A cura di Giovanni Mascherpa
Fotografie di Francesco Castaldo
I Mastodon sono passati da tempo al piano superiore. Usciti dall’underground con “The Hunter”, hanno ribadito con “Once More ‘Round The Sun” di avere abbracciato il verbo del classic rock, ma alla loro maniera. E se il precedente album era una versione troppo semplicistica e normalizzata della macchina di esplorazioni astrali ammirata fino a “Crack The Skye”, il disco uscito a giugno ha rimesso le cose a posto, sfoggiando un songwriting brillante e versatile per l’intera durata dell’opera. Finalmente, dopo aver conquistato la top ten di Billboard in patria, aver suonato al David Letterman Show, mandato in visibilio le folle su suolo americano, è tempo di un tour da headliner anche in Europa. Fa impressione constatare la crescita di visibilità avuta dai Nostri anche in Italia: nel 2010, per il tour di “Crack The Skye”, i Mastodon erano stati ospitati ai Magazzini Generali, a inizio 2012 si erano esibiti sul palco B dell’Alcatraz, ora arrivano al Fabrique, decorosamente popolato fin dall’apertura delle porte. Il bill è abbastanza eterogeneo, annoverando in apertura un’all-star band come i Krokodil, dove militano membri ed ex-membri di Gallows, Slipknot, Hexes, SikTh, Cry Of Silence, e i rinomati Big Business, alfieri di uno stoner/sludge storto e impazzito, nel solco di quei Melvins a cui la band presta due membri dal 2006. Alle 20.30, in perfetto orario, le luci si abbassano e i Krokodil vanno in scena…
KROKODIL
Se in studio i Krokodil agiscono come sestetto, dal vivo la line-up si restringe e sono soltanto in quattro i musicisti on-stage. L’accoglienza è molto buona, a quanto pare l’esordio “Nachash” è stato ben assimilato ed apprezzato da una discreta fetta dell’audience, che tributa una prima ovazione alla sola apparizione del quartetto. Quindi in molti sono qui anche per loro, ed è un bene per la band che ci sia una certa preparazione da parte degli astanti, vivi e partecipi già dalle prime battute. A Simon Wright è affidato il compito di tenere alto il livello del coinvolgimento, il suo movimento epilettico per lo stage, tipicamente hardcore, infonde energia nel pubblico, mentre a livello di performance fatichiamo a farci stregare dal suo vociare rauco e monotono. Anche sul piano strumentale stentiamo a trovare dei veri motivi di interesse: i Krokodil si trascinano fra thrash moderno, hardcore e crossover Anni ’90, con una spolverata di sludge, e rimangono ancorati a tempi medi abbastanza piatti ed elementari, non sostenuti da un lavoro di chitarra all’altezza. La faccia sporca e cattiva della formazione non ci spaventa più di tanto, di gente impegnata su sonorità simili ve n’è a bizzeffe in circolazione, e in molti casi ci mette energia e convinzione in dosi massicce, mentre i Krokodil non hanno propriamente un impatto devastante. Va però riconosciuta al gruppo una certa perizia quando si alleggeriscono i toni e viene instillata un po’ di atmosfera nei brani, altrimenti eccessivamente quadrati e lividi. Ci possiamo allora gustare melodie ipnotiche piuttosto ricercate, tempi compositi non banali, assoli avvolgenti e clean vocals umorali, tutti elementi che concorrono ad alzare il livello di attenzione oltre una soglia dignitosa. Attorno, a onor del vero, il sottoscritto scorge solo facce soddisfatte o quantomeno interessate e gli applausi scrosciano senza farsi pregare nelle pause fra una canzone e l’altra. Al di là delle nostre perplessità, il concerto può andare in archivio in maniera positiva, gli opener non hanno suonato nell’indifferenza e hanno scaldato il pubblico a dovere.
