palco. La disinvoltura che il gruppo sfodera questa sera è merce rara in questo particolare filone: dietro ai cappucci c’è molta sostanza e la resa di pezzi come “Transcending Antecedent Visions” lo dimostra. Avevamo già avuto modo di vedere i ragazzi dal vivo – a un Kill-Town Death Fest di qualche anno fa – ma oggi possiamo dire che il terzetto sia salito decisamente di livello per quanto riguarda la presenza live.
Non è semplice salire sul palco dopo una prova così convincente, ma gli UADA sono una realtà che lavora sodo e che può vantare un curriculum concertistico di tutto rispetto. Rispetto ai Suffering Hour, la band pare prendersi ancora più sul serio, facendo precedere il concerto da un lungo soundcheck e da getti di fumo che rendono a malapena visibile il palco. Lo show, se non altro, si rivela all’altezza della crescente fama del quartetto: il melodic black metal di cui gli statunitensi sono alfieri esplode all’interno del locale con indubbia potenza, innescando il primo vero pogo della serata e anche qualche singalong fra le prime file. Molto serrato il set del gruppo, che praticamente non si concede pause nella quarantina di minuti a propria disposizione: ogni tipo di interazione con i fan deve essere stata reputata superflua, ma ciò non è un male, considerato il tipo di sonorità e la continua ricerca di atmosfera. Pescando equamente dai tre album pubblicati sinora, gli Uada mettono insieme una scaletta molto vivace ed emotivamente coinvolgente, passando dalla pronunciata orecchiabilità della title-track di “Djinn” alle strutture più articolate di una “Black Autumn, White Spring”, mettendo d’accordo tutti. Il mood si fa quindi decisamente più minaccioso con l’arrivo degli headliner IMMOLATION, al primo vero e proprio tour di supporto all’ultima acclamata fatica “Acts of God”. Rispetto ai supporter, il gruppo non necessita di troppi orpelli per impreziosire la propria performance: niente cappucci, fumo, cazzi e mazzi… si punta sulla musica, anche perché il death metal degli Immolation di certo non difetta di profondità e atmosfera. Ross Dolan e compagni sono da sempre una band che crede molto nel proprio repertorio, vecchio e nuovo, quindi non assistiamo a una sorta di concerto-revival, con una scaletta esclusivamente incentrata sui classici. Il quartetto sta giustamente promuovendo “Acts of God” e da quest’ultimo vengono estratti ben sei brani, con “An Act of God” e “The Age of No Light” ad aprire lo show. Negli anni abbiamo visto il gruppo dal vivo moltissime volte e sappiamo ormai cosa aspettarci da questi veterani: un affiatamento incredibile, un growling che, a dispetto dell’età, non molla di un centimetro e uno spettacolo nello spettacolo rappresentato da Robert Vigna, chitarrista dalla presenza scenica eccezionale. Detto di ottime esecuzioni di “Swarm of Terror” e “The Distorting Light”, stasera ritroviamo gli Immolation al top della forma, come se gli anni e la pandemia non avessero minimamente intaccato questo monolite death metal. Una certezza e una garanzia sempre e comunque, a costo di apparire noiosi.
GIOVEDÌ 26 MAGGIO
Giovedì 26 maggio è il primo giorno ‘ufficiale’ del festival. Si parte ‘piano’, con solo due locali/palchi – il Soundstage e il Ram’s Head, situati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro – e con l’area esterna ancora chiusa al pubblico – questa verrà aperta solo a partire da venerdì, con l’arrivo della cosiddetta artiglieria pesante. Il primo show che seguiamo è quello dei MALFORMITY, sorta di veterani dell’underground statunitense, inizialmente emersi nei primi anni Novanta e poi spariti per decenni, fino al ritorno con l’album “Monumental Ruin” (Unspeakable Axe Records) nel 2021. La band di Atlanta non si segnala per chissà quale tocco personale, ma l’entusiasmo del primo giorno di festival è palpabile e la buona acustica del Soundstage rende la performance dei Malformity subito appetibile, almeno alle orecchie di coloro che apprezzano sempre un po’ di death metal vecchia scuola suonato con il giusto trasporto. Del resto, non bisogna poi aspettare molto per salire di livello: i MORTIFERUM sono attualmente impegnati in un lunghissimo tour americano con i Primitive Man e arrivano a Baltimore super rodati ed affamati, oltre che sull’onda di un disco fortunato come il recente “Preserved in Torment”. Max Bowman e compagni sono chiaramente in una parabola ascendente e lo si vede dal numero di persone che accorre sotto il palco del Soundstage, così come dalla sicurezza con cui i ragazzi si presentano e tengono il palco. Qualcuno potrebbe dubitare della resa live di una forma tanto cupa di death-doom, ma il quartetto è davvero in grado di renderlo al meglio, puntando su un suono enorme e un drumming che, soprattutto nei marci midtempo, mette a segno un fendente dopo l’altro. Al pubblico non resta altro da fare che lasciarsi andare ad una sessione di headbanging ignorante, ispirandosi a musicisti che, dal canto loro, di certo non si risparmiano. Giusto un piccolo malinteso all’attacco di “Incubus of Bloodstained Visions”, con la band che è costretta a fermarsi e a riprendere pochi secondi dopo, macchia leggermente una prova altrimenti maiuscola.
Tutti facciamo qualche cazzata ogni tanto: di certo lo sanno bene i ROTTREVORE, culto underground dal lontano 1989, ma realtà assai poco attiva negli ultimi anni, nonostante le loro varie reunion siano sempre state ben accolte. Corriamo all’interno del Ram’s Head per seguire il loro concerto, ma non ci vuole molto a capire che i death metaller statunitensi necessitino di un po’ di rodaggio per tornare sui livelli di una volta. I suoni sono leggermente impastati, ma il ‘problema’ sta proprio nella resa spoglia a macchinosa di quello che, sulla carta, sarebbe materiale eccellente. Amiamo un disco come “Iniquitous”, ma solo la conclusiva “Jesters of Recession” riesce davvero ad arrivarci al cuore, a dispetto di qualche ormai consueta sbavatura qua e là. Nulla da dire sullo spirito che anima i musicisti – si vede che Chris Weber e soci sono contenti ed emozionati di trovarsi qui, tuttavia il loro death metal, già di suo piuttosto contorto, ha bisogno di un affiatamento più lucido per rendere al meglio. Non è una gran serata per i Rottrevore, e ciò è proprio un peccato, visto che ricordavamo con grande piacere la loro performance ad un Kill-Town di qualche anno fa. A livello prettamente esecutivo, gli SKELETAL REMAINS sono invece su un altro pianeta: da quando la pandemia ha iniziato a dare tregua e le frontiere sono state riaperte, i death metaller californiani sono stati in tour full time, cosa che ha portato a un miglioramento esponenziale del loro profilo e della loro resa live. Di nuovo, il Soundstage si riempie di gente per una band di ultima generazione, a dimostrazione di come all’avventore medio del festival non interessino soltanto i vecchi classici sulla bocca di tutti. La band di Chris Monroy, del resto, sta andando a colmare quel vuoto lasciato da formazioni storiche che non esistono più o che non riescono sempre a comporre musica di buon livello: con pezzi come “Traumatic Existence” e “Congregation of Flesh” andiamo in piena zona Pestilence/Morgoth/Malevolent Creation/Disincarnate, con riff affilati e mura di doppia cassa a riportare la mente ai primi anni Novanta e a tutto quel mitico panorama che ha partorito dozzine di capolavori. La band californiana ha davvero tutto per lasciare il segno in un festival di questo tipo e infatti il loro set viene subito salutato come uno dei migliori della giornata. Per capire e apprezzare davvero gli Skeletal Remains, raccomandiamo più che mai l’esperienza live.
