Report a cura di Marco Gallarati
Fotografie di Francesco Castaldo
A distanza di due anni dalla precedente calata meneghina al Live Music Club di Trezzo sull’Adda e a quattro anni esatti – era il 5 dicembre 2012 – dall’ultima tacca incisa sul palco dell’Alcatraz, gli umanoidi Meshuggah ritornano sulle nostre lande ruvidi e glaciali come loro solito, per un déjà-vu di enorme spessore e palpabilità. E’ sabato sera, un freddo ma non ghiacciato sabato sera milanese, ed il popolo delle discoteche si sta preparando a vivere l’ennesima nottata tra le mura della più rinomata disco-rock del capoluogo lombardo. Prima, però, i tapini che danzeranno sulle note di SOAD, Vasco e Punkreas, debbono sorbirsi il rituale cyber-metallico e sludge-motorheadiano imbastito da due pesi medio-massimi del metal attuale, quali i già citati Meshuggah e i fomentatissimi High On Fire dell’idolo Matt Pike. Se per la band di Oakland, la chiamata dei Meshuggah è un’ottima occasione per promuovere ancora un po’ dal vivo l’ultimo lavoro “Luminiferous”, datato ormai giugno 2015, per Tomas Haake e compagni è l’ora di presentare alle audience europee il loro “The Violent Sleep Of Reason”, disco che ha naturalmente convinto a mani basse, ma che probabilmente fa ristagnare leggermente le quotazioni del gruppo dopo i due capolavori a nome “ObZen” e “Koloss”. Dopo il più classico degli aperitivi in compagnia, facciamo il nostro ingresso all’Alcatraz, constatando il settaggio ‘di serie B’ previsto per la serata, che forse però meritava un trattamento più di lusso, considerato, col senno di poi, quanto si stava pigiati all’interno della venue; con già un bel numero di astanti, dunque, gli High On Fire salgono senza fronzoli sul palco alle 19.30 spaccate…
HIGH ON FIRE
I forse più degni eredi dei Motorhead (bestemmia?) danno, in una sola ora di performance, una lezione di attitudine, stile, grinta, personalità e capacità tecniche che millemila altre band si sognano da tempo. Il miscuglio iper-dinamico di thrash, doom, sludge, epic e rock’n’roll terremotante non lascia effettivamente prigionieri e, nonostante suoni un pelino troppo impastati (ma l’impatto è stato devastante), conquista tutti in brevissimo tempo, compresi ovviamente i tanti accorsi più che altro per loro. Chi scrive non adora troppo la voce sgraziatissima del buon Matt, ma è innegabile come dal vivo il terzetto yankee sappia destreggiarsi alla grande, inanellando una serie di hit roboanti che pochissimo scampo hanno dato ai presenti, se non la possibilità di applaudire e dimenarsi a più non posso. Dopo un inizio buono ma non eccellente, gli High On Fire hanno carburato rapidamente, sciogliendo le briglie ad un monumentale Des Kenzel dietro le pelli e creando un groove ed un wall-of-sound pastosi e grumosi come pochi. “Slave The Hive” e “Fertile Green” hanno tirato su un polverone, mentre “The Falconist” e la lunga “Snakes For The Divine”, posta a chiudere il set, ci hanno mostrato un gruppo anche capace di ragionare un attimo e prendersi una boccata d’aria ogni tanto. Non sappiamo definire con esattezza quanto Pike e compagni si abbinino bene ai Meshuggah per comporre con loro l’accoppiata live perfetta, ma i sessanta minuti trascorsi in loro compagnia sono senz’altro valsi il prezzo del biglietto. Veraci e tritaossa, una garanzia.
