Introduzione a cura di Chiara Franchi
Report a cura di Maria Chiara Braida e Chiara Franchi
Quando “De Mysteriis Dom Sathanas” venne pubblicato, nella primavera del 1994, aveva già tutti i numeri per diventare un cult: testamento di un ventenne così disturbato che aveva finito per spararsi in testa; impregnato del lezzo di oltre cinquanta chiese bruciate; maledetto dal nichilismo quasi ripugnante che ne trasudava; e, peius in fundo, imbrattato dal sangue di un omicidio dai risvolti a dir poco inquietanti. “De Mysteriis Dom Sathanas” vomitava addosso all’ascoltatore un sound di una crudezza disarmante, un autentico concentrato di odio, ignoranza, disagio e violenza scevri da qualsivoglia vena di romanticismo. In poco più di quaranta minuti, i Mayhem avevano fatto sentire al mondo qual è il suono del Male. Ventitré primavere dopo, nel 2017, lo scenario attorno alla band più controversa della storia del metal è ben diverso da quello sulfureo di quei giorni. “Lords Of Chaos” sta per diventare un film, i Metallica hanno da poco presentato un video in cui un loro brano viene suonato da attori che impersonano i Mayhem, Burzum è uno YouTuber e i Mayhem se ipsi, o quel che ne rimane, si sono imbarcati in un tour celebrativo di quella che è stata la loro release di maggior successo. Frustrante distopia o inevitabile (e forse addirittura sana) demistificazione? Comunque la si voglia vedere, è un dato di fatto che i Mayhem, nelle ultime due decadi, sono diventati un fenomeno di costume. La loro leggenda ha finito per pesare più del loro messaggio originario, che sembra ormai legato alla scena black più come cliché, che non come quel fondamento ideologico urlato dal giovane, instabile Dead. Queste considerazioni sembrano aver trovato conferma anche nella performance che i Mayhem hanno tenuto al Mostovna di Nova Gorica, a pochi passi dal confine sloveno: l’Oscurità che due decadi fa sconvolse la Norvegia e la scena metal è parsa davvero ridotta a un argomento da retrospettiva e da amarcord, perfino nelle intenzioni dei suoi più iconici fautori. Ma a voi il giudizio su corsi e ricorsi della storia del black metal. Noi ci limiteremo a raccontarvi questa serata che, a nostro avviso, più che una rievocazione di quella malvagità germinale è stata una studiata e neanche troppo sentita messinscena.
INFERNO L’onore e l’onere di aprire le oscure funzioni spetta ai cechi Inferno, band che, a fronte di una storia quasi ventennale, è rimasta verosimilmente ignota ai più. Francamente, la combo di Kravinà non vanta né un sound, né un look particolarmente originali e la sensazione di già visto/già sentito è abbastanza netta. Il frontman Adramelech, ondeggiante nella sua tunica nera e seminascosto da un’impressionante massa di capelli, conferisce alla performance una certa nuance stregonesca un po’ demodé che la sua voce, complice un gioco pesante di delay e riverberi, carica ulteriormente di reminiscenze occulte. L’incantesimo è compromesso dalle luci ben poco atmosferiche (dato curioso, visto che per il resto della serata il palco sarà quasi invisibile) e dalla tenuta scenica degli altri musicisti, infelicemente mascherati con delle bandane. Al di là del dato visivo, comunque, gli Inferno offrono alle nostre orecchie trentacinque minuti di onesto black metal come andava nei primi Duemila, senza lampi di genio, ma anche senza grosse défaillance. La commistione di generi è ritrita, ma gli spunti melodici sono gradevoli e i brani discretamente confezionati. Notiamo con piacere che la sala è già affollata: se non altro, gli opener della serata non si sono esibiti, come spesso accade dalle nostre parti, a solo beneficio del loro fonico. (Chiara Franchi)
DRAGGED INTO SUNLIGHT
Dalle luciferine cremisi atmosfere degli Inferno, ci ritroviamo dopo quindici minuti di orologio immersi nel buio, dove ci attendono gli inglesi Dragged Into Sunlight, che hanno il compito di portare l’audience sempre più vicina alla vera oscurità. Sul palco si staglia un imponente candelabro di metallo, rami, teschi e ossa: quanto di più vicino allo scenario di un rituale esoterico. Il quintetto si presenta al pubblico di schiena, ed è questo l’assetto che manterrà per quasi tutto lo show. Una voce su base elettronica introduce la band ed i volumi ci sembrano immediatamente più assordanti: i presenti in sala si dimostrano subito caldi ed è così che lo spettacolo ha inizio in una nube di fumo e prosegue trascinandoci in un’atmosfera che si sposta dal black al doom, fino all’industrial. La scaletta si articola, senza tregua, prevalentemente attorno all’album “Hatred For Mankind” (2009) e siamo ipnotizzati dalle bianche luci intermittenti, artistiche ma un po’ disturbanti, che rimbalzano sui piatti della batteria e al contempo danno l’idea di essere scandite dai tocchi potenti e precisi dell’ignoto drummer. Il cantante appare e scompare, ricurvo sull’asta del microfono, il chitarrista alla destra del palco fa ondeggiare per tutto lo show i suoi dread proiettando sulla parete un’inquietante ombra, mentre il resto della band ci propone un crescendo di suoni misantropi quanto la loro scelta di darci le spalle. Lo show sta per terminare quando il misterioso frontman spegne le candele e ci trascina nel buio per un’ultima serie di suoni laceranti per poi sparire in una nuvola di fumo. In conclusione, lo spettacolo dei cinque di Liverpool risulta una vera esperienza, un attacco ai sensi, uno show viscerale: per noi una piacevole scoperta.
