Report a cura di Andrea Intacchi
Fotografie di Alice Pandini
Sarà che esattamente quattro giorni prima del concerto in questione sul Live Music Club si era abbattuto il martello a tre teste formato da Testament, Annihilator e Death Angel, e che quindi anche le tasche sempre benevole dei metallari si trovavano di fronte ad un ‘aut-aut’ non di poco conto; sarà che i Cavalera Brothers andavano a riproporre lo stesso identico show già messo in scena lo scorso anno, sempre a Trezzo, e quest’estate in quel di Bologna; sarà che in molti, come letto nei giorni precedenti su diversi social network, avrebbero preferito il nome degli Overkill in cima al bill, proprio a discapito della thrash band brasiliana: fatto sta che il Live di martedì 5 dicembre era abbastanza vuotino. L’atmosfera che si è venuta a creare è stata comunque più che buona e calorosa. Merito, ovviamente, di Bobby Ellsworth & Co. e, in generale, di tutti i metallari presenti, i quali, nonostante una prestazione non certo memorabile di Max Cavalera e compagni, hanno voluto ancora una volta celebrare quel “Roots” che, nel 1996, oltre a creare diverse spaccature tra i fan degli stessi Sepultura, marchiò un altro tassello importante all’interno del thrash metal. Ad accompagnare Max e Iggor Cavalera, oltre agli Overkill, i finlandesi Insomnium e i tedeschi Deserted Fear.
DESERTED FEAR
Quando i Deserted Fear salgono sul palco, il parterre è ancora parecchio vuoto. Vuoi un orario di inizio show poco agevole e ancora molto ‘lavorativo’, vuoi anche il maggior richiamo dei gruppi che verranno in seguito, la carenza di metallari di fronte alle transenne era anche preventivabile. Ciò che ha lasciato più di un dubbio sulla buona riuscita della serata (quanto meno a livello di presenze) è che l’affluenza rimarrà scarsa anche nelle ore a venire. Ma, di questa mancanza, ai quattro giovani tedeschi importa relativamente: ‘pochi ma buoni… e rumorosi’, sottolinea a metà concerto il chitarrista Fabian Hildebrandt raccogliendo così ancor più consensi di quelli già ricevuti. Da parte loro, i Deserted Fear si affidano al proprio sound tutto death, marchiato da una cavalcata di riff profondi e di ritmi esasperati ma non troppo, inserendo qua e là tracce più melodiche, così da variare una proposta che rischierebbe altrimenti di entrare in lidi un po’ troppo monotematici. La band di Eisenberg non cade quindi nel tranello e nella quarantina di minuti a disposizione inizia a scaldare le articolazioni dei fan della prima ora, proponendo alcuni pezzi tratti dall’ultima fatica “Dead Shores Rising”, tra cui la malvagia “The Fall Of Leaden Skies”; il tutto sotto lo sguardo vigile di Sua Elettricità Bobby ‘Blitz’ Ellsworth, stazionante a bordo palco, nascosto dalle varie attrezzature foniche. Buona prova, quella sciorinata dai Deserted Fear. Ma ora è tempo di migrare: dalle ghiacciate terre finniche arrivano gli Insomnium…
INSOMNIUM
Dopo la strigliata in modalità death, con gli Insomnium i toni si raffreddano e nel contempo acquistano una maggior melodia, dal sapore profondamente nordico. Il quartetto capitanato da Niilo Sevänen tralascia l’ultimo, seppur buonissimo, album “Winter’s Gate” (un unico brano da oltre quaranta minuti) gettandosi a capofitto sui due lavori precedenti: dall’ottimo “Shadows Of The Dying Sun” vengono infatti estratte “The Primeval Dark” , “While We Sleep”, “Ephemeral” e la trascinante “Revelation”. Ormai degni successori e portatori di quel Gothenburg-sound calibrato vent’anni fa da band quali Dark Tranquillity ed In Flames, i Nostri hanno guadagnato nel tempo un seguito sempre maggiore di sostenitori ed anche stasera, seppur in formato ridotto, ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione. Ed è uno stelo di horns-up quello che si stende di fronte ai quattro finlandesi mentre partono le note di “Weather The Storm”, andando così a surriscaldare le prime file del parterre. Lo stesso Sevänen chiama più volte il pubblico del Live chiedendo ancora più carica così da presentare l’ultima “One For Sorrow”, degna chiusura di uno show gelidamente sentito, soprattutto dagli aficionado del genere che, vista la proposta globalmente thrash della serata, hanno presenziato a dovere. Gli Insomnium depositano gli strumenti ed un senso di pace generale si aggira tra le transenne. Ma durerà poco, gli Overkill sono in agguato!