Parbleu, ma sono soltanto in due! Avevamo visto in azione i Big Business solo un paio di anni orsono all’Hellfest, e all’epoca suonavano come trio. Non ci pare che nel frattempo ci siano stati scossoni nella line-up, sta di fatto però che stasera la chitarra è assente e i soli Jared Warren al basso e alla voce e Coady Willis alla batteria devono imperversare sullo stage del Fabrique. Inutile dire che, per quanto i musicisti all’opera siano dei performer di ottimo lignaggio e sappiano inventarsi di tutto con il loro strumento, qualcosa venga a mancare in composizioni pensate originariamente per avere almeno una sei corde a dettar legge. Un aspetto positivo della questione è che i ragazzi di Seattle, in questo formato ridotto all’osso, sono più diretti del consueto e hanno gioco facile nello scorticare vivi i presenti, martellati senza esclusione di colpi dalle distorsioni formato mammuth al galoppo di Warren e dal groove ossessivo, contundente e fantasioso di Willis. Manca un po’ dell’imprevedibilità ascoltabile sui dischi, questo è innegabile, si compensa però alla grande con una furia da tornado e un’illimitata smania distruttiva. Gli ampli trasudano grasso e ignoranza, si fabbricano cimeli di arte rustica con un tocco proprio degli autori illuminati, per cui anche i passaggi più semplici risaltano di un’esecuzione pregevole e priva di pecche. Anche con mezzi limitati i Big Business non si limitano a bastonare e colgono appena possibile l’occasione di divertirsi con passaggi anomali e digressioni ritmiche ingegnose, configurando il concerto come un’intensa jam-session dalla quale sbocciano, in mezzo a un rumore infernale, vere e proprie canzoni. Alla lunga il rollare del basso distorto palesa limiti espressivi, con effetti negativi ridotti data la lunghezza contenuta dello show. In chiusura Warren, in piena trance agonistica, scende tra il pubblico a cantare, sgolandosi piegato in due sul microfono e senza il basso a impacciarne i movimenti. Girovagando come un orso affamato, l’eclettico musicista finisce per sollevare di peso un ragazzo finitogli a tiro, per poi lanciarlo tra la folla e ritornare vittorioso sul palco per i saluti. Anche per i Big Business si sono avuti quasi solo segnali di apprezzamento, peccato che la band fosse a ranghi ridotti, in caso contrario il divertimento sarebbe stato ancora maggiore.
MASTODON
I Mastodon saranno anche diventati delle star planetarie, ma non hanno alcuna intenzione di comportarsi come rockstar e nemmeno di mettere in piedi allestimenti faraonici. Si presentano quindi con il solito fare umile e molto easy, su di un palco che vede come unico elemento scenografico un enorme fondale rappresentante la copertina di “Once More ‘Round The Sun” nella sua prospettiva originaria e la sua proiezione simmetrica, unite a formare un quadro dai colori sgargianti e psichedelici. Davanti ad esso, una fila di fari da cui verranno irradiate durante lo show luci di diverso colore sopra la testa del pubblico, espediente che farà una gran figura, stimolando ulteriormente le sinapsi già messe in eccitazione dalle fiumane di note generate dalla band. L’avvio è affidato a una doppietta molto immediata, in arrivo proprio dall’ultima fatica: “Thread Lightly” e la title-track sprizzano la vitalità scintillante e multiforme che abbiamo apprezzato nelle versioni in studio, peccato soltanto per delle vocals incerte da parte di Sanders, che stecca a più riprese quando c’è da esprimersi su registri melodici. Hinds inizia a segnalare un disagio a cantare che rimarrà tale per l’intera esibizione e non serviranno a rialzare le sorti della sua prestazione nemmeno le parti più urlate, che troveranno invece più sicuro il bassista, capace di acquisire scioltezza e irruenza col passare dei minuti. Strumentalmente la band non ha mai prestato il fianco a critiche particolari, e questa sera non fa eccezione, riproponendo le mareggiate da uragano dei dischi con un pathos