(Maria Chiara Braida)
MAYHEM
“De Mysteriis Dom Sathanas” non necessita di introduzioni: il motivo per cui siamo tutti qui è assistere al ritorno dei padri norvegesi del black metal, scalpitanti all’idea di ritrovarci circondati dal Male, davanti alla iconica e controversa band che negli anni ’90 è stata coinvolta in omicidi, suicidi ed incendi di chiese. Quello che ci domandiamo è: renderanno i Mayhem onore al loro masterpiece o lo danneggeranno cercando di riportarlo in vita ventitré anni dopo? L’hype è alle stelle, l’atmosfera è claustrofobica, non ci sono luci, solo qualche candela e una densa cortina di fumo. Una voce campionata invita a non usare i cellulari, ma sarà ignorata da molti. Immediatamente veniamo fatti discendere nelle viscere dell’Ade sulle note di una “Funeral Fog” che porta con sé sul palco, più che i musicisti, una fitta e reale coltre di nebbia pervasa da una luce blu, all’interno della quale è difficile dalla nostra posizione cogliere i dettagli scenografici del palco, che riusciremo a notare brevemente solo in seguito. Il pubblico è in visibilio e sulla famosa “Freezing Moon”, più che venire trascinati in lande da incubo, siamo circondati dalle voci dei presenti in sala che coprono quasi completamente quella di Attila Csihar. Hellhammer, che non abbiamo mai visto durante i quaranta minuti di show, nascosto dalla sua imponente batteria e dall’ingente quantità di fumo scenografico, sembra un demone, i suoni sono discreti ma i volumi sono davvero bassi; i riff aggressivi delle chitarre sono simili a quelli dell’album ma nell’insieme si percepiscono di più basso e batteria. Gli attori sul palco eseguono stoicamente quello che sembra un dovere senza interagire con la platea di fan esagitati. Dalla nostra posizione vediamo solo delle sagome, un gioco di ombre più che uno show musicale. Al momento di “Life Eternal” la nebbia si è momentaneamente diradata e riusciamo a scorgere anche Necrobutcher, Teloch e Ghul: si muovono sul palco ma danno l’impressione di essere stanchi. In questo istante di chiarezza visiva individuiamo dei gargoyle, degli scheletri incappucciati e il backdrop raffigurante la silhouette dei volti di Hellhammer, Attila Csihar e del defunto Euronymus. Attila non è molto cambiato, dimostra ancora le sue capacità di modificare il proprio registro vocale, decadente, morboso, stridente; ma nel complesso anche la sua performance ci risulta fredda e poco coinvolgente, soprattutto poco malvagia. Tuttavia l’audience, molto preparata, risponde con crescente entusiasmo durante tutto lo spettacolo. Sul finale, sulle note della acclamata “De Mysteriis Dom Sathanas”, i suoni sono finalmente buoni e godiamo nuovamente di un po’ di visibilità, capiamo che Attila sta recando un teschio in mano e offrendo uno spettacolo teatrale. Alla fine abbassa il cappuccio della sua tunica e saluta la folla, che risponde elettrizzata. Probabilmente dalle primissime file tutto è stato più nitido, ma noi e la gran parte dei presenti siamo stati troppo lontani per godere lo spettacolo e abbiamo dovuto per la gran parte del tempo tirare ad indovinare, più che vedere, e sforzarci di sentire più che ascoltare. Lo show è stato breve, a momenti deludente, e anche se riconosciamo i Mayhem come gli antesignani di una leggenda, e siamo felici di vedere attorno a noi molti visi appagati e sorridenti, da parte nostra preferiamo continuare a pensare all’opera del 1994 come alla bandiera di una scena, stendardo che come tale probabilmente non aveva bisogno di essere riesumato per un tour celebrativo, e un po’ modaiolo, dopo più di vent’anni, lasciandoci vivere (bene!) nell’illusione e nel ricordo di quello che i Mayhem sono stati.
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