20/03/2024 - MESHUGGAH + THE HALO EFFECT + MANTAR @ Alcatraz - Milano

Pubblicato il 25/03/2024 da

Report di Marco Gallarati
Fotografie di Simona Luchini

Marzo 2024 si sta rivelando un mese davvero pieno di eventi metallici di valore in terra italica, sia che si vada a spulciare più in ambiti underground, sia che si metta il naso in ambienti più (diciamo) mainstream. Andando a caso indietro di qualche giorno, ci vengono in mente infatti Avatar, Amaranthe e Dragonforce, Cryptopsy e Atheist, Enslaved e Wayfarer, così come nei giorni successivi troviamo Angra, Cynic e Obscura, Taake, Lordi.
In mezzo a tutto ciò, l’evento di maggior richiamo, che unisce underground e (diciamo) mainstream sotto un’unica bandiera, è probabilmente il nuovo avvento dei Messia della cybernautica heavy metal, gli svedesi Meshuggah, di ritorno da noi dopo neanche un anno dall’esibizione in open space al Dissonance Festival 2023.

I rimbombi dell’ultimo “Immutable” si sono pian piano affievoliti, come al solito generando sentimenti contrastanti a riguardo della qualità di questo o quell’altro album meshugghiano o, più in generale, sulla presenza di vero genio o massimo tedio all’interno della loro musica. Noi da sempre propendiamo per la prima ipotesi senza remora alcuna, ma ciò che rende immancabile un concerto della band di Umea – lo sapete benissimo! – è la sua sfolgorante odissea di suoni, rumori, colori e luci, a prescindere da che si apprezzi o meno la loro proposta.
Assieme agli headliner, che fanno registrare un tutto esaurito un po’ sorprendente in un Alcatraz settato in versione ‘A’ – ovvero alla massima capienza – ecco presentarsi il supergruppo goteborghiano The Halo Effect, giustamente specializzatosi in supportate di lusso, dopo Machine Head e Amon Amarth in occasione della loro prima data italiana. Conoscendo la passione del pubblico nostrano per il death metal melodico, per i Dark Tranquillity in particolare e per il solito faccione rossastro del Mikael Stanne nazionale, non fatichiamo a credere che il sold-out sia anche in parte merito del gruppo di supporto, di cui appunto il musicista è parte.
In apertura di serata troviamo infine i Mantar, poderoso e grezzissimo duo mezzo tedesco mezzo turco che ci trapana doverosamente i timpani da quattro dischi a questa parte con la sua miscela black metal, hardcore, Melvins e sludge’n’roll a volumi fuori scala.
La coda è lunga fuori dall’Alcatraz, il clima è quello mite dell’equinozio di primavera, le 18 arrivano in fretta tra gente che esce dagli uffici, il traffico mortale della Milano da bere all’ora di punta e il popolo dei metallari a riempire i locali circostanti.
Tante facce con quarant’anni di rughe sul viso, ma anche una buona dose di giovani a bilanciare piacevolmente l’età media degli astanti. Dunque entriamo in perfetto orario, prendiamo una birra d’ordinanza, ci avviciniamo al palco e attendiamo che parta la canzone usata dai Mantar per introdursi…”The Razors Edge” degli AC/DC. Si comincia!

 


