Report a cura di Marco Gallarati
1996-2016, ben vent’anni sono ormai passati dalla pubblicazione di “Roots”, disco di enorme successo per i brasiliani Sepultura ma non solo: l’album in questione (per una disamina più approfondita potete leggere qui la sua recensione) segnò all’epoca una profonda spaccatura sia tra i fan del gruppo – chi lo ritenne una magistrale evoluzione in salsa noise-tribale, chi lo giudicò brutalmente inferiore ai precedenti capolavori “Chaos A.D.”, “Arise” e “Beneath The Remains”, chi accusò la formazione, forse a ragione, di essersi lasciata troppo ammaliare dal produttore Ross Robinson e dai suoni che costui partorì sull’omonimo debutto dei Korn, antecedente di un anno – sia all’interno degli stessi Seps, che di lì a poco dovettero vivere la traumatica scissione tra il leader/vocalist/chitarrista Max Cavalera e il resto dei Nostri, rimasti poi assieme ancora per una manciata d’anni e di dischi. E sappiamo più o meno tutti cosa sia successo in seguito allo split: l’avvento dei Soulfly come ideale prosecuzione dello stile intrapreso in “Roots”, il distacco anche del fratello minore Igor Cavalera dai ‘nuovi’ Sepultura, il discutibile ma coerente proseguo di carriera di Andreas Kisser e Paulo Jr., la nascita dei Cavalera Conspiracy a sancire la grande pace fraterna, la strabordanza compositiva di Max, il suo carisma e le sue incoerenze, le voci continue di reunion della line-up storica e le violente e subitanee smentite. Fino ad arrivare ai giorni nostri, con Max e Igor decisi a sfruttare l’occasione del ventennale di “Roots” tramite l’imbarcarsi in un tour-revival dall’ottimo riscontro di pubblico. Sì, lo definiamo ottimo in quanto, nel momento in cui arriviamo e ci appropinquiamo al Live Music Club di Trezzo, la coda per entrare che ci si presenta è quella delle grandissime serate, a nostra memoria pari ad Amon Amarth + Carcass del novembre 2013 e a Testament + Exodus per il Metalitalia.com Festival del maggio 2015. Evidente segnale che l’amore per i Sepultura, seppur scemato ed intiepiditosi causa loro vicende dissestanti, è duro a morire ed il valore di un album di rottura quale quello omaggiato in serata perdura immutato nel tempo. Non ci sono tanti giovanissimi nella venue e l’audience si attesta quasi completamente in una fascia d’età compresa tra i 25 ed i 45 anni, dato piuttosto ovvio se si considerano i fattori che dal 1996 hanno portato Max ed Igor ad oggi, 10 novembre 2016, a riproporre per intero il loro platter più ambizioso e sperimentale. Ad accompagnare i carioca, come unici ospiti della serata ecco i prime-mover milanesi Extrema, dei quali riusciamo a visionare solamente le ultimissime battute di set per il troppo lento e spezzettato accesso all’interno del locale: voci fidate ci hanno comunque assicurato che il ‘fottuto massacro collettivo’ è andato regolarmente in onda e la band si è rivelata in formissima. Non resta che aspettare, dunque, il momento tanto atteso…
MAX & IGGOR CAVALERA
Alle 21.45 in punto, appostatici appesi alla balaustra a protezione del mixer, siamo pronti a partire: la scenografia è sobria, con la solita bandiera brasileira stesa sugli ampli ed un backdrop che recita Return To Roots richiamandone alcuni dettagli dell’artwork. Igor e Max salgono sul palco accompagnati dai loro fidi ‘servitori’, il sodale Marc Rizzo alla chitarra solista e Johnny Chow al basso, e via che lo show decolla con l’immortale “Roots Bloody Roots”! Oddio, ‘decolla’ pare proprio un parolone, in quanto la resa dell’opener del concerto è penosamente claudicante: suoni ancora un po’ debolucci e soprattutto un Max imbarazzante alla voce – non ha urlato, ha recitato le strofe – trasformano un pezzo che tracima fervore da ogni nota in una sorta di cover scadente. Si sa che Cavalera