Il Metalcamp, giunto oramai alla sua decima edizione (l’ottava a Tolmin, in Slovenia, l’attuale location), è sempre un nome che attira la simpatia e la curiosità delle persone. “MetalCamp”, il campeggio metal. Come mai chiamarlo così? Alla fine, anche al Summer Breeze c’è una vasta area camping, e così al Wacken e in altri festival che si tengono su più giornate. Però, per quando ci si va, questo strano concetto di ‘campeggio metal’ si spiega meglio, acquisendo la sua vera dimensione. Incastrato nella lingua di terra contenuta da due bei fiumi, l’Isonzo e il Tolminka, più che un vero festival è proprio una specie di villaggio abitato da soli metallari. I concerti, che solitamente iniziano alle quattro, lasciano ampio spazio al popolo campeggiante per fraternizzare, visitare i numerosi stand posti nella via che unisce i due palchi presenti, godersi la natura o anche solo cercare di riprendersi dalla devastazione della sera precedente. La vera diversità di questo festival lo si vede proprio dallo stile di vita della gente presente. Una vera e propria vacanza, dove prevale un clima di relax e anche un po’ di sano scazzo, dove la musica ricopre si un ruolo importante, ma è soprattutto colonna sonora di queste metal vacanze estive, e non l’unica cosa da fare. In questo clima rilassato ed allegro non è raro imbattersi nei membri delle varie band (soprattutto quelle minori, ma noi abbiamo incontrato addirittura alcuni membri degli Amorphis intenti ad un ghiacciato bagno pomeridiano il pomeriggio del sabato!) che anche loro si godono la cornice di questo villaggio al servizio della musica pesante… In questo clima di aggregazione e stile di vita rock’n’roll, si svolgono però anche e soprattutto i concerti di diverse band, di cui parleremo ovviamente in questo report. Divisi su due stage, il primario situato nello spazio più grande ed uno stage secondario dedicato a band emergenti un po’ decentrato e con un’area antistante decisamente più piccola, quasi una sessantina di gruppi sono stati fatti rotare incessantemente per fornire ai fan di tutti i generi un assaggio della loro musica preferita. Noi di Metalitalia.com raggiungiamo il teatro del festival intorno al tardo pomeriggio del giovedì. Sul palco secondario, i Vision Of Atlantis stanno per regalare ai (pochi) presenti un po’ di sonorità classicheggianti e power metal sinfonico. Vediamo che cos’hanno da dirci questi austriaci…
VISION OF ATLANTIS
La nostra maratona metal in quel di Tolmino inizia quindi proprio con la symphonic metal band austriaca e, purtroppo, con tutte le premesse di un disastro semi-annunciato. Il power/sympho della band austriaca non ha mai riscosso più di tanto al di fuori dell’aspetto puramente discografico (e anche in quel caso sono ancora tanti i detrattori); inoltre, nelle recenti calate italiane a supporto di Rhapsody Of Fire e Katatonia, la band non si è certo distinta per la qualità degli show. Infine, vista la vicinanza temporale con i più attesi show di Taake ed Hate, entrambi dediti a sonorità ben più estreme, ci aspettavamo una desolante mancanza di pubblico, fatto che non giova mai ai musicisti che ne risultano demotivati. Le cose vanno in effetti tutto sommato come previsto, salvo per la prevista demotivazione. La band riesce invece a salvarsi sotto quell’aspetto con uno show comunque interpretato con una certa verve e grazie alle buone e già note qualità strumentali dei musicisti. La frontwoman Nicol Bergner, non potendo contare su aspetto fisico e presenza scenica che solitamente caratterizza le cantanti del settore, punta più su coinvolgimento e tentativi di far partecipare i pochi presenti con incitazioni e mani sbattute o alzate al cielo. Lo show non è tutto sommato male e riesce nonostante le pessime premesse a divertirci con i soliti cavalli di battaglia “Seven Seas” e “New Dawn”. Alla fine di questo in verità piuttosto leggero approccio al campo ci prepariamo poi ad assistere allo show dei Kalmah, da cui ci aspettiamo ben altri risultati.
