10/02/2023 - MASTER BOOT RECORD + AROTTENBIT + KENOBIT @ Legend Club - Milano

Pubblicato il 12/02/2023 da

Le frontiere della musica sono, per loro stessa natura, mutevoli: appena se ne definisce un limite esso diventa immediatamente codificato e si riparte alla ricerca di un ‘altrove’ appena più in là. Il fascino della scoperta di nuovi suoni, nuovi confini e note oltre essi è da sempre uno dei due motori propulsori della musica metal, perennemente ondivaga tra innovazione (a tutti i costi?) e nostalgia di un canone eternamente ripetuto, declinato e riproposto, spesso uguale a se stesso.
Là dove queste due tendenze si incontrano, chiudendo un cerchio immaginario, nascono però ancora una volta nuove esperienze, in grado di far confluire al loro interno sostenitori dell’una e dell’altra, mescolandoli in maniera inaspettata per poi sputarli fuori sottoforma di ibridi strani.
È con queste riflessioni in testa che ci affacciamo al Legend Club in un gelido venerdì di febbraio per la prima data milanese del progetto Master Boot Record, uno di quegli ibridi poc’anzi citati, che racchiude in sè panorami industrial, codici di programmi, computer paleolitici, grafiche da videogiochi in 8bit e la longa manus della synthwave più squisitamente d’ispirazione ottantiana a tenere tutto insieme. Le visioni di circuiti e codici binari (o meno?) del musicista italiano Vittorio D’Amore sono state sposate dalla Metal Blade anche per l’ultimo uscito, risalente all’anno scorso, “Personal Computer”, e la data milanese è solo la prima di un tour lungo i sentieri al neon di mezza Europa.

A settare la serata su panorami ulteriormente cybernetici e distopici, il madmaxiano marciume muscolare di Arottenbit e l’assurdo mondo sprigionato dal Gameboy (!) di Kenobit: entrambi sono accolti da un pubblico davvero nutrito e partecipe.
Notiamo come la composizione di spettatori e spettatrici sia varia per età, stasera con una media al ribasso, e bacini – ipotetici – di ascolto (ad un esame superficiale si passa dai ‘nostri’ abituali giacchetti pieni di toppe di gruppi metal ai colori fluo delle discoteche di vent’anni fa a tutoni extralarge corazzati da lunghe ore sotto cassa); vedendo la risposta positiva ed entusiasta di una serata come questa, ci chiediamo se anche i generi più inossidabili all’interno del panorama metal possano trovare – e in che modo – in proposte del genere una via per evolversi, mutare e andare verso derive inaspettate spostando le proprie nostalgiche frontiere in questa direzione. Le evoluzioni musicali dei prossimi anni sapranno darci forse risposte più chiare a questa domanda, intanto a voi il racconto della serata.