ha ormai esaurito la voce da qualche anno, ma un tale incipit è duro da applaudire e mandar giù. L’arcuato berimbau è protagonista dell’intro di “Attitude”, altro pezzo-cardine del disco molto penalizzato da una prestazione vocale poco incisiva. E così si ripete, ahinoi, anche per “Cut-Throat” e “Ratamahatta”, quest’ultima accolta con danze e tripudi osannanti ma che non ci convince pienamente. Attenzione, però, perchè a questo punto qualcosa scatta, la gola di Max sembra essersi finalmente scaldata un po’ e le sonorità paiono meglio bilanciate: “Breed Apart” e l’ottima “Straighthate” ci piacciono molto, così come la rasoiata punk-thrashettona “Spit”, un terzetto di canzoni che fa spuntare almeno mezzo sorriso in faccia. Il frontman brasiliano non celebra più di tanto la serata, limitandosi a presentare i brani accennando magari i versi dei ritornelli. E si arriva quindi ad uno degli attimi più incuriosenti della setlist, la riproposizione di quella “Lookaway”, ‘per la prima volta in Italia’, che nella versione originale vede la presenza di Mike Patton e Jonathan Davis alle co-voci: ne esce sicuramente una versione zoppa di qualcosa, ma si riesce ad apprezzare il mancato utilizzo delle basi registrate dei due guest vocalist, in modo da lasciare a Max libertà espressiva e interpretativa; forse ancor più noise dell’originale, “Lookaway” permea un buon retrogusto sul nostro palato. “Dusted”, tirata fuori da una selva di distorsioni sfumanti dall’episodio precedente, è ben suonata, così come l’enorme “Born Stubborn”, per chi scrive uno dei migliori brani dell’intera discografia Sepultura. A questo punto toccherebbe a “Jasco”, breve strumentale per chitarra acustica su disco performata da Andreas Kisser; ma, non sappiamo fino a dove possa spingersi il ‘dispetto’ nei confronti del Grande Nemico, la traccia viene dimenticata, passando ad una versione di “Itsàri” francamente rivedibile: non tanto per l’uso del canto tribale degli Xavante pre-registrato – obbligatorio, in assenza della tribù stessa… – ma più che altro per la pochezza dell’apporto strumentistico di Igor alla batteria, impegnato in un piuttosto basilare lavoro d’accompagnamento in solitaria. “Ambush” ci riporta alla realtà senza entusiasmarci, mentre la chiosa di “Endangered Species” e della mina sparatissima “Dictatorshit” chiudono positivamente l’intera (quasi) esecuzione di “Roots”, minata in più punti dall’impoverimento generale on stage che attanaglia Max Cavalera da tempo. Ci pare quindi pietoso non commentare troppo, infine, la sezione dedicata ai bis: invece di riproporre, così a caso, “Territory”, “Arise” e/o “Inner Self”, la band va dritta al reparto cover rispolverando “Procreation Of The Wicked” dei Celtic Frost, una ridicola versione di “Policia” dei Titas e una rivisitazione di “Roots Bloody Roots” energizzata a mille ma del tutto innocua e inutile. Insomma, era prevedibile dover assistere ad un evento epocale e di successo (affluenza e partecipazione ne giustificano il compiersi), così come era pronosticabile una deludente, e solo a tratti soddisfacente, riproposizione live. Perchè, volenti o nolenti, i Sepultura di “Roots”-1996 non erano certo gli attuali Sepultura, ma neanche solo e soltanto i fratelli Cavalera: i Sepultura del 1996 erano ancora una formazione capace di dettare legge e tendenze, mentre oggi paiono un’amorfa creatura persa in un limbo tra sogno e ricordo, tra una fazione tendente al patetico e l’altra che non è riuscita a scrollarsi di dosso il carisma del leader Max-imo. E siccome pensiamo sia impossibile, ora, avere una controparte tangibile di uno show incentrato su “Roots” messo in piedi da Kisser e Paulo con Derrick Green, non resta altro da fare che accontentarsi dell’edulcorato e stucchevole esito del Live di Trezzo.