KALMAH
Al loro secondo show in quel di Tolmin, i Kalmah riescono a riprendersi con gli interessi quello che l’anno scorso era stato loro negato da una alquanto sfavorevole posizione in scaletta. Posti infatti in chiusura dell’ultima giornata subito dopo gli headliner Manowar, avevano goduto di ben poca attenzione da parte di una folla di metallari stanca e provata da sei giorni di pioggia e musica. In quell’occasione il possibile pubblico della band finlandese era risultato infatti alquanto ridotto a causa del numero di persone che giustamente stavano sbaraccando per prepararsi al ritorno a casa o volevano concedersi un’ultima breve dormita prima di una lunga guidata. In questa edizione del 2011 alla band oulana va molto meglio in quanto, posizionata dal bill sul finire del pomeriggio della terza giornata e sul meritato stage principale, gode finalmente di ottima visibilità, e questo garantisce la presenza da parte di tutti i fan, stavolta non stanchi ma anzi famelici dei ritmi black/death e dei riff serrati che i fratelli Kokko sono pronti a dare. Lo show si rivela un successo sin da subito. I suoni, almeno dalla nostra postazione sulla collina, risultano subito abbastanza buoni, inficiati solo da un piccolo impasto sulle note più basse. La voce urlata di Pekka si staglia bene sul marasma sonoro creato dalle ritmiche serrate, e tonnellate di buona musica, a cavallo tra Children Of Bodom e vecchi In Flames, si riversano sul pubblico che risponde con invocazioni e con un buon mosh sotto il palco. Con i Kalmah iniziano a vedersi i primi accenni di un body surfing che verrà eseguito poi di continuo durante i gruppi successivi, e le body guard cominciano ad avere il loro da fare a tenere vuoto il pit dalla gente che vi viene scaricata dopo essersi attraversata la folla sospesa sulle mani dei presenti. Un bella oretta di death metal melodico ben suonato e ancora meglio interpretato, che pone i Kalmah come ottima band dal vivo e che dà a loro e ai fedeli fan, presenti in gran numero stavolta, la possibilità che l’anno scorso si erano purtroppo bruciati.
SLAYER
Gli Slayer li stiamo vedendo in tutte le salse… tra i concerti del Big Four, il Metal Camp, il Bang Your Head festival e altre date ancora, la band californiana sta suonando praticamente tutti i giorni. Nonostante dunque siano ‘zoppi’ di una chitarra (l’infortunio di Hanneman si è rivelato poi molto serio) e verosimilmente anche piuttosto stanchi, gli Slayer riescono anche stasera nell’intento che il loro nome veicola, ovvero ‘uccidere’ la folla (simbolicamente, s’intende) con la furia e la violenza del loro thrash metal. Da sempre i più estremi dei quattro alfieri del cosidetto thrash Bay Area si fanno solo punto di suonare più massicci, precisi, veloci e violenti possibile. Non serve altro per creare lo show. Niente giochi pirotecnici, niente sfondi magniloquenti, niente rapporto con il pubblico se non qualche sporadico “Thank you very much” borbottato da Araya ad intervalli irregolari: le uniche cose che scendono dal palco su cui si trovano gli Slayer è la musica, e la violenza. Il resto dello show è solo il pubblico, che parte in visibilio subito dalle prime terremotanti note di “World Painted Blood”, e mantiene un livello di partecipazione e resistenza che ha dell’incredibile. Spinti al limite da una pressa enorme (l’intero campo dello stage primario era gremito), colpiti di continuo dai fan vicini in un mosh violentissimo, sferzati dalle vibrazioni sonore di un volume a livelli spaventosi, i presenti resistono più o meno tutti, con una determinazione e un accanimento che si possono specchiare nel cipiglio e nello sguardo fisso di Kerry King o nella onnipresente ed arcigna smorfia di Araya. Gli Slayer suonano, il pubblico crea lo show, e le canzoni fanno il resto. Questa sembra essere oramai la formula che la macchina Slayer adotta per poter lasciare al pubblico sempre la stessa impressione, ovvero che gli sia appena passato sopra un bulldozer, pur suonando una sera sì e l’altra anche. Incredibili per determinazione e dedizione alla causa della musica violenta e distruttiva, non deludono nemmeno stasera sotto nessun punto, inanellando con un’efficienza ed un’implacabilità inverosimile una serie di classici che lascia il pubblico senza fiato, muovendosi ininterrottamente tra le varie “Seasons In The Abyss”, “Mandatory Suicide”, “War Ensamble”, “Dead Skin Mask”, e tutto questo prima di un finale spaccaossa al ritmo di “Raining Blood”, “Black Magic” e “Angel Of Death”. Non c’è che dire, davanti a questa ferrea dedizione alla violenza suonata, non ci resta che toglierci il cappello ed acclamarli insieme con qualche migliaio di fan in esaltazione.