OVERKILL
Come scritto in sede di presentazione dell’evento, vedere il nome degli Overkill sotto quello dei fratelli Cavalera ha fatto cambiare idea a parecchi metallari, rinunciando così alla data milanese di questa edizione dell’Headbangers Ball Tour. Non che un’inversione di headliner avrebbe portato il Live ad un pienone assoluto, ma sicuramente qualche chiodo in più lo avremmo visto. E la conferma l’abbiamo avuta in corso d’opera, durante la furiosissima setlist proposta dalla band americana, capitanata da un Bobby ‘Blitz’ in versione sceriffo, con tanto di baffoni. Gli Overkill sono il classico gruppo per cui teli, scenografie e artifizi vari sono del tutto inutili: bastano due chitarre, un basso, una batteria e una voce al vetriolo per sistemare tutti e tutto. Nove-brani-nove (un po’ pochini, effettivamente) per dare una scarica assoluta di thrash metal senza la minima tregua, con D.D. Verni sempre pronto a pestare il pugno sul suo mastodontico basso, in attesa dell’ennesima corsa al microfono da parte di Bobby. ‘Do you want some more?’ chiede al pubblico, muovendo i pugni come il più classico dei pugili carico a molla per l’ennesimo round. Un telo è comunque presente e rappresenta la cover dell’ultima fatica targata “Grinding Wheel”: gli ingranaggi sono ben oliati, si può cominciare. E non poteva essere che l’opener “Mean, Green, Killing Machine” ad aprire la thrash-battaglia: un moderno assalto al fulmicotone che ben si assesta immediatamente tra le giunture vertebrali dei presenti, preparandoli alla fucilata ever-green che arriverà subito dopo, una certa “Rotten To The Core” cantata letteralmente a squarciagola da tutto il parterre. Per il leader assoluto degli Overkill gli anni sembrano non passare mai e un’ulteriore prova arriva dalla successiva “Electric Rattlesnake”, sottolineando come in realtà tutta la band sembra aver trovato la formula dell’elisir dell’eterna giovinezza. Altro giro, altro salto all’indietro nel tempo con la più catchy “Hello From The Gutter” e la granitica “Wrecking Crew”. Nel pit intanto le ossa cominciano ad inscatolarsi l’un l’altra fino a quando, dopo l’ennesima botta sonora firmata “Ironbound”, parte a rotta di collo il pezzo che porta con sé un titolo che è sinonimo di garanzia, “Elimination”; dopo la quale l’unica reazione possibile è un “Fuck You” generale. Di forze gli Overkill ne avrebbero ancora, ma il bill parla chiaro: bisogna chiudere e tornare indietro di vent’anni… .
MAX & IGGOR CAVALERA
Avremmo potuto fare un banalissimo copia-incolla di quanto avvenuto su questo stesso palco circa un anno fa (Return to Roots a Trezzo), in quanto nulla è cambiato da quel giorno, da quella data, da quella celebrazione. Il Return To Roots è tornato per la terza volta in Italia nel giro di dodici mesi e le impressioni sorte nel novembre del 2016, nel corso dei festeggiamenti per il ventennale di “Roots”, sono le medesime avute in questa terza visita; se non peggiori. Tralasciando il contorno strumentale, più che discreto, compreso il lavoro dietro le pelli di Cavalera junior, dobbiamo ancora una volta rimarcare le pessime condizioni canore di colui che una volta era conosciuto come Max Cavalera, leader indiscusso dei Sepultura, nonché fonte inesauribile di energia e macchina trasudante carisma. Dispiace doverlo sottolineare nuovamente ma, nonostante la reazione del pubblico sia stata più che roboante – il moshpit creatosi si è protratto per l’intera durata dello show brasiliano – la riproposizione dell’album che, volenti o nolenti, ha segnato la storia dei Sepultura è stata un susseguirsi di alti e bassi, con i secondi che, soprattutto nella prima parte del concerto, hanno di gran lunga preso il sopravvento. Brani pesanti, tirati, urlati come la stessa quasi-titletrack, “Attitude” e “Cut-Throat” sono stati letteralmente tirati insieme (scusate il termine poco edificante e molto dialettale) a fronte di un cantato al limite del parlato e di alcuni passaggi chitarristici, sempre dello stesso Max, degni di un principiante. Ma la devozione per quanto prodotto dai Seps ormai ventun’anni fa supera qualsiasi stonatura stilistica, e quando dalla casse prendono il via i suoni tribali di “Ratamahatta” un nugolo di teste comincia a saltare creando un colpo d’occhio degno di nota. Ed esattamente come un anno fa, la seconda parte, il lato B dell’album per così dire, acquisisce una maggior sicurezza oltre che una miglior resa globale; e pure lo stesso Cavalera senior sembra di colpo ringiovanire. A partire da “Dusted” sino a “Dictatorshit” i pezzi scorrono via più velocemente, oltre che con un tasso di grinta superiore. Da segnalare, prima dell’encore dedicato allo zio Lemmy (“Ace Of Spades”), un’anonima “Excruciating”, tratta dall’ultimo lavoro dei Cavalera Conspiracy (“Psychosis”) e la trascinante jam session tutta drums con Iggor a menare le danze, accompagnato da Jason Bittner, batterista degli Overkill dallo scorso aprile, e dallo stesso Max a contornare il tutto. E quando anche la speed version di “Roots Bloody Roots” volge al termine e i ringraziamenti di rito vengono rivolti al pubblico, le luci del palco finalmente si spengono. Cosa aggiungere? Più di un metallaro, finito il set degli Overkill, aveva lasciato il locale, alcuni hanno abbandonato la scena dopo i primi quattro brani suonati dai fratelli Cavalera. Si dice che due indizi fanno una prova e forse stavolta non servono altre testimonianze. I Sepultura sono stati una grande thrash metal band, come del resto “Roots” un altrettanto signor album: voler continuare la strada del Return è una mazzata che fa male ad entrambi e i risultati si sono visti, ancora una volta.