esorbitante, arrivando quasi sempre a superare le versioni originali dei brani per durezza ed evocatività. L’idea di non mettere praticamente pause alla musica, riducendo a zero il dialogo col pubblico, è assolutamente vincente, l’elettricità nell’aria non scende proprio mai, nessuno ha il tempo di scambiarsi un’opinione con chi ha vicino perché è subito tempo di ripartire per un nuovo viaggio in una dimensione parallela sfrenata e coloratissima. C’è un mosh abbastanza acceso davanti allo stage fin dai primi brani, che andrà ad aumentare sul materiale più datato, affrontato con spirito assassino, sfogando una tagliente compattezza thrash e arrivando ad affondare coltellate spietate in corrispondenza degli stacchi dai ricami psichedelico/progressivi alle valanghe sludge. Viene riservato un trattamento superbo a “Blasteroid”, quasi ridicolizzata rispetto a quanto udito su “The Hunter”, dove il marchio Mastodon era un po’ sfocato, e lo stesso accade anche per “Black Tongue”, unico altro estratto del precedente full-length. Il momento di fiacca corrisponde alle armonizzazioni vocali di “Oblivion”, proposte con molte difficoltà dal duo Sanders-Hinds, mentre si difende benissimo, meglio dei compagni, il buon Dailor sul singolone “The Motherload”. Pur non avendo un vero e proprio frontman, c’è da dire che Sanders ha più degli altri i modi di fare del leader, ed è anche quello che regala più sorrisi e incitamenti al pubblico, mentre Kelliher e Hinds concedono pochissimo al puro intrattenimento. Gli estratti da “Once More…” escono in alcuni casi stravolti nella percezione dal piglio energico che la band ha stasera: “High Road”, “Halloween”, non parliamo di “Aunt Lisa”, in questa sede potrebbero quasi sembrare degli episodi dei primi album, perché se il taglio melodico rimane lo stesso, l’approccio è arcigno e intransigente, quasi spigoloso rispetto a certi toni smussati del disco. Forse un po’ a sorpresa, per chi vede nei Mastodon un gruppo che ha voltato le spalle alle sue origini, arrivano un bel gruzzolo di classici da “Remission” e “Leviathan”: se in “AquaDementia”, dove Hinds incrina leggermente l’impatto dirompente dell’attacco con le sue vocals incomprensibili, le cose vanno bene fino a un certo punto, “Ol’e Nessie” e “Megalodon” fanno venire la pelle d’oca, e il sottoscritto metterebbe lo stacchetto vagamente country di quest’ultima, infranto appena dopo da una ripartenza thrash che non ammette repliche, tra i picchi della serata. L’ultima tranche di concerto vede il gruppo splendere al massimo delle sue possibilità, trascinato da un Sanders in versione orco, prima sulle note di “Divinations” e della strumentale “Bladecatcher”, più folle e arzigogolata che in “Blood Mountain”; poi, godute un’ottima “Ember City” e la già citata “Megalodon”, sono i misteri di “Crystal Skull” ad arroventare la platea. In fondo c’è quello che immaginate, “Blood And Thunder”, messa giù così cattiva che ci siamo visti davanti la gigantesca Moby Dick erompere dall’acqua, Sanders sulla baleniera pronto a infilzare la preda, il pubblico tutto a spingerlo nello sforzo conclusivo per abbattere il cetaceo. Si alza un coro barbaro sull’immortale refrain, che mette fine a un concerto perfettibile a causa della vocalità non proprio celestiale, ma emozionante come pochi altri. Ci è piaciuto il ringraziamento finale di Dailor, che a fine show si é intrattenuto per alcuni minuti al microfono, promettendo di passare l’estate prossima ed elogiando gli accorsi per il sostegno durante l’esibizione. Non una mossa da animale da palco tutto finte e moine, ma consona a un musicista che sta vivendo appieno il suo sogno ed è grato a chi ha contribuito a crearlo e a prolungarlo nel tempo.
Setlist:
Tread Lightly
Once More ‘Round The Sun
Blasteroid
Oblivion
The Motherload
Chimes At Midnight
High Road
Aqua Dementia
Ol’e Nessie
Halloween
Aunt Lisa
Divinations
Bladecatcher
Black Tongue
Ember City
Megalodon
Crystal Skull
Blood And Thunder