• World Painted Blood
• Hate Worldwide
• War Ensemble
• Postmortem
• Temptation
• Dittohead
• Stain of Mind
• Disciple
• Bloodline
• Dead Skin Mask
• Hallowed Point
• The Antichrist
• Americon
• Payback
• Spirit in Black
• Mandatory Suicide
• Chemical Warfare
• Ghosts of War
• Seasons in the Abyss
• Snuff
• South of Heaven
• Raining Blood
• Black Magic
• Angel of Death
MILKING THE GOAT MACHINE
Pur se devastati dal lungo viaggio e provati dallo show tritaossa degli appena conclusi Slayer, ci dirigiamo comunque al palco secondario per scattare qualche foto e sentire cosa hanno da proporci i membri di una delle band più assurde di tutto il bill. Una volta arrivati allo stage notiamo però che non tutti i fan hanno avuto la nostra stessa curiosità: in molti dopo gli Slayer paiono averne avuto abbastanza di violenza sonora e quindi si sono recati in luoghi più ‘tranquilli’ quali le proprie tende o la spiaggia, ove di notte si tenevano dei simpatici festini rock. Se però il pubblico non è risultato troppo presente, la violenza non si è certo fatta desiderare, in quanto lo show dei quattro tedeschi travestiti da capre non ha certamente tradito le sonorità estreme che il genere grind/death impone. Introdotti a sorpresa dalla sigla di “Guerre Stellari” e da uno strano siparietto con voci recitate, attaccano subito con le loro velocissime e serrate ritmiche grind, seppellendo immediatamente il pubblico di note. Il cupo growl del batterista/cantante ‘Goatleeb’ Udder si sente distintamente sopra i suoni incessanti del blast beat, e le figure imponenti degli altri tre membri (soprattutto quella del chitarrista ‘Goatfreed’ Udder, che ricorda la stazza di Dino Cazares) si muovono minacciose per il palco squadrando tutti con le inquietanti maschere da capra. Se sotto quelle maschere in realtà la band stia ridendo sfacciatamente alla facciazza nostra non lo sapremo mai, ma comunque possiamo goderci questi ultimi scampoli di serata con la loro musica, e i loro pezzi a tema ‘capresco’, come “Surf Goataragua” o “Milk Me Before I GoGo”, il cui concetto viene ribadito con espliciti gesti da parte del chitarrista. Show monocorde, ma tutto sommato che sembra piacere ai presenti, addirittura in difficoltà con l’headbanging su pezzi così veloci.