Il verbo dei MANTAR, all’anagrafe Hanno a voce e chitarra ed Erinc a batteria e sparuta seconda voce, pare esprimersi nel concetto ‘come fare il casino più immane possibile essendo solo in due’. Benissimo, siamo pronti.
Peccato che, in un locale ancora riempitosi solo a metà ma già piuttosto attento e voglioso di musica, la serata non sia delle più positive, soprattutto per quanto concerne il settaggio dei suoni: volume troppo alto, frequenze saturatissime e poca definizione del riffing ad ampio spettro imbastito da Hanno e la sua sei corde, distorta ovviamente a livelli oltre misura per andare ad abbracciare quelle linee solitamente occupate dal basso, assente dalla proposta del duo di Amburgo. La situazione migliorerà, purtroppo, solo all’altezza degli ultimi due/tre brani, tra i quali “Era Borealis” non ha fatto certo prigionieri con la sua ottima esecuzione e tiro devastante, e la finale “White Nights” ha finalmente spinto ad un pogo violento almeno la più esagitata dose di avventori.
Quando una band dal vivo non riesce a riprodurre fedelmente il sound da studio lascia sempre un po’ di amaro in bocca, ma la performance dei Mantar va giudicata appena sopra la sufficienza in termini globali, sicuramente positiva per la profusione di sudore ed impegno mostrati e abbastanza deludente per chi ne conosce bene le gesta su album – quattro veri gioiellini d’autore che si barcamenano tra crudezza punk-anarcoide, veemenza melvinsiana e motorheadiana, rock’n’roll allo stato brado e black metal quanto basta.
Il groove quadrato, elementare, terrificante e solidissimo insito nelle varie “Spit”, “Age Of The Absurd”, “Egoisto” ed “Hang’em Low (So The Rats Can Get’em)” è stato letteralmente ingoiato dal fuzz debordante uscito dalle casse e dalla pedaliera di Hanno, mentre i due loschi figuri – proditoriamente posti uno di fronte all’altro dando il fianco al pubblico – hanno picchiato come fabbri senza soluzione di sorta. Insomma, per noi una mezza delusione, i tre quarti d’ora dei Mantar, se teniamo conto di quanto pestino bene e facciano godere ascoltandoli a casa.
La platea dell’Alcatraz nel frattempo va riempiendosi e al momento dell’intro dei seguenti THE HALO EFFECT la tensione e l’attesa sono abbastanza palpabili. Diciamo subito che la all-star band di Goteborg ha fatto un’ottima impressione, dando l’idea di essere più viva e fresca dei loro termini di paragone più vicini, ovvero Dark Tranquillity ed In Flames.
Dalla loro, i cinque musicisti possono contare sull’immarcescibile affetto che i fan italiani provano nei confronti del death metal melodico made in Sweden, oltretutto portato in scena da veri e propri protagonisti della nascita e crescita del movimento nei suoi primi anni di vita. Oddio, ad essere precisi, tali citati protagonisti non sono stati cinque, bensì solo tre, in quanto, sebbene siano passate quasi inosservate, abbiamo dovuto registrare le assenze in sede live di Daniel Svensson alla batteria e dell’icona melo-death Jesper Stromblad alla chitarra: mancanze neanche sottolineate durante l’esibizione, come a volerle forse far passare in silenzio o intrise di una normalità in realtà non molto normale; al loro posto, ecco il semi-sconosciuto Anton Roos dietro le pelli e la vecchia conoscenza Patrik Jensen (The Haunted, Witchery) alla seconda chitarra, i quali comunque non hanno fatto rimpiangere per nulla i titolari, forti di un’esperienza tale da tenersi tranquillamente sulle spalle i fantasmi dei loro compari rimasti in patria.
Il set parte bene ma vagamente in sordina, con la doppietta “Days Of The Lost”/”The Needless End” a scaldare appena gli animi: Stanne si muove sempre alla grande su palco, caciarone, allegro, elegante, il solito Michelone che tutti conosciamo, nonostante il suo growl, a questo giro, sia parso non esattamente naturale, con un costante effetto a ‘robotizzare’ molto il suo potente gorgoglio; Niclas Engelin, Jensen e Peter Iwers, dal canto loro, si sono mossi continuamente da una parte all’altra del palco, dando dinamismo allo show e riempiendo gli spazi del palco da musicisti navigati quali sono.
Si è iniziato a fare sul serio dalla terza “Feel What I Believe”, seguita dall’ultimo singolo proposto, quella “Become Surrender” che suona molto modern metal grazie ad un riff decisamente saltellante (chi ha detto In Flames di “Reroute To Remain”?) e che ad ogni modo ha creato un bel po’ di esaltazione nel parterre. Notevole anche “Conditional”, una bella paccata a discapito dell’intro rilassato, mentre grandemente apprezzata, soprattutto da noi addetti ai lavori e da chi lo ha conosciuto in modo più profondo, è stata la dedica in occasione di “Last Of Our Kind” a Teo Segale, recentemente scomparso; Mikael, sinceramente commosso, lo ha ricordato come amico, persona appassionata e di gran spessore, d’altronde incidendo da anni per Century Media ed essendo stato, Teo, per anni il promoter italiano della Century Media attraverso l’agenzia SpinGo! è del tutto spiegabile il legame tra i due.