Dopo cena, la digestione è agevolata dall’arrivo dei mitologici MORTICIAN, da qualche tempo tornati a farsi vedere dal vivo dopo anni trascorsi lontani dalle scene. Will Rahmer per quanto ci riguarda è già entrato nella leggenda dopo quel numero in Polonia di diversi anni fa, ma talvolta ci piace ricordarlo anche per i suoi exploit musicali, quindi accorriamo con piacere presso il Power Plant stage per assistere alla performance della sua rediviva creatura death-grind. Neanche a dirlo, un set che regala più di un momento di follia, con Rahmer che più volte si mette a discutere con il batterista Sam Inzerra e con il chitarrista Roger J. Beaujard, quasi come se il trio non avesse concordato quali brani suonare prima di salire sul palco. Le continue interruzioni e il generale senso di precarietà tuttavia non frenano l’entusiasmo della vastissima folla accorsa per il gruppo, tanto che il pogo e i circle pit si sprecano su pezzi come “Zombie Apocalypse”, “Cremated”, “Rabid” o “Blown to Pieces”. Ad un certo punto non si capisce quanto il pubblico prenda effettivamente sul serio i Mortician, tanto più che nel finale la band fa ancora di tutto per confondere le idee, salutando e poi tornando a suonare varie volte, ma il colpo d’occhio, almeno a livello di risposta dell’audience, è comunque notevole, degno a tutti gli effetti di un headliner. Più in là nella serata, per congedarsi da vera leggenda, Rahmer si farà poi buttare fuori dalla security, dopo aver dato il via ad una rissa con un avventore. Numero uno. Restiamo in tema ‘reperti dal passato’ con l’arrivo degli SCATTERED REMNANTS, realtà dell’underground della East Coast mai davvero decollata, avendo pubblicato soltanto un EP e un album attorno alla metà degli anni Novanta. Il MDF è celebre anche per il recupero di queste chicche sì ignote ai più, ma davvero care a quei cultori che da sempre seguono il festival. Il gruppo del Massachusetts è autore di un death metal tanto tradizionale quanto ad ampio raggio, con influenze che spaziano dalla scuola nordamericana di Suffocation e primissimi Cryptopsy per arrivare all’Europa dei vecchi Sinister e persino dei Bolt Thrower (vedi l’incipit di “Amidst the Afterbirth”). Brani generalmente lunghi e strutturati costituiscono il grosso del repertorio della band, la quale inizialmente fatica un pochino a scaldarsi, per poi salire sempre più di intensità e presa sul pubblico. Alla fine restiamo contenti della loro prova: tra qualche anno, nelle consuete dimostrazioni di competitività con gli amici, potremmo dire di avere visto gli Scattered Remnants dal vivo. Sì, quelli di “Destined to Fail”.
Il MDF non è solo metal estremo: ogni tanto ci scappa la parentesi doom, sludge o psych. In questo edizione, c’è spazio anche per i FRIZZI 2 FULCI, il progetto con cui il Maestro Fabio Frizzi omaggia i classici horror di Lucio Fulci, riproponendo dal vivo delle versioni riarrangiate delle loro celebri colonne sonore. Un concerto atipico, ma che il pubblico del festival sembra accogliere con trepidazione, a sottolineare ulteriormente il forte collegamento fra certa musica heavy e l’immaginario cinematografico di stampo horror. Il Maestro se la ride di gusto presentando le varie “Sette Note In Nero”, “Zombi 2”, “Paura Nella Città Dei Morti Viventi” e “Manhattan Baby”, forse perché poco abituato a trovarsi nel mezzo di un festival death metal, ma il pubblico segue ed applaude convinto, rapito dall’esibizione di una manciata di musicisti di prim’ordine. Per compensare al meglio a questa parentesi all’insegna dell’eleganza, torniamo quindi nel Soundstage per fare quattro salti con i PYREXIA, sicuri del loro sfoggio di estrema ignoranza. I veterani della scena death metal newyorkese sono da tempo una band dalla spiccata attitudine hardcore in sede live e tale impronta non viene ovviamente a mancare nemmeno questa sera. Abbiamo l’impressione che il locale si riempia proprio di persone in cerca di un’ultima dose di volgarità prima di andare a dormire e, dal canto loro, Chris Basile e soci fanno il possibile per accontentare l’affamata platea, mettendo insieme una scaletta serratissima che passa dagli esordi simil-Suffocation di “Sermon of Mockery” per arrivare agli episodi più orientati su sonorità hardcore, groove e slam degli album successivi. Si scatena quindi una fiera del circle pit e dello stage dive che termina in una completa invasione di palco chiamata dal frontman Jim Beach a fine concerto. Volevamo brutalità e ignoranza becera e siamo stati accontentati.