KREATION CODEX
Provenienti dalla Slovenia, attivi dal 2004 ma con un solo album presente in discografia targato 2011, i Kreation Kodex hanno il compito di aprire le danze della quarta giornata di Metalcamp sul prestigioso palco principale. A conti fatti, non siamo sicuri che la scelta abbia effettivamente giovato a questi sei black metaller est europei in quanto la desolante mancanza di pubblico, già di per sé brutta sul piccolo palco secondario, vista sullo sfondo dell’immenso prato davanti al main stage ne è risultata addirittura amplificata. Eppure, a noi che eravamo presenti insieme a non più di una cinquantina (forse nemmeno) di persone, questi Kreation Kodex non sono affatto dispiaciuti. Tipica formazione da sei elementi con i due chitarristi dediti rispettivamente alle vocals scream e growl, un bassista, un batterista, tastierista donna e cantante femminile di stampo operistico, propongono un death metal dalle venature black sinfoniche, avvertibili nello scream del chitarrista e principale frontman Alen Murtiae e negli abbondanti barocchismi di tastiera. Uno show di appena trenta minuti, carino dal punto di vista musicale ma assolutamente non valutabile dal punto di vista scenico, in quanto la mancanza del pubblico ha reso davvero nullo ogni tentativo dei musicisti di incoraggiare un minimo di partecipazione dei presenti.
HELLCATS
Dopo la controversa esibizione dei Kreation Kodex, per i quali ci dispiace ancora per lo scarso seguito avuto durante il loro show, ci trasferiamo sul palco secondario dove ben altre sonorità e anche ben altro pubblico ci attendono. A consueta riprova del fatto che una (bella) presenza femminile sul palco è in grado già di per sé di richiamare un certo tipo di attenzione e quindi anche di affluenza, notiamo appena arrivati che le file piene sotto il palco sono già quattro o cinque, ed in continuo aumento. Quando poi le (belle) presenze femminili sul palco sono ben quattro, e quindi rappresentano il totale dei membri della band, capiamo con facilità come mai tanta gente sia accorsa per questo show. Cartelli con la scritta “Show Tits” o con disegni osceni, e numerosi incitamenti in lingua straniera a fare qualcosa che possiamo ben immaginare sono la triste cornice che racchiuderà inizio, durata e fine dello show delle quattro rocker slovene. Note ‘ormonali’ a parte, lo show delle quattro gattine infernali ci dona una trentina di minuti di classico metal ottantiano misto ad hard rock dagli stessi anni. Una miscela robusta e senza fronzoli che fa apprezzare le quattro musiciste anche per la loro energia e per il loro piglio convinto e sicuro di sé, e non solo per la sensuale presenza sul palco. Con una manciata di roventi canzoncine ad alto contenuto elettrico con titoli scontati quali “Heavy Metal” o “The Master Of The Night”, le Hellcats lasciano comunque un piacevole ricordo, rendendo giustizia al palco ove hanno potuto suonare e strappando consensi al pubblico presente.
BEJELIT
Avevamo già visto in azione i Bejelit a supporto di Golem e Rage a Romagnano Sesia questa primavera, e avevamo espresso il desiderio di valutarli su una distanza maggiore, con uno show più lungo. Il palco secondario del Metalcamp purtroppo non è il posto giusto per togliersi questo desiderio in quanto anche qui alla brava band di Arona viene concesso il tirannico timing di soli trenta minuti, una mezz’ora per riuscire riassumere degnamente la propria musica e riuscire a portare uno squarcio di valido tricolore italiano nelle straniere lande slovene. La band si mostra davvero in palla anche stavolta, ulteriormente rafforzata dalla presenza di Marco Pastorino, noto chitarrista in forza a Secret Sphere e The Ritual. I cinque italiani compiono bene il loro lavoro, portando del solido metal classico a tratti contaminato con le melodie del power tedesco, dimostrando con sei o sette estratti dalla loro discografia di che pasta siano fatti. Lo show è solido e maturo, e scorre bene in virtù di una proposta che non annoia, e della bravura dei singoli, specialmente della coppia d’asce Pastorino/Capone e dell’ottimo screamer Fabio Privitera, sicuro e preciso anche sulle note più alte. Il concetto che già esprimemmo relativo al fatto che i Bejelit dovrebbero godere di maggior tempo per esibirsi però continua… forse la prossima volta sarà quella buona.
