Andare ad uno show dei Melvins è un po’ come andare ad un appuntamento al buio. Potrebbe essere la serata della vita, così come un clamoroso e incomprensibile casino. Chi li ha visti numerose volte lo sa: alcuni show dei Nostri sono dominati da una setlist incentrata unicamente sui loro successi planetari o comunque sui “favorites” dei fan, altri show della band invece possono essere oltre un’ora di null’altro che feedback, stranezze senza capo nè coda e rumore insopportabile senza alcun senso. Ma in entrambi i casi si parla comunque e soltanto di una cosa: ovvero di totale libertà artistica e creativa. Poche band – se non nessuna – oggi giorno possono infatti definirsi “libere” come i Melvins, e in grado di ‘cagar fuori’ album eterogenei, sparuti, opposti e polarizzanti come fanno loro, o di mettere su uno show sempre e comunque sold out per poi farne ciò che vogliono, incluso fracassarlo e mandarlo a farsi benedire in un non-senso di improvvisazione ed entropia totale. Con tutti questi pensieri in mente dunque, e quindi con tanta trepidazione quanta preoccupazione, ci siamo recati allo stop di San Francisco del loro 30th Anniversary Tour, con il quale Dale Crover e King Buzzo stanno appunto celebrando ben trent’anni di ormai leggendario successo, nell’arco dei quali hanno inventato e reinventato un po’ tutto, come distrutto tante altre cose (ad esempio, la banalità nel metal), hanno praticamente ridefinito la pesantezza e il riff di chitarra e sono divenuti una band di culto totale. I Melvins avevano millantato uno show a sorpresa, spargendo voci infondate e facendo trapelare “grosse sorprese” sul tour, con la loro solita paraculaggine e faccia da schiaffi inimitabile, e infatti la sorpresa c’è stata, ovvero all’attesa della sorpresa ha fatto seguito l’esatto opposto delle aspettative, ovvero nessuna sorpresa. Nessun Mike Patton, nessun Jello Biafra, nessun Trevor Dunn e nessun’altro ospite, dunque, come tante voci di corridoio messe in giro dalla band stessa ante-tour avevano inizialmente fatto pensare. Nulla, solo i Melvins, la loro solita attitudine paracula, il frisè leggendario di King Buzzo, il loro live set assolutamente colossale e uno smottamento di riff talmente grande da poter livellare qualunque cosa. Questi sono i Melvins, una band di tale sostanza che alla fine, per rendere memorabile una serata, non ha bisogno proprio di niente e di nessuno.
HONKY
Aprono le danze gli ignobilmente semi-sconosciuti Honky, band formata da Dale Crover stesso, il quale si è dunque cimentato come spesso accade in due set di fila dietro le pelli con due band diverse, e dal mitico Jeff Pinkus, storico bassista dei Butthole Surfers. Terzo incomodo, una macchina da riff inaudita, ovvero il talentuoso e poco conosciuto axeman Ed Landgraf. La proposta dei Nostri è descrivibile solo in un modo: incendiaria. La band infatti suona un mix esplosivo e altamente concentrato di hard rock zztoppiano, boogie sudista alla Hank III o Nashville Pussy e punk rock rude e zozzone alla Stooges. Il tutto suonato ad un volume inverecondo e con un tiro micidiale. Non sarà fisica quantistica questa musica, ma rimanere impassibili e con le chiappe ferme di fronte ad un tale bombardamento di adrenalina ed energia è cosa praticamente impossibile. La band ha messo a fuoco e fiamme lo Slim’s per poco meno di un’ora, sguinzagliando sulla folla un vero rodeo impazzito di boogie e attitudine lercia e sudista, metal e punk sfrontatissimo, creando a bordo palco una sorta di party impazzito tra il pubblico, preso completamente in contropiede dal tiro e dall’energia del trio. Cappellacci da cowboy, barbe lunghe degne degli ZZ Top da bordello, tatuaggi ovunque ed ettolitri di birra consumati hanno fatto il resto, spianando la strada ad uno show selvaggio e anfetaminico. Ciliegina sulla torta, una tecnica, un’esecuzione e una ricercatezza sonico-stilistica nei Nostri davvero invidiabile, che a tratti, se pur calati in vesti del tutto cazzone e scanzonate, potevano addiritttura rimandare alle sontuose macchinazioni prog-sludge dei Baroness o dei Mastodon. Insomma, una bomba totale.
MELVINS
I Melvins dal canto loro invece – perdonateci lo scioglilingua – non hanno fatto altro che fare ciò che sanno fare meglio, ovvero schiaffeggiare tutti con un linciaggio di riff inaudito. Di momenti distesi o dispersivi nel set dei Nostri ce ne sono stati ben pochi e l’intero show è stato dominato da praticamente tutto quanto “groovy” e mostruosamente pesante il gruppo abbia mai fatto. La setlist è stata assolutamente dominata da ogni punto saldo nella gigantesca discografia dei Melvins e da ogni momento più amato da ogni fan della band. “Honey Bucket” ha fatto una strage, “The Bit” ha rivoltato lo Slim’s come un calzino, “Anaconda” ha seppellito tutti sotto una cupola di pesantezza che non ha lasciato scampo, “Zodiac” ha fracassato anche i crani più duri fra il pubblico e “Hung Bunny” ha spedito ogni timpano in sala al Creatore con un biglietto di sola andata. I Melvins sono gli inventori dello sludge, sono stati loro i primi a prendere i riff di Iommi, quintuplicarli in wattaggio e distorsione per poi centrifugarli nella furia dei Black Flag. E sono trent’anni ormai che hanno affilato queste pachidermiche armi, aggiungendo feedback al feedback, pesantezza alla pesantezza ed enormità ad un’enormità già immonda in principio. La chitarra di King Buzzo è un bulldozer, la batteria di Crover uno schiacciasassi e nel pandemonio che i due sono in grado di scatenare c’è spazio per tutto: tecnica, carisma, presenza scenica, tenuta di palco, suoni ineccepibili e cristallini, professionalità, songwriting ispiratissimo, simpatia, cazzonaggine, ironia e soprattutto tanti, ma tanti riff favolosi. Se non fossero bastati gli esempi sopracitati, basta andarsi a riascoltare staffilate di obesità sonora incontenibile quali “The Bloat”, “Tipping The Lion”, “Night Goat”, “The Hooch”, “Lizzy” e “Sky Pup”, non canzoni ma veri e propri elefanti sonori che, riproposti dal vivo con un tiro, una precisione e una potenza annichilenti, hanno il potere di far scapocciare anche una statua. Alla fine anche stavolta i Melvins hanno fatto il loro solito sporco lavoro, un mestiere nel quale sono esperti e leader di settore da trent’anni; ma il pubblico “mortale” non può sopportare un tale professionalismo e una tale botta di intensità, ed ecco che il locale comincia a trasudare sudore dalle pareti e che sotto al palco il pubblico si traforma in un’orgia impazzita comandata e ipnotizzata come un cobra dal suo incantatore da dei riff giganteschi. Noi tra i banchi e loro in cattedra, per l’ennesima volta. Da trent’anni.