VENERDÌ 27 MAGGIO
Venerdì è il giorno di apertura dell’Edison Lot, anche noto come l’area esterna o il parcheggio del Maryland Deathfest: area famigerata tanto per accogliere da sempre molti dei concerti più grossi e attesi del festival, quanto per la sua profonda inospitalità non appena le temperature in quel di Baltimore iniziano ad alzarsi (e in questo periodo dell’anno accade spesso). Il primo gruppo che vediamo esibirsi nella fornace sono i GRAVEYARD – quelli spagnoli, ovviamente – realtà ormai consolidata nell’underground death metal europeo, ma ancora poco nota da queste parti. Lo slot sul palco B nel primo pomeriggio non è il massimo per una proposta che, partendo da classici registri swedish death metal, ha negli anni incorporato mood sempre più oscuri e drammatici, ma il quintetto non si perde d’animo e fa il suo, lasciandosi guidare da un frontman esperto e dal sostegno di un pubblico tra le cui fila troviamo anche alcuni connazionali dei ragazzi. Al di là di una resa sonora che non si concilia esattamente con l’ambiente circostante, si nota un trasporto e una coesione fra i membri del gruppo che invece non riscontriamo più di tanto nei MASSACRE, la cui line-up quest’oggi non ha nulla a che fare con quella che ha inciso il recente “Resurgence”. Ovviamente c’è Kam Lee al microfono, ma la band che calca il palco A del parcheggio sembra essere stata assemblata apposta per l’occasione. Certo, il repertorio classico aiuta i Nostri a partire con il piede giusto e ad attirare l’attenzione dei fan di vecchia data, soprattutto grazie alla doppietta “Dawn of Eternity”/“Cryptic Realms”, tuttavia il concerto fatica un pochino a decollare, tra brani dal nuovo album che il pubblico accoglie con una certa freddezza e una coesione tra i musicisti per forza di cose non eccelsa. Resta più impresso il mestiere da frontman di Kam Lee, bravo nell’interagire con il pubblico, fare qualche battuta e presentare efficacemente i brani, oltre a sfoderare un growling ancora di buon livello. Dopo una quarantina di minuti davanti al palco A, torniamo davanti a quello B per vedere gli ATHEIST, band che a livello discografico è ancora ferma a “Jupiter” del 2010, ma che ultimamente ha ripreso l’attività live. Il gruppo è attualmente in tour negli USA assieme ai Suffocation e arriva da queste parti già piuttosto rodato. La line-up attuale è costituita da musicisti molto giovani, reclutati tra gli Stati Uniti e il Messico, con Kelly Shaefer a fare ovviamente da leader e da frontman. A questo punto, davanti a un cartellone pieno di nomi storici, sorge spontanea una riflessione sullo stato attuale della cosiddetta vecchia scuola: se da un lato fa certamente enorme piacere avere ancora l’opportunità di ascoltare dal vivo classici che hanno fatto la storia di questo genere, dall’altro è ormai palese come molte di queste realtà si stiano gradualmente riducendo quasi a uno stato di ‘cover band ufficiale’, avendo in certi casi soltanto un membro storico tra le proprie fila. Per quanto riguarda gli Atheist, se non fosse per la presenza di Shaefer, ottimo frontman da sempre, e per il suono inconfondibile di pezzi come “An Incarnation’s Dream” o “Unholy War”, quella davanti a noi potrebbe essere una formazione qualsiasi. Per fortuna, almeno rispetto ai Massacre, la resa del quintetto è di prim’ordine, con in particolare la sezione ritmica composta da Yoav Ruiz-Feingold al basso e da Anthony Medaglia alla batteria a fare una notevole figura. Del resto, per suonare al meglio alcuni dei massimi esempi di techno-death metal di sempre non si può certo essere degli sprovveduti.
Un discorso simile può essere fatto per i MONSTROSITY: musicisti di grande caratura, ma chi abbiamo esattamente davanti quest’oggi? Il leader della band ovviamente è Lee Harrison, regolarmente al suo posto dietro alla batteria, ma l’unico membro ‘di movimento’ di norma associabile al nome Monstrosity ci risulta essere il chitarrista Matt Barnes, con loro dal 2010. Per il resto, riconosciamo nel ruolo di frontman Edwin Webb, veterano già in forza a Diabolic, Massacre ed Eulogy nel corso degli anni, ma senz’altro nuovo in questa band. Per fortuna la resa di questa rinnovata formazione è comunque più che decorosa: il quintetto è compatto e Webb riesce persino a ricordare il buon Corpsegrinder, sia a livello di timbro che di presenza scenica. Fa piacere sentire un paio di brani dal sempre sottovalutato “In Dark Purity”, ma la vera sorpresa è “Manic”, episodio estratto da “Millennium”, capolavoro della band che tuttavia viene spesso assurdamente ignorato negli spettacoli dal vivo. Con questa perla posta in chiusura, il gruppo si congeda nel migliore dei modi, facendo per un attimo dimenticare i continui avvicendamenti di line-up.
In questo venerdì pomeriggio abbiamo la sensazione di trovarci all’interno di un flipper, visto che nell’area esterna continuiamo a rimbalzare fra palco A e palco B. Su quest’ultimo sono ora in scena i maestri SUFFOCATION, anche loro tornati in tour dopo due anni di pausa forzata. Nel loro caso, l’assenza dello storico frontman Frank Mullen – dall’anno scorso ufficialmente fuori dalla band – è ormai storia vecchia, quindi ci concentriamo soltanto sulla performance di Terrance Hobbs e compagni, ai quali bastano pochi minuti per dimostrarsi carichi e precisissimi come al solito. La scaletta è devastante, con la sola “Entrails of You” a rappresentare il repertorio anni Duemila: il resto del set è infatti occupato dai classici di “Effigy of the Forgotten”, “Pierced from Within” e “Despise the Sun”, sui quali il pubblico dà vita a un pogo e a un circle pit serratissimo. D’altronde, si parla degli eroi di casa, per giunta alle prese con il loro materiale più famoso e celebrato: il successo della performance è dunque scontato e meritato, anche perché nessuno dei musicisti sembra risparmiarsi. Ricky Myers non sarà mai Mullen, ma è probabilmente il sostituto migliore che i Suffocation potessero trovare a questo punto.
Chiamati quasi all’ultimo momento a sostituire i Bloodbath – bloccati dall’ufficio immigrazione americano, il quale per qualche ragione non ha approvato il visto per la band – i DEMOLITION HAMMER non si fanno certo trovare impreparati, imbastendo il loro tipico show intenso e feroce. Purtroppo, come illustrato nell’introduzione, l’Edison Lot sta per venire chiuso per allerta fulmini, quindi riusciamo a vedere solo la prima parte del set della death-thrash metal band statunitense, la quale comunque parte alla grande con una serie di classici come “Skull Fracturing Nightmare”, “Crippling Velocity” e “44. Caliber Brain Surgery”. A conti fatti, il gruppo (per fortuna) pesca sempre e solo dai suoi primi due album, quindi è facile prevedere come si snoderà la scaletta, ma la botta che Steve Reynolds, Derek Sykes, James Reilly e il più giovane Angel Cotte alla batteria riescono a dare è sempre sopra le righe: non ci si annoia mai di vedere questi veterani su un palco.