MESHUGGAH
I Meshuggah dal vivo sono una tamarrata fotonica di luci e arroganza robotica. Peccato che dietro allo sfavillare di luci, strobo, lampeggianti, laser e colori allucinanti…be’, peccato che dietro ci siano quattro metronomi umani e un frontman con la carta abrasiva al posto delle corde vocali che piazzano, una dietro l’altra, sassate sulla fronte a ripetizione. Senza siparietti, senza gag, senza praticamente una parola, senza dare sembianze riconoscibili a chi sta loro davanti ogni sera. Sapevamo cosa aspettarci dal loro show, certo: un impianto luci imponente e ulteriormente arricchito, suoni lustrati ad hoc fin dal primo colpo di charlie, un drummer epico per costanza e dissonanza e un poker di loschi figuri a fronteggiarci con moli sinistre. Kidman poi, manco vorremmo più scriverlo, si aggira ciondolando per il palco come il più perfetto dei T-1000 in avaria, urlando lezioni di filosofia e apocalisse imminente con un’omogeneità spaventosa. “The Violent Sleep Of Reason” ci ha sedotto ma non conquistato, eppure il pienone dell’Alcatraz è qui a testimoniare quanto il quintetto di Umea sia considerato e rispettato nelle più disparate sottoscene metalliche. Un’intro rumorista di quasi tre minuti fa spazientire abbastanza gli affamati astanti, ma quando, prima Haake, poi Hagstrom, poi Lovgren, e infine Kidman e Thordendal fanno il loro silente ingresso on stage tutto svanisce e l’assalto visivo-sonoro di “Clockworks” e “Born In Dissonance” zittisce ogni mugolio e critica, ritornando a ricordarci come i Meshuggah dal vivo siano questi, prendere o lasciare: uno spettacolo psichedelico e monolitico, colpente i neuroni e le sinapsi dell’ascoltatore in modo inesorabile. Poco muta, nulla si trasforma del tutto, ma i quattro stendardi laterali e il gigante backdrop frontale iniziano un’acidissima danza di sfumature, seppur settati su di un palco veramente miserrimo. Si torna indietro ai tempi di “Chaosphere” e “Nothing” con un trittico memorabile composto da “Sane”, “Perpetual Black Second” e l’immarcescibile “Stengah”, uno degli highlight del concerto. Poi, dopo aver sovraccaricato entrambi gli emisferi cerebrali con una prima parte di set in apnea, ci si perde un po’ in cali d’attenzione con “The Hurt That Finds You First” e “Lethargica”, mentre è “Do Not Look Down” ad ergersi a risollevatrice d’animi, con il suo andamento rimbalzante a far movimentare un po’ tutti quanti, compresi coloro leggermente assopiti nel maelstrom sensoriale osteggiatoci dalla band. “Nostrum”, “Violent Sleep Of Reason” e l’epica e lunga “Dancers To A Discordant System” ci prendono per mano a mo’ di pilota automatico e, mentre la stanchezza comincia a farsi largo in platea, basta l’attacco feroce di “Bleed” per dare una scudisciata elettrificata all’audience: il ‘trra-trra-trra-trra’ iper-triggerato del pezzo è ancora una volta sconvolgente e rende vano ogni tentativo di reazione logica. I Meshuggah salutano e se ne vanno, quindi, tra gli applausi dovuti e l’ovvia speranza di rivederli subito on stage per i bis. Ebbene, mai encore avrebbero potuto essere migliori: “Demiurge” spacca il tempo come un wormhole infernale, con quell’apoteosi di groove di centro-canzone che sembra dettare i tempi di un nuovo terraforming della Terra; e poi arriva la classica “Future Breed Machine”, unico brano eseguito da “Destroy Erase Improve”, quando i Meshuggah non erano ancora i Meshuggah odierni. La differenza stilistica è impressionante, ma l’impatto resta immutato e il dinamismo tremendamente affilato e scorticante. L’opera d’annichilimento finisce con i cinque androidi impegnati a salutare tiepidamente la folla acclamante. Trionfo pieno e aspettative quasi tutte ampiamente confermate. Al buio e al chiuso, lo spettacolo dei Meshuggah è pressochè ineguagliabile.
Setlist:
Clockworks
Born In Dissonance
Sane
Perpetual Black Second
Stengah
The Hurt That Finds You First
Lethargica
Do Not Look Down
Nostrum
Violent Sleep Of Reason
Dancers To A Discordant System
Bleed
Encore:
Demiurge
Future Breed Machine