POWERWOLF
Il concerto tardo-pomeridiano dei Powerwolf rappresenta la classica sorpresa che tutti coloro che vanno ad un concerto ed assistono allo show di una band di cui non conoscono alla perfezione i lavori vorrebbero avere. Assolutamente pacchiani e tamarri su disco a causa dei testi eccessivi, del facepainting fuori luogo, dei vestiti di ispirazione ecclesiastica e di una fin troppo massiccia componente sinfonica con la quale ricoprono le loro robuste costruzioni derivate dalla NWOBHM più classica e dallo speed di estrazione tedesca, dal vivo trovano invece decisamente la loro condizione ideale. Sul palco principale del Metalcamp, con la sera che si avvicina e i densi nuvoloni che hanno in parte funestato la nostra seconda giornata slovena, sembra di assistere allo show di uno degli headliner tanta è la passione, la grinta e la partecipazione dei presenti. Il prato dello stage non è ancora pieno, la folla arriva solo fino al mixer, ma il coinvolgimento è tale da far pensare a molta più gente. La band stessa sul palco si trasforma: i volti dipinti di bianco ed il vestiario eccessivo da pacchiani diventano invece assai fighi, i testi diventano qualcosa su cui scherzare per presentare le canzoni ed infine la soverchiante componente sinfonica si fa ancora più protagonista, sposandosi in maniera quasi blasfema al fumo sul palco, alle luci e ai ventilatori posizionati sul palco per scompigliare le lunghe capigliature dei due chitarristi Matthew e Charles Greywolf. Show bellissimo da vedere per le mosse sul palco dei due chitarristi, l’incontenibile esuberanza del tastierista che quasi mai è dietro al suo strumento ma spesso gira per il palco per incitare la folla, e soprattutto per l’innegabile carisma del vocalist Attila Dorn. Questi aspetti, uniti alla potenza delle composizioni già avvertibile su disco, rendono questa oretta di show una delle più belle della giornata. Lasciamo il palco principale quasi con rammarico, avremmo voluto averne di più da questi simpatici e preparati musicisti tedeschi, ma le belle “Resurrection By Erection”, “We Drink Your Blood” e “Werewolf Of Armenia” saziano comunque in toto la nostra sete di metal nella sua accezione più classica.
VANDERBUYST
A seguito dell’esaltante show dei Powerwolf avremmo forse voluto riposarci un attimo, ma sul palco due si stavano già preparando a salire i Vanderbuyst, che tanto bene avevano fatto in Italia solo un mesetto fa a supporto dei Saxon. Sin dall’inizio delle danze si comprende che anche questo concerto sarà all’insegna di un’energia ed un impegno davvero sfrenati. La band, composta da soli tre elementi, si distingue infatti per voglia e sudore profuso, dando tutti loro stessi nello show e donando la consueta mezz’oretta di buona musica ai fan presenti. Nessuno dei tre musicisti prevale sugli altri nella compatta squadra olandese, il cantante/bassista Jochem Jonkman assurge agli onori della cronaca grazie ad una buona estensione e tecnica vocale, il batterista Barry Van Esbroek si rivela inesauribile ed indispensabile motore ritmico per l’hard rock tellurico proposto dalla band, ed infine il leader Willem Verbuyst si fa notare per una presenza scenica enorme, e per una serie di assoli in puro stile guitar hero che calamitano l’attenzione del pubblico. Anche se sacrificati anche loro sul palco secondario, i Vanderbuyst danno invece l’aria di essersi goduti appieno la loro posizione. L’ora facilita la presenza della gente nella zona ristoro vicina al palco, e la gente non è comunque così poca, il che fornisce alla band il terreno fertile per piantare i semi del suo hard rock rivestito di sonorità metal, ottenendo in risposta una buona partecipazione dai presenti. Le dirette song del gruppo si succedono agilmente e senza sosta, e arriviamo alla fine dello show senza nemmeno aver pensato a comprarci un panino per la cena. Ben fatto!