Corriamo quindi verso il Power Plant per cercare di vedere almeno parte dello show degli OBITUARY, ennesimo grande nome di questo fittissimo programma death metal. Riusciamo per fortuna ad accedere senza patemi prima che i floridiani attacchino con “Redneck Stomp”, traccia strumentale che il gruppo utilizza spesso per scaldarsi. Nonostante il cambio di programma improvviso, gli Obituary appaiono sereni e preparati, anche se, al momento del suo arrivo sul palco, John Tardy ci appare piuttosto appesantito e fiacco. Dopo un paio di brani recenti, è il turno di “Dying”, e il frontman lascia il palco nel corso della prima parte strumentale, probabilmente per rifiatare. Da qui in poi per fortuna lo show prende una piega più intensa e ritmata, con Tardy che sale di vigore raggiungendo il livello dei suoi compari, tra cui primeggia il solito Donald Tardy, un vero e proprio martello ai tamburi. Peccato che in un set di soli quaranta minuti il gruppo scelga comunque di suonare la solita cover di “Circle of the Tyrants” dei Celtic Frost anziché un brano proprio in più, ma tra una “Find the Arise” e una immortale “Slowly We Rot” non ci lamentiamo troppo. Viste le circostanze che hanno preceduto l’esibizione, siamo comunque contenti di avere avuto modo di rivedere all’opera queste vecchie glorie. La vera chicca della serata è in ogni modo rappresentata dai VIO-LENCE, ormai definitivamente resuscitati da Phil Demmel e sempre più presenti sui palchi dei maggiori festival. La line-up è lungi da essere quella originale, ma il chitarrista/leader del gruppo ha comunque messo insieme una squadra piuttosto affidabile con lo storico cantante Sean Killian e il batterista Perry Strickland, a cui si sono recentemente aggiunti il chitarrista Bobby Gustafson (ex Overkill) e il redivivo Christian Olde Wolbers, per anni bassista (e poi chitarrista) dei Fear Factory. Di certo non manca esperienza a questa formazione, anche se l’età e vari acciacchi fisici possono ormai essere un problema per qualcuno di questi veterani: se infatti Demmel sembra sempre in piena forma, lo stesso non si può dire di Killian, che arranca in più punti della performance, arrivando talmente a corto di fiato da faticare a parlare tra un brano e l’altro. Questo è senz’altro il punto debole del gruppo e del concerto di questa sera, anche se indubbiamente a livello strumentale i Vio-Lence fanno il loro, tirando fuori una scaletta molto azzeccata (“Kill On Command”, “Eternal Nightmare”, “Calling In The Coroner”, “I Profit”…) che fa godere vecchi e nuovi fan. Demmel ed Olde Wolbers inoltre si occupano spesso delle backing vocals, andando a riempire e a rendere più competitivo il comparto vocale. Non si può fare miracoli, ma in generale la prova degli storici thrasher californiani si conferma più che dignitosa, lasciando soddisfatta una platea che anzi invoca a gran voce altri brani. Killian tuttavia sta in piedi con il vento a favore e dopo tre quarti d’ora a nessuno sembra il caso di andare oltre.
Cambiamo quindi completamente suono – e location, dato che entriamo nel bellissimo Ram’s Head – per assistere alla prova dei PANZERFAUST. La black metal band canadese è tra le più chiacchierate degli ultimi anni e si presenta a Baltimore poco prima dell’annuncio dell’arrivo del nuovo album “The Suns of Perdition – Chapter III: The Astral Drain”. Il Ram’s Head risulta particolarmente adatto al suono e alle aspirazioni del quartetto, fautore da qualche tempo di un black metal tetro e avvolgente, dove certe suggestioni tipiche della scuola polacca incontrano vaghi rimandi industrial e varie digressioni atmosferiche. Musica a cui va prestata una certa attenzione e che viene ben interpretata da un gruppo che sembra dare estrema importanza ai dettagli. Anche il fatto di collocare il gigantesco frontman Goliath dietro a un pulpito posto al centro del palco, in modo da sottolineare ancora di più la sua autorità, si rivela un accorgimento interessante, dando alla performance un tocco teatrale in più senza scadere troppo nel pacchiano. Per il resto, i canadesi suonano con convinzione, con l’ottimo batterista Alexander Kartashov in grado anche di catturare l’attenzione più del frontman, grazie ad una serie di finezze sopra le righe. Pezzi come “The Day After Trinity” e “The Snare of the Flower” restano particolarmente impressi, ma si può dire che tutto il set dei Panzerfaust sia degno di una menzione speciale in questa giornata sempre più sfiancante.
Si inizia in effetti a sentirsi un po’ provati, ma decidiamo di sederci e di seguire anche il concerto dei THE RUINS OF BEVERAST, nonostante il loro recente show a Londra sia ancora saldamente nella nostra memoria. I tedeschi sono ormai un vero e proprio nome di culto anche da queste parti e infatti il Ram’s Head resta pieno, nonostante l’ora tarda. Proprio come un paio di mesi fa, Alexander von Meilenwald e soci si dimostrano pienamente consapevoli del loro valore e sempre più sicuri nell’interpretazione di un black-doom metal dai mille volti, nel quale si può passare tranquillamente da partiture estremamente rocciose a voli pindarici dove echi doom e psichedelici fanno da principali protagonisti. Non è insomma la presenza scenica del gruppo a colpire, ma l’abilità nel gestire composizioni tanto impegnative come se si trattasse di canzoni qualsiasi. Come accennato in occasione del concerto londinese, il leader del progetto si è negli anni circondato di musicisti di grande esperienza e questo ha senza dubbio pagato per quanto riguarda la resa complessiva dei brani, oggi quasi impeccabili anche a livello di linee vocali. Una buona fetta del pubblico è stanca e resta seduta o appoggiata alle transenne o sui balconi, ma gli applausi sono sempre più convinti e fragorosi, segno che a pochi sta davvero calando la palpebra. Alla fine, siamo contenti di avere sfidato la stanchezza, venendo ricompensati con un altro grande concerto.
SABATO 28 MAGGIO
Nel weekend i concerti iniziano presto e l’area esterna viene aperta attorno a mezzogiorno. Temiamo il caldo infernale che soffriremo all’interno di questa piana di asfalto e catrame, ma, dopo tutto, questo è parte del prezzo da pagare per assistere a tutto questo ‘ben di Satana’. Il sound dei DRAWN AND QUARTERED, tra l’altro, ben si adatta al caldo infernale che si percepisce all’interno dell’arena: con chissà quanti dischi e brani dedicati agli inferni, ci sta, una volta tanto, esibirsi in un contesto che li ricordi abbastanza da vicino. Poi non ci sono dubbi sul fatto che il torvo death metal caro alla formazione statunitense renda meglio al buio e/o al chiuso, ma tant’è. I veterani di Seattle si esibiscono oggi come quartetto, con una giovanissima nuova aggiunta alla chitarra ritmica, e, nonostante la luce e il sole accecante, dimostrano come esperienza e attitudine siano elementi inequivocabili della loro proposta e del loro status di band. Di certo il gruppo non si risparmia, ma è l’atmosfera genuinamente mortifera di pezzi come “Return of the Black Death” o “Hail Infernal Darkness” a fare il grosso del lavoro. Basta chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalle vibrazioni di questo repertorio per rendersi conto della caratura di una band che per tanti anni ha avuto davvero poco da invidiare a maestri come Incantation e Immolation. Spostandoci sul palco B, ci imbattiamo invece in una band che non ha particolari esigenze a livello di location e atmosfera: gli ENFORCED sono infatti un perfetto gruppo ‘da parcheggio’ con il loro thrash metal/crossover venato di hardcore da zero pretese. I ragazzi di Richmond, Virginia, hanno spostato il tiro su un thrash metal dalla forte impronta slayeriana con il loro ultimo album “Kill Grid”, ma originariamente la proposta aveva parecchi punti di contatto con Municipal Waste e, soprattutto, Power Trip: per fortuna, tale attitudine verace e senza compromessi è rimasta alla base della band, che non a caso quest’oggi recupera anche diversi brani dagli esordi, dando il via a una lunghissima serie di circle pit, alla faccia della temperatura sempre più preoccupante. Knox Colby è esattamente il frontman che ci aspetteremmo di trovare in una realtà di questo genere, ma lui non è certo il solo a farsi segnalare: tutta la band appare infatti affiatata e più che abituata ad esibirsi dal vivo. Il bello di questo tipo di thrash metal è la linearità, il groove di facile presa e le cadenze mosh: dagli Enforced, di conseguenza, ci aspettavamo uno show divertente e proprio così è stato.