Si può davvero fare musica suonando un Gameboy? A quanto pare sì, e la risposta alla domanda si chiama Fabio Bortolotti, in arte KENOBIT.
Le note stridule, totalmente sintetiche che emergono dalle casse raccontano di un amore viscerale per i videogiochi da Sega o Nintendo, mescolati con un’attitudine smascellata e irruenta da predone punk di Kenshiro ed è palese, fin dalla riproposizione dell’iconica “Giorgio by Moroder” dei Daft Punk in versione chiptune, come questa stortissima mescolanza di retrogaming e violenza sbrindellata accolga il favore generale del pubblico. Gente che balla, salta e segue le combinazioni ardite delle voci monofoniche caratteristiche del Gameboy (uno dei capisaldi per appassionati di videogame più o meno stagionati), che siano la riproposizione di pezzi di storia pop contemporanea come appunto la sigla di “Hokuto No Ken” (omaggiata da un coro così unito e compatto come neanche sui classici dei Maiden) o la sanguinaria tempra di “South Of Heaven” degli Slayer. E se ad esempio il tema portante del videogioco “Doom” è perfetta anche in questa versione, “Bella Ciao” e “Fischia Il Vento” suonano un po’ svuotate dal substrato ‘resistente’, nucleo pulsante e parte intrinseca della loro bellezza, dai recenti remix a uso e consumo di discoteche e serie tv; eppure ci rendiamo conto che non c’è malizia nella cresta compatta di Kenobit, così come nel resto delle persone che ballano ondeggiando: solo una voglia pazzesca di evadere dai confini della realtà immergendosi in un immaginario mitico recente, reinterpretandolo con vecchissimi, nuovi strumenti di lettura.
La codificazione chiptune di AROTTENBIT, invece, è più ignorante, folle e slabbrata, sovraccarica di pesantissimi bpm e una voglia nichilista di non lasciare in piedi neanche un rudere. La nostalgia per il passato è presente solo come sentore lontano, spazzata via da un parossistico assalto sonoro carico di incubi e follia, come nelle migliori-peggiori cyberstorie. E così, dall’apparecchio nelle mani dello smilzo figuro dal volto semicoperto sul palco, volano badilate direttissime in piena faccia – queste sì più vicine a certi slam di riff e batteria a noi più comuni – senza pietà, cassonetti lanciati sul pubblico e fatti surfare come rockstar e note stridenti incastonate nell’immaginario di molti, eppure a modo proprio inedite. Sarà per l’acidità abrasiva della musica, sarà per l’attitudine guerrigliera che rovescia sul Legend, ma davanti al pogo scatenato dallo stesso Arottenbit non possiamo fare a meno di ghignare soddisfatti.
L’ovazione che accoglie i MASTER BOOT RECORD all’entrata sul palco ci dà il polso di quanto accennato nell’introduzione: l’esigenza di un modo ‘altro’ di aderire ad un determinato tipo di immaginario e ambiente (come quello che circonda a trecentosessanta gradi il mondo metal) è forte, segno di un cambiamento in atto, a livello di genere o su più vasta scala di un certo tipo di controcultura.
Visual da cabinato, uno svariato numero di computer di varia generazione (più o meno preistorica, più o meno recente) e luci al neon – ai limiti dell’epilessia per tutta la serata – sono la stoffa su cui Vittorio D’Amore, nascosto dietro ad un ampio cappuccio, ricama con la sei corde scenari reticolari a due dimensioni, insieme al tocco chirurgico e sapiente di Giulio Galati (Hideous Divinity, Nero di Marte) alla batteria e al virtuosismo di Edoardo Taddei alla seconda chitarra.
Dal vivo forse quest’ultima caratteristica risulta molto in primo piano, con i due chitarristi che, nonostante effetti e basi chiptune, spesso e volentieri fanno sbocciare scale e assoli ad una velocità di shredding impossibile, coniugando un – crediamo – poco nascosto amore per il neoclassicismo di Malmsteen e soci con reminiscenze (per fortuna nostra, solo tali) dei Dragonforce degli esordi. Rispetto a come suonano “Personal Computer” e “Floppy Disk Overdrive” sullo stereo qui notiamo una maggiore predominanza delle chitarre rispetto a certe sonorità più liquide, maggiormente vicine a orizzonti synthwave, ma quello che rimane inalterato è l’altrettanto prepotente attaccamento a martellamenti thrash-death. Questo esce, forse anche grazie alla presenza di Giulio Galati dietro alle pelli, nei momenti più cadenzati e percussivi, trasformando le corse acute e vorticose in inossidabili colpi robotici e scatenando più di qualche moshpit sotto al palco.
Quello che rimane, alla fine di tutto, è ancora una volta l’estro tecnico nella fabbricazione di strumentazione e creazione di un suono inedito, che al proprio interno racchiude mondi differenti (quello dell’ingegneria elettronica, della cultura pop di qualche decennio fa e della musica più di nicchia) ma forse sempre più in rotta di collisione. Se questo sia un fatto positivo o deleterio dipende dal grado di gradimento che ciascuno ha nei settori di cui sopra, ma sicuramente la mischia creatasi per il lancio a fine concerto di numerosi floppy disc (!) scritti con titoli di culto della videoludica Arcade (e non solo) è un segno distintivo in ogni caso.

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