BLIND GUARDIAN
La seconda giornata a Tolmjin si è alla fine rivelata un successo. Gli show di Powerwolf e Vanderbuyst ci hanno caricato in attesa della famosissima banda dei bardi di Krefeld, e le energiche performance di Bejelit ed Hellcats hanno stimolato il nostro appetito per sonorità derivanti dal metal classico e dal power. Ora tocca i cinque guardiani ciechi mostrare il proprio valore in chiusura di una giornata che ci ha portato tanta buona musica. I Blind sono oramai vecchie volpi dei festival estivi, album o non album appena uscito, fa sempre piacere vederli a tutti i festival… e anche stavolta non tradiscono le aspettative con uno show abbastanza inlinea con il loro standard e con una scaletta abbastanza bilanciata tra vecchio e nuovo, che pesca un po’ da tutti gli album tralasciando a sorpresa (e un po’ maldestramente, pensiamo noi) il must “Imagination From The Other Side”, assolutamente non rappresentato da nessuna canzone. Sorvolando (un po’ a difficoltà) su questo scivolone, ci godiamo però qualche sorpresa in termini di canzoni non sempre presenti, quali ad esempio una “Time What is Time” che mai avevano sentito dal vivo, e soprattutto una “And There Was Silence” eseguita in tutti i suoi interminabili quindici minuti. La scelta di introdurre una canzone così lunga in uno show che già aveva visto in apertura un’altra suite sopra i dieci minuti, ovvero l’attesa “Sacred Worlds” dall’ultimo album eseguita anche qui integralmente, riduce di due o tre slot la setlist dei Blind, i quali sono dunque tenuti a riempire i restanti spazi con canzoni che risultino sia potenti e coinvolgenti, sia risiedano nel cuore dei fan. A questo scopo, la band tedesca opta per una serie di classici sempre presenti ai concerti (“The Bard’s Song”, “Nightfall”, “Time Stand Still” e la solita, conclusiva, “Mirror Mirror”), e per qualche pezzo dotato di gran tiro ma non sempre presente ai loro show come la veloce “Majesty” dal primo album o una tellurica “Welcome To Dying”, posta in apertura dopo la suite “Sacred Words”. Le scelte si rivelano nel bene o nel male azzeccate, ed il numeroso pubblico partecipa, coprendo come al solito con un roboante coro di migliaia di voci i frequenti svarioni di un Hansi sempre più stanco. Ma questo, almeno ai festival estivi, con i Blind Guardian non importa. Le canzoni sono talmente impresse a fuoco nel cuore dei fan che alla band basta solo essere presente sul palco per ottenere lo show, il resto lo fa tutto l’affezionatissimo pubblico. La chiusura del concerto chiude anche la nostra seconda giornata al Metalcamp, e torniamo a casa decisamente soddisfatti. Ma, in seguito, interroganodci sull’effettiva qualità dello show dei Blind, ci accorgiamo di non saper dare una risposta. Noi ed il pubblico ci siamo divertiti ed abbiamo ascoltato canzoni che adoriamo, ma non crediamo che questo show ci abbia dato qualcosa di più rispetto alle altre volte in cui li abbiamo sentiti in altre cornici…
• Sacred Worlds
• Welcome to Dying
• Nightfall
• Time Stands Still (at the Iron Hill)
• Turn the Page
• Time What Is Time
• Majesty
• Tanelorn (Into the Void)
• And Then There Was Silence
• A Voice in the Dark
• The Bard’s Song – In the Forest
• Mirror Mirror
VIRGIN STEELE
Fa un po’ male vedere un gruppo storico come i Virgin Steele in una posizione così sfavorevole per loro. Infilati intorno alle quattro del pomeriggio sul palco principale, sembrano quasi essere diventati un anonimo gruppo di esordienti piuttosto che una band che ci ha donato capolavori del metal classico come i due “Marriage Of Heaven And Hell” o il bellissimo “Invictus”. Purtroppo, le vicende accadute alla band di DeFeis dopo il loro periodo d’oro unite all’ultimo, spento, “The Black Light Bacchanalia”, hanno allontanato molti fan, costringendo l’organizzazione a posizionarli in questo punto della giornata per