Invece, non si ride affatto con l’arrivo dei famigerati CEREBRAL ROT: se i Drawn And Quartered rappresentano la vecchia scuola della scena di Seattle, gli autori di “Excretion of Mortality” sono visti come i leader della nuova generazione di death metaller di questa città nota perlopiù per il grunge. E che leader: i quattro, capitanati dall’enorme chitarrista/cantante Ian Schwab, hanno facce e pose ben poco rassicuranti, esattamente in linea con il mood della musica che propongono. Gente pericolosa che suona musica pericolosa, con un’aria losca che precede quanto uscirà dagli amplificatori. Apparenza a parte, il gruppo si conferma di prim’ordine anche dal vivo, imbastendo una performance intensa e risoluta, con buona parte della scaletta occupata dai brani della succitata ultima fatica. “Vile Yolk of Contagion” e “Retching Innards” trapanano il cervello tanto quanto il sole che domina l’arena, sottolineando anche in questo contesto il tiro e l’efficacia della miscela di old school death metal finlandese e primordiale death-grind che abbiamo avuto modo di apprezzare su disco. Siamo sicuri che all’interno di un locale il sound dei Cerebral Rot sia capace di rendere dieci volte di più, ma già oggi non osiamo lamentarci.
Nella solita modalità flipper, torniamo davanti al palco B per assistere al concerto degli IMPRECATION. Più che ‘davanti’, sarebbe forse il caso di dire ‘nei pressi’, dato che seguiamo l’esibizione dal lato del palco, nell’ombra garantita dal cavalcavia della tangenziale soprastante. Da buoni texani, gli Imprecation sono probabilmente abituati a simili temperature e, non a caso, la loro performance è molto vigorosa e per nulla frenata dalla luce e dalla mancanza di atmosfera tenebrosa. I death metaller di Houston sono ormai dei veterani, nonostante non siamo mai davvero usciti dal giro underground, e fra gli aspetti migliori del loro concerto vi è senz’altro una buona dose di stoicismo, una sorta di fanatismo underground che anima il frontman Dave Herrera e tutti i suoi soci. Con convinzione estrema, il quintetto suona e aizza la folla a sostenerlo, senza concedere e concedersi pause. Del breve set, ci rimane particolarmente impressa un’interpretazione ferocissima di “Morbid Crucifixion”. A questo punto, ci prendiamo una pausa per tornare davanti al palco B per assistere al concerto degli ONSLAUGHT, quest’oggi un quartetto visto che il leader Nige Rockett si è recentemente infortunato e non è in grado di suonare la chitarra. Tocca al cantante David Garnett occuparsi della ritmica, in un ruolo da cantante/chitarrista che il Nostro ha già ricoperto nella sua vecchia band Plague. Per forza di cose, l’affiatamento e, soprattutto, la resa dello show dei britannici non è quello a cui siamo abituati, ma, al tempo stesso, non si può dire che la band non ce la metta tutta. La scaletta è meno corposa del solito, tuttavia pezzi come “Le There Be Death” o “Destroyer of Worlds” riescono a lasciare il segno sulla folla e a riscuotere il successo sperato, con un Garnett per forza di cose più limitato nei movimenti, ma sempre abile nel prendere per mano i fan e nel calarli ‘dentro’ la performance. Un’altra line-up tutta da testare è quella dei CANCER: John Walker ha di recente reclutato forze fresche, tanto che la formazione della storica death metal band di origine inglese è oggi perlopiù spagnola, visto l’arrivo del bassista Daniel Maganto (Eternal Storm, Liquid Graveyard) e del batterista Gabriel Valcázar (Wormed, Bizarre). Il terzetto impiega qualche minuto a prendere confidenza con il palco, ma poi l’esibizione sale di intensità, trainata da un Walker più ciarliero e, soprattutto, da una serie di brani estratti dai primi album, fra cui “Blood Bath”, “C.F.C.”, “Tasteless Incest” e “Hung, Drawn and Quartered”. Lo show del trio va in effetti oltre le nostre aspettative, soprattutto per quanto riguarda la risposta di pubblico: non ricordavamo che i Cancer avessero tutti questi fan da queste parti e l’entusiasmo delle prime file finisce per coinvolgere tanti altri, in un circle pit che andrà avanti ininterrottamente fino al termine del concerto. A questo punto, il programma prevederebbe l’esibizione dei Triptykon, ma l’aereo su cui viaggiano Tom G. Fischer e soci è in ritardo, quindi gli AUTOPSY decidono di anticipare il loro set e di invertire lo slot con gli svizzeri, in modo da evitare che il concerto venga del tutto annullato. Gran signori, oltre che leggende immortali del death metal, gli Autopsy si ritrovano comunque a suonare davanti al loro solito pubblico, in un ruolo da headliner anticipati che non compromette affatto la riuscita del loro show. Del resto, line-up e scaletta sono ormai collaudati – pur tenendo conto del recente ingresso in line-up del bassista Greg Wilkinson – e la band non ha ovviamente proprio nulla da dimostrare. Con la sicurezza per cui è da sempre famoso, Chris Reifert detta i tempi e fa da vero mattatore dello show, attirando su di se l’attenzione di tutti grazie a una prova sentitissima e priva di sbavature, tanto alla batteria quanto al microfono. Non si può dire che il quartetto californiano non spazi nel proprio repertorio, visto che sono puntuali le sortite nel materiale più recente on in uscite di nicchia, ma tre quarti della setlist sono pur sempre occupati da canzoni di “Severed Survival” e “Mental Funeral”, così da dare ai fan la massima soddisfazione in questo evento così fieramente old school. A rendere il concerto ulteriormente ‘memorabile’, ci pensa poi una coppia un filino esibizionista, che ad un certo punto si rende protagonista di una sessione di cunnilingus proprio nel mezzo del pit, generando sgomento e ilarità tra gli astanti. Un aneddoto da raccontare agli amici, quasi quanto la resurrezione dei fratelli CAVALERA, che si presentano al Maryland Deathfest nel corso del tour nel quale stanno riproponendo “Beneath the Remains” e “Arise”. I musicisti al loro fianco sembrano di ottimo livello, ma sono soprattutto i fratelli a colpire per il loro buonissimo stato di forma. Igor, in particolare, quando ha voglia è ancora uno dei migliori batteristi sulla piazza e questa sera non perde occasione di dimostrarlo su pezzi come “Stronger Than Hate”, “Slaves of Pain” o “Arise”. Anche Max, pur essendo come sempre sovrappeso, sembra ‘ripulito’, messo meglio e più in palla, sia alla voce che alla chitarra ritmica. Abbiamo l’impressione che buona parte dei presenti abbia smesso di seguire i gruppi dei Cavalera ormai da diverso tempo, ma la scaletta vecchia scuola di questa sera (comprendente una selezione dai succitati album, in quanto non vi è tempo per suonarli interamente) non può lasciare indifferenti. Il gruppo si esibisce infatti davanti a una platea vastissima, forse la più grande dell’intero festival, e a conti fatti non delude, facendo compiere a tutti un bel tuffo nel passato, mettendo da parte puzza sotto al naso e atteggiamenti pseudo-elitari. Ci sarebbe piaciuto ascoltare magari un pezzo in più da “Arise”, oppure un estratto da “Schizophrenia”, al posto della solita “Troops of Doom”, ma pazienza… solo sorrisi e applausi per il duo brasiliano e le sue spalle. Una volta tanto, davvero meritati.