Dopo questo momento dolceamaro, ci si è rimessi in carreggiata con le finali “Gateways”, la prima canzone composta dai The Halo Effect, e “Shadowminds”, il primo brano in assoluto presentato al pubblico due anni fa. Pubblico milanese che ha riservato un buono/ottimo responso al supergruppo svedese, autore di una prova effettivamente molto piacevole e adrenalinica, seppur forse un po’ breve rispetto al set dei precedenti Mantar, che ha dato ragione d’essere e vero motivo d’esistenza a questo gruppo, a quanto pare intenzionato a restare attivo pubblicando a breve un secondo lavoro e prevedendo già una nuova venuta dalle nostre parti.
Inutile scrivere che, al momento del cambio di palco che prepara l’arrivo dei MESHUGGAH, l’Alcatraz è ormai saturo di gente, con solo verso fondo sala qualche vuoto a permettere una visione del concerto più pacifica, senza troppi smartphone alzati a riprendere o fotografare, ostacolando così la fruizione dello spettacolo.
Che poi, proprio un concerto dei nostri svedesi dovrebbe essere tra quelli più ambiti da guardare a occhio nudo, tanto è sfavillante il maremoto di luci e colori che si riversano a tempo sulla platea di visi e facce rapite e attonite. Ma tant’è, non tutti possono fare come i Tool in termini di divieti, e allora pazienza, ci si arma di bestemmie e sacramenti e si cercano sacche di pubblico più old-school tra le quali godersi in santa pace il live.
“Careless Whisper” di George Michael è la distopica introduzione che fa drizzare le orecchie agli astanti, prima di un’infinita sequela di secondi rumoristici nei quali la speranza di essere travolti dal muro di suono dei Meshuggah da un momento all’altro sembra dover morire definitivamente, fino a che ecco partire “Broken Cog”, l’opener dell’ultimo “Immutable”: il brano è lento, mesmerizzante, con il solo Tomas Haake a prendersi la scena, mentre del rosso incandescente espulso dai fari in ogni dove staglia le figure degli altri quattro musicisti immobili, nell’ombra, a fronte palco.
Già solo così, si viene introiettati in un reame quantico di fantascientifico splendore, dove il groove monolitico di Haake, Dick Lövgren e Mårten Hagström viene dilatato allo spasimo dagli assoli allucinati di un sempre più Gandalf-oriented Fredrik Thordendal, irriconoscibile con barba e capelli bianchi. L’ormai cinquantasettenne (!) Jens Kidman, anche lui sfoggiante una proditoria barba grigia da eremita delle montagne, completa un’avanguardia assassina di metallo, che riparte a tuono con la seguente “Rational Gaze”, un brano che dal vivo spacca sempre. Il cantante, forse anche per non perdere un’oncia di prezioso fiato, non percorre più come un automa il palco producendosi in un headbanging dissonante, bensì preferisce stazionare nella sua posizione, come gli altri del resto, accentuando l’idea di uno show tellurico, statuario, immutabile appunto.
L’ondeggiare delle prime file è costante durante il susseguirsi di tutti i brani della setlist, accompagnati da pochissime parole di circostanza di Jens – bene così, meglio far parlare la musica: “Perpetual Black Second”, “Kaleidoscope”, “God He Sees In Mirrors”, “Born In Dissonance” ci conducono a metà concerto in un mare nostrum di allucinazioni fino a lasciare spazio all’interludio ‘silente’ di “Mind’s Mirrors”, baciato da angoscianti puntellature di fari verdi del tutto aliene.
Siamo all’epoca di “Catch Thirtythree”, attimo più ‘rilassato’ mai assente dai live dei Meshuggah, che prosegue con le collegate “In Death – Is Life” e “In Death – Is Death”.
Si arriva così al vero punto di rottura del concerto, fin qui epico ed appagante ma non ancora memorabile. Sì, perchè è con gli ultimi quattro pezzi che la band raggiunge un climax assolutamente devastante: si fa dapprima un salto vertiginoso nel passato, con la primeva “Humiliative” a dare un metro di paragone perfetto tra lo stile dei primi due album della band (con mini annessi) e quello attuato da “Chaosphere” in avanti; lo spezzettato incedere di “Contradictions Collapse”, da cui è tratta “Humiliative”, non dà tregua alle prime file, nonostante non tutti conoscano a menadito il pezzo.
Di seguito veniamo travolti da “Future Breed Machine”, della quale non dobbiamo spiegare nulla, se non il massacro perpetrato dai Meshuggah sulle capocce di tutti noi, prigionieri dell’Alcatraz. Il concerto sarebbe finito qui, dopo circa un’ora e un quarto, ma ovviamente ci sono i bis, e mai bis furono così centrati e micidiali: due canzoni, due capolavori a tutto tondo, “Bleed” e “Demiurge”. La prima, a memoria di chi scrive, continua ad ergersi di gran lunga quale la canzone più massacrante da ‘vivere e sentire’ dal vivo, la cosa più vicina alla ‘Cura’ di “Arancia Meccanica” dopo la ‘Cura’ di “Arancia Meccanica” stessa. Con “Demiurge”, del resto, si viene definitivamente seppelliti dal groove assurdo della canzone, una sorta di Moby Dick che non lascia tregua a dei poveri capitani Achab, sconvolti e mutilati.
I Meshuggah sono dunque questo: signori musicisti che hanno settato degli standard lungo tutta la loro carriera e che hanno impostato da anni, ormai, la loro resa live su uno spettacolo che mette in primo piano la musica e le emozioni che essa può trasmettere, lasciando in un ombroso background l’ego delle loro anime, che si presenta come un tutt’uno di fredda e glaciale esecuzione.
Eppure, a muovere tutti gli ingranaggi oliatissimi della loro macchina, ci sono sempre uomini, esseri umani, intelligenze non artificiali: Tomas, Jens, Fredrik, Mårten, Dick, la Follia in persona.

MANTAR

THE HALO EFFECT

MESHUGGAH


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