dare maggiore visibilità agli act successivi. Per fortuna i Virgin Steele non sembrano essersela presa tanto e si godono il calore dei fan presenti, presentandosi a fine concerto al limite delle sbarre per tanti autografi e anche qualche scatto con i presenti. A parte la simpatia mostrata dal trio DeFeis/Block/Gilchriest a fine concerto, però, sullo show in sé non abbiamo molto da segnalare. Con solo trenta minuti a disposizione, di cui ben dieci rubati già solo dall’opener “By The Hammer Of Zeus (And The Wrecking Ball Of Thor)”, al terzetto americano (accompagnato per l’occasione da una tastierista aggiuntiva) non resta che pagare pegno all’immenso “Invictus” con i cavalli di battaglia “Defiance” e “The Sword Of The Gods”, chiudendo lo show con sole quattro o cinque canzoni eseguite. La caduta di un mito come i Virgin Steel ci addolora davvero tanto.
STEELWING
Il tempo di portare via gli strumenti dei Virgin Steele, di infilarsi in un paio di aderenti spandex che fanno molto Iron Maiden anni ’80, di imbracciare gli strumenti e gli Steelwing, formazione svedese dedita al più classico heavy metal ottantiano, sono pronti a bruciare i presenti con l’ardente esuberanza delle loro canzoni. Supportati da un volume spaventoso, a tratti quasi fastidioso specialmente sulle note più acute prese dal cantante Riley, il gruppo scandinavo riversa circa un’ora di torrenziali ritmi metallici sulla folla, strappando comunque urla ed appalusi. Tamarri all’inverosimile, a partire dall’improbabile e sorpassato vestiario fino ad arrivare ai continui siparietti con i movimenti in sincrono, gli Steelwing mostrano di avere imparato molto dai tour effettuati a supporto di Blind Guardian e soprattutto Accept, e si presentano sul palco come la consueta schiacciasassi metallica che non prende prigionieri. Sessanta minuti di musica composta da estratti da “Lord Of The Wasteland” del 2010 e una per per loro ormai solita cover di “The Green Manalishi” è quello che gli Steelwing forniscono ai presenti, insieme ovviamente a tanta energia e una discreta simpatia. Show gradito, che ci lascia la voglia di rivederli ma non incide un segno particolare nella nostra memoria, al di là di qualche song come “Roadkill… or Be Killed”.
EVOLVE
L’unico show cui assistiamo sul palco secondario di quest’ultima giornata di Metal camp è questa strana band svizzera, autrice di un prog metal assolutamente di derivazione Dream Theater. Poche informazioni sono disponibili su questo sconosciuto act formato di quattro musicisti, tra cui una cantante, quindi ci presentiamo allo show senza per nulla conoscerli. In realtà il presente concerto ha fatto poco per promuovere la loro musica, la quale risultava alquanto fuori luogo nella cornice del Metalcamp, e siamo pronti a scommettere che la maggior parte dei presenti si ricorderà degli Evolve come ‘quelli con la cantante mezza nuda’. Ebbene sì, a discapito di tutti i cliché che vedono i musicisti progressive prendersi sempre sul serio, non sorridere mai e stare immobili sul palco a suonare partiture difficilissime, la cantante degli Evolve (piccola ma carina) opta per un look decisamente più discinto con un minibustino indossato sopra un paio di pantaloncini talmente corti da sembrare mutande. Non contenta degli sguardi che immancabilmente si fermavano sulle sue gambe, decide alla seconda canzone di levarsi pure il bustino rimanendo con un alquanto triste bikini nero teschiato. Non capiamo proprio questa mossa degli svizzeri, che ha il solo risultato di allontanare l’attenzione dalla musica, che comunque non sembrava malaccio per gli amanti delle sonorità in stile Dream Theater. Dopo esattamente trenta minuti i quattro svizzeri spengono gli strumenti, scendendo dal palco senza salutare nessuno e senza un grazie, sparendo per sempre dai nostri pensieri. Un comportamento ed uno show davvero assurdi.