A questo punto abbandoniamo il parcheggio per recarci presso il Soundstage, dove vogliamo seguire la prova dei MIASMATIC NECROSIS, goregrind band americana che sta iniziando a far parlare parecchio di se nel giro underground, anche perché il frontman è quello stesso Evan Harting fondatore del Maryland Deathfest. L’album di debutto “Apex Profane” è uscito ormai un paio di anni fa, ma la pandemia ne ha frenato un pochino la promozione, tanto che si parla ancora di esso come di un prodotto recente. La band poi non ha ancora avuto modo di suonare dal vivo più di tanto, quindi l’esibizione è per molti una novità da gustarsi con attenzione. Dello show ci colpiscono in primis i suoni enormi e le forti luci rosso sangue che riducono i musicisti a delle sagome nere sul palco. Sul fronte musicale, poi, il quartetto si dimostra preparatissimo nella rielaborazione di quel suono figlio di “Reek of Putrefaction”, poi ulteriormente involgarito ed estremizzato da band come Regurgitate e Dead Infection. Riff grassissimi e un triplo attacco vocale, sempre tendente al gorgoglìo, completano il quadro. Il disco dura poco più di venti minuti e anche dal vivo questa durata si rivela perfetta per non venire a noia, data la scarsa varietà delle composizioni. Un buon concerto che viene seguito da uno assolutamente stratosferico: parliamo dei DEEDS OF FLESH e del loro atteso ritorno su un palco dopo ben quindici anni di assenza dalla dimensione live. In questo lasso di tempo sono successe tante cose, fra cui naturalmente la triste scomparsa del chitarrista/cantante Erik Lindmark, ma la storica death metal band californiana esiste ancora e, dopo aver completato l’ultimo album “Nucleus” con una serie di ospiti, ha deciso di tributare al suo vecchio leader un ultimo omaggio attraverso questa sentita esibizione. Con lo storico bassista/cantante Jacoby Kingston ora nel ruolo di unico frontman, il quartetto – con Mike Hamilton alla batteria e la coppia Craig Peters e Ivan Munguia alle chitarre – fomenta i numerosi presenti davanti al Power Plant stage con un set intensissimo e praticamente impeccabile a livello di esecuzione. Non è proprio da tutti tornare sul palco dopo tutto questo tempo e ostentare una simile professionalità e sicurezza: sono frasi fatte, ma davvero sembra che il tempo si sia fermato per Kingston e compagni, impeccabili nell’interpretare il loro death metal brutale e spesso ultra tecnico come se si trattasse della cosa più semplice del mondo. Il repertorio della band è vasto, ma ai Nostri vanno anche fatti i complimenti per la gestione del tempo a disposizione e per l’occhio di riguardo per i fan di vecchia data: con numerosi estratti da “Trading Pieces” e da “Path of the Weakening”m (più addirittura “Three Minute Crawlspace” dal vecchissimo “Gradually Melted”), i veterani sono stati accontentati. Per tutti gli altri, un mix di brani dal periodo centrale e da quello finale, con ben due pezzi da “Portals to Canaan” che hanno entusiasmato i fan dei tecnicismi. Una serata insomma da ricordare, sia per il gruppo che per tutti gli appassionati accorsi davanti al palco.
Chiudiamo questo afoso sabato con una gradita ventata di gelo proveniente dalla Svezia. All’interno del Ram’s Head si esibiscono infatti i NECROPHOBIC, pur in una formazione rimaneggiata. Troviamo infatti il solo Sebastian Ramstedt alle chitarre (Johan Bergeback deve essere stato trattenuto da qualcosa, impegni o covid), mentre al basso c’è Tobias Cristiansson dei Grave. Chi conosce bene il sound dei death-black metaller svedesi sa quanto due chitarre siano pressoché essenziali per la resa di molte canzoni del repertorio, ciononostante il gruppo riesce comunque a fare una buona figura, caricando a testa bassa e puntando, dove possibile, sul materiale più essenziale e di maggiore impatto (”Mark of the Necrogram”, “Devil’s Spawn Attack”…). Da non sottovalutare, inoltre, l’ottimo lavoro svolto dal frontman Anders Strokirk nell’attirare su di se l’attenzione degli astanti: quando un assolo finisce per scoprire sin troppo la ritmica, l’esperto cantante puntualmente invoca il pubblico a urlare e a mostrare le corna, cercando di coinvolgere tutti nonostante l’oggettiva mancanza di un elemento portante della musica della band. A dispetto di premesse non felicissime, i Necrophobic riescono insomma a portare a casa il risultato, facendo ottimo uso della loro esperienza e cavalcando al massimo l’entusiasmo di una platea che non è certo troppo abituata a vedere da queste parti certi esponenti del metal estremo europeo.
DOMENICA 29 MAGGIO
Ultimo giorno di festival e la stanchezza inizia a farsi sentire. Il sole è già alto e il caldo torrido, ma non possiamo esimerci dal recarci nel parcheggio appena dopo pranzo e seguire il nostro personalissimo programma. Il primo gruppo che ci siamo annotati sono i NOCTURNUS AD di Mike Browning, autori del notevole “Paradox” del 2019 e credibili eredi di quel culto che i Nocturnus crearono con dischi come “The Key” e “Thresholds” nei primi anni Novanta. Non a caso, l’incipit del concerto è affidato a due cover dei suddetti – “Lake of Fire” e “Neolithic” – sulle cui note il pubblico prova un po’ a dimenticare l’afa e a lasciarsi andare nei soliti circle pit. La luce, l’arsura e un’area esterna ancora poco frequentata non aiutano però il gruppo, che stenta a prendere ritmo e ad attirare l’attenzione. Non si può dire che i death metaller floridiani suonino male, ma manca quell’atmosfera che invece verrebbe garantita da un locale, dove buio e giochi di luci potrebbero supportare al meglio la vena sci-fi tipica della formazione. Si resta insomma un po’ freddini davanti all’esibizione: anche la cover di “Angel of Disease” dei Morbid Angel – messa lì per ricordare che Browning è stato parte anche di quel gruppo agli esordi – lascia un po’ il tempo che trova. Un altro pezzo da “The Key” avrebbe avuto più senso, trattandosi dopo tutto di un concerto dei Nocturnus (AD).
Sul palco A del parcheggio i BLOOD INCANTATION potrebbero rischiare lo stesso semi-flop, ma, anziché sparare a salve, Paul Riedl e compagni si rendono protagonisti di una prova decisamente più intensa e seguita. Ovviamente oggi non vi è spazio per le tastiere e gli organi del recente “Timewave Zero”: il MDF chiama una scaletta death metal e i quattro eseguono senza esitazioni, andando a recuperare il loro repertorio più acclamato. Certo, caldo e luce anche qui non sono di aiuto, ma le derive psichedeliche di certe porzioni strumentali riescono in qualche modo ad entrare in sintonia con il contesto. Mentre ascoltiamo pezzi come “The Giza Power Plant” e “Inner Paths (to Outer Space)”, ci immaginiamo in un deserto a cercare peyote, mentre quando arriva la lunghissima “Awakening from the Dream of Existence to the Multidimensional Nature of Our Reality (Mirror of the Soul)” tutta l’attenzione si sposta sulla performance dei musicisti, qui alle prese con la loro composizione più densa e impegnativa. Fermo restando che un locale o un evento al chiuso è e sempre sarà l’ambiente migliore per godersi il death metal pro-calvizie del gruppo, dopo oggi possiamo affermare che i Blood Incantation non temano alcuna condizione e siano sempre capaci di fare il ‘loro’ e di trasmettere la propria personalità. Dopo averli ammirati su un palco varie volte dall’uscita del debut album, resta forte l’impressione di avere davanti a noi una delle migliori live band degli ultimi anni.
A questo punto decidiamo di fare una capatina nel Soundstage per goderci la prova dei WHORESNATION: la location ci risulta graditissima anche per la sua aria condizionata. La band francese è da qualche giorno in tour per gli Stati Uniti e la ritroviamo compatta ed affiatata come previsto. Siamo davanti a un gruppo abituato a suonare dal vivo e forte di quella attitudine umile e senza compromessi tipica dell’ambiente grind. Senza alcun giro di parole, il quartetto spara una scarica di tracce brevissime estratte per lo più dal nuovo “Dearth” e dal precedente “Mephitism”, trovando pronto sostegno in una platea preparata ed entusiasta, che non può fare a meno di cogliere ed apprezzare i riferimenti a Insect Warfare, Nasum e Wormrot all’interno della proposta. Dopo avere divorato “Dearth” in cuffia, è un piacere constatare come il repertorio del gruppo transalpino renda alla perfezione anche sulle assi di un palco. Torniamo quindi all’area esterna per beccare un’ultima manciata di esibizioni piuttosto attese: la prima è quella dei TRIUMPH OF DEATH, progetto di cui si è parlato tanto negli ultimi anni, se non altro perché quello che doveva essere un estemporaneo tributo agli Hellhammer e al passato remoto di Tom G. Warrior, è in fretta diventato la priorità di quest’ultimo, con buona pace dei Triptykon, realtà purtroppo mai davvero esplosa nonostante un repertorio di notevole livello. Sembra che il leggendario chitarrista/cantante svizzero oggi preferisca puntare sul sicuro, con un revival che ha sempre molte richieste e il supporto assicurato di una certa fascia di pubblico. Detto ciò, lungi da noi sottovalutare la prova del gruppo, che nella persistente afa del tardo pomeriggio dà vita ad un concerto estremamente solido e godibile. Tom pare di ottimo umore e nella pausa fra un brano e l’altro arriva a scherzare sulla necessità di accordare il proprio strumento quando si suona musica come quella degli Hellhammer. La platea è dalla sua parte e il set prende presto una piega molto serrata, sull’onda di pezzi come “Crucifixion”, “Reaper” e “Messiah” che innescano un gran movimento tra le prime file.
Dal primitivo proto-black metal degli Hellhammer passiamo quindi al death metal degli HYPOCRISY. Lasciamo ‘melodic’ da parte per un attimo, perché quella di questa sera è una performance decisamente aggressiva, durante la quale gli svedesi vanno a recuperare numerosi brani risalenti alla prima fase di carriera. Evidentemente Peter Tägtgren ha voluto allinearsi all’orientamento generale del festival e così ecco spuntare in scaletta le vecchie “Mind Corruption”, “Inferior Devoties”, “Pleasure of Molestation”, “Osculum Obscenum”, “Penetralia” e “Impotent God”, oltre a hit sempre affidabili come “Adjusting the Sun” e “Roswell 47”. Si viene colti di sorpresa dall’impeto della band, tanto che il pubblico appare sempre più entusiasta con il passare dei minuti. Del resto, da queste parti ‘vecchio = buono’, come possono testimoniare i fratelli Cavalera, e una scaletta di questo tipo non può che incontrare il favore dei fan e degli ascoltatori occasionali. Giusto qualche problema tecnico nel finale spezza lievemente il ritmo degli Hypocrisy, i quali riescono comunque a portare a casa un gran risultato, sorprendendo di molto tutti coloro che si stavano aspettando uno show più mite e ‘telefonato’.
Spostandoci sul palco A, sappiamo invece a cosa andiamo incontro, visto che i DEICIDE hanno annunciato che questa sera eseguiranno “Legion” per intero. Si tratta di un Evento con la ‘E’ maiuscola per tutti coloro che seguono la band dagli anni Novanta o che conoscono l’importanza di questo album all’interno della scena death metal, quindi le aspettative sono alte, tanto che la tensione che si respira prima dell’inizio del set non è quella di un normale concerto dei floridiani. Diciamo subito che il quartetto – recentemente raggiunto da Taylor Nordberg alla seconda chitarra – si dimostra subito all’altezza del compito, partendo ’timidamente’ con una “Satan Spawn, the Caco-Daemon” leggermente più lenta dell’originale e guadagnando in impatto e confidenza con il passare dei minuti, tanto che da “Repent to Die” (suonata live per la prima volta in assoluto) si è già in preda all’esaltazione collettiva. Glen Benton in principio appare quello più impacciato, con movimenti ridotti al minimo e un growling che fatica a stare dietro alle vorticose trame dei brani, ma nel giro appunto di un paio di canzoni il livello si alza e si iniziano a sentire tutte le sfumature vocali che sin lì ci erano mancate. Nordberg si rivela poi un ottimo acquisto, tanto alla chitarra quanto al microfono, visto che spesso ’doppia’ Benton alle backing vocals. In generale, la band suona bene e rende giustizia al disco, anche se in futuro sarebbe consigliabile collocare questa parte del set nel finale, dopo avere suonato una manciata di brani di riscaldamento. Partire subito con un episodio complesso come “Satan Spawn” può essere rischioso: non a caso, i pezzi proposti una volta terminato “Legion”, vengono accolti meglio da parte di una fetta del pubblico, che vede il gruppo più affiatato e ‘in palla’ rispetto ai primi minuti. Detto ciò, restiamo soddisfatti della prova dei Deicide: i quattro si sono indubbiamente impegnati e ci hanno fatto vivere grandi emozioni proponendo dopo tantissimo tempo pezzi come “Behead the Prophet” o “Revocate the Agitator”. Speriamo di avere modo di assistere ad un concerto simile in Europa quanto prima.
L’area esterna chiude e ci si sposta nuovamente all’interno del Soundstage per assistere alla prova dei GRAVESEND, il cui debut album “Methods of Human Disposal” ci ha molto colpito lo scorso anno. Strano ibrido fra death-grind e war metal, il trio di New York gode di suoni grezzi ma potentissimi, riuscendo subito a catalizzare l’attenzione di un pubblico vasto e partecipe che sembra già conoscere piuttosto bene il repertorio. A differenza di molte altre band esibitesi in questo locale – dove il grindcore e le forme più estreme di death metal regnano da sempre – i Gravesend hanno una presenza scenica tutto sommato compassata, ma evidentemente è sufficiente l’efferatezza dei loro brani per attirare e coinvolgere gli astanti. I riff sempre più quadrati e una batteria che spesso sembra più colpita che suonata rendono quello dei ragazzi statunitensi uno degli show più intensi di questa giornata del festival. Non c’è stanchezza che tenga davanti a un gruppo tanto determinato. Dopo questa botta ci spostiamo brevemente davanti al Power Plant stage, sul quale si stanno esibendo gli EXHORDER. Del concerto dei thrasher di New Orleans ci colpisce soprattutto la presenza dell’ex Cannibal Corpse Pat O’Brien alla seconda chitarra: evidentemente il veterano ha scontato la sua pena ed è tornato in circolazione. Davanti a una performance senza dubbio riuscita (sempre bella “Desecrator”!), anche se non seguitissima da un pubblico ormai alquanto stanco e distratto, ci auguriamo che O’Brien possa presto ricominciare da dove aveva lasciato e dimenticare le assurde circostanze di qualche anno fa.
A questo punto ci accingiamo a compiere l’ultimo sforzo ed entriamo all’interno del Ram’s Head per seguire un altro paio di concerti, fra cui quello dei DARK FORTRESS, ormai dei veterani del circuito black metal europeo, anche se mai davvero esplosi a livello di popolarità. Seguivamo il gruppo soprattutto agi inizi degli anni Duemila, quando il sound sembrava partire dalla scuola Dissection per poi abbracciare una serie di altre influenze black-death. Oggi i tedeschi hanno un indirizzo un po’ più melodico, anche progressive all’occorrenza, ma con il set di questa sera i ragazzi cercano di spaziare un po’, proponendo tanto materiale recente ma anche qualche episodio più datato. Meglio così, perché il frontman Morean non sembra sempre a suo agio con il tono pulito e gotico di certe linee vocali del nuovo repertorio: l’impatto di un pezzo come “Ylem” o di una “Baphomet”, quest’ultima decisamente ispirata ai Satyricon, è senz’altro meglio apprezzato e vale alla band una lunga serie di applausi. Restando in tema ‘residuati del black metal europeo’, è quindi il turno dei SACRAMENTUM. Amiamo il loro debut album “Far Away from the Sun” e il fatto che oggi il gruppo lo riproponga per intero ci incuriosisce, anche se nutriamo qualche dubbio sulla resa live di una formazione ferma da parecchi anni e che nemmeno nel suo momento di maggior splendore ha avuto modo di suonare più di tanto. Diciamo che ci basta una manciata di canzoni per farci un’idea della condizione attuale degli svedesi: se la componente musicale viene ben gestita da un gruppo di musicisti certo poco attivo sul palco ma più che competente a livello esecutivo, il frontman Nisse Karlén ci dà l’impressione di non avere alcuna idea di come stare on stage e cosa fare davanti al pubblico. Senza dubbio il cantante non è timido, ma i balletti, le movenze sempre più goffe e tutta una serie di atteggiamenti ‘over the top’ che stridono con l’atmosfera fredda e spesso malinconica della musica alla lunga rendono lo spettacolo poco digeribile. È tutto molto ‘cringe’, come dicono i giovani oggi: anche il calice con il sangue finto sa di trovata di Serie B – più Mystic Circle che Watain – con il risultato che presto ci ritroviamo nuovamente all’interno del Soundstage per dire addio al Maryland Deathfest sulle note dei CEPHALIC CARNAGE, band certamente più concreta, nonostante da sempre non ami prendersi sul serio. In questo senso, per noi fan dai tempi di “Lucid Interval”, è difficile dimenticarsi di un brano assurdo come “Black Metal Sabbath”, sorta di incrocio tra Black Sabbath, Eyehategod e Darkthrone che gli statunitensi propongono da tempo nel finale dei loro show. Questa sera non fa eccezione, così come arrivano prevedibili i numerosi estratti da “Anomalies”, altra pietra miliare della death-grind band del Colorado. I Nostri giocano praticamente in casa, avendo alle spalle una lunghissima storia di tour in lungo e in largo per gli USA, e sono una band ideale per celebrare la fine di questa fantastica edizione del festival e il possibile epilogo della saga Maryland Deathfest. Il Soundstage è stracolmo e non ci scende la lacrimuccia solo perché siamo troppo stanchi anche per piangere, ma l’emozione è grande. Comunque vada, abbiamo chiuso in bellezza e band e fan sembrano più che mai consapevoli della cosa quando le luci si accendono. Grazie di tutto, MDF!