AMORPHIS
Tra gli show che aspettavamo di più c’era proprio quello della folk band finlandese i cui testi sono estratti dal libro di leggende nordiche del Kalevala. E’ subito un concerto bellissimo quello che si apre con “My Enemy”, caratterizzato da un ottimo bilanciamento dei suoni, un’atmosfera davvero magica e soprattutto un Tomi Joutsen superlativo, assolutamente perfetto nei frequenti passaggi dai registri cantati con la tonalità pulita o con il caratteristico cavernoso growl che caratterizzava gli esordi. Con in mano un microfono dalla foggia strana, dotato di un’impugnatura stile megafono e di due maniglie laterali, il cantante tiene il palco a meraviglia per tutta l’ora a sua disposizione, con incitazioni al pubblico, continui movimenti lungo tutto il palco e un vigoroso headbanging, reso ancora più visibile dalle lunghissime trecce rasta che porta oramai da anni. Lo show si pone pesantemente sulle sonorità care agli ultimi album, e così vengono sciorinati delle bombe del calibro di “My Enemy”, “Silver Bride” e “Sky Is Mine”, mentre il passato viene affidato alle già ampiamente rodate “My Kantele” per il periodo “Elegy” e “The Castaway” per l’amatissimo “Tales From The One Thousand Lakes”. Con questo mix di vecchio e nuovo, gli Amorphis ci dimostrano di essersi creati un solido zoccolo di fan anche tramite l’evolversi delle loro sonorità, e gli amanti dei vecchi dischi sembrano essere tanti quanti quelli che adorano invece il nuovo corso. Qualunque sia però la canzone proposta, la magia degli Amorphis è sempre ben presente, marchiata a fuoco su ciascuna delle loro interpretazioni. Il campo del Metalcamp sembra ammantarsi di magia mentre i cinque finnici suonano, e sono molte le donzelle che è possibile vedere ballare, e non pogare, ai ritmi suadenti delle armonie tessute dalle sei corde di Holopainen e dai tasti di Santeri Kallio. Uno show che si allontana da quelli che abbiamo visto sinora al metalcamp, ma che ci dona comunque ed indubbiamente tutta la magia della loro musica. Ulteriore nota: non possiamo non applaudire la posizione in scaletta. Ascoltati al tramonto, con le luci che si affievoliscono e le ombre che si allungano, anche la natura stessa sembra in qualche modo adattarsi alla musica degli Amorphis. Grande show.
ACCEPT
L’ultima band che seguiamo per questa edizione 2011 del Metalcamp sono i tedeschi Accept, ultimi alfieri delle sonorità classiche a Tolmin per questa edizione. A distanza di un anno dall’uscita di “Blood Of The Nation”, e con il ricco tour con gli Steelwing di inizio anno da poco terminato, la formazione teutonica può tranquillamente godersi gli spazi concessi dai diversi festival estivi per un bel tuffo nel passato proponendo, grazie anche ad un tempo spendibile sul palco abbastanza generoso, una bella serie di classici per la felicità di tutti gli amati del metal di vecchia data ma che mai si ossiderà. A parte alcuni ovvi richiami all’ultimo album (“Teutonic Terror”, “Bucket Full Of Hate”, “Pandemic”), la setlist si posiziona nel periodo d’oro di “Restless And Wild”, “Balls To The Wall” e “Metal Heart”, con la riproposizione di brani da quegli album amatissimi dalla maggior parte dei fan presenti sul pubblico. Oramai l’affiatamento con il cantante Tornillo è cosa sicura e rodata, ed il resto della band è la solita proverbiale macchina 100% metal in grado di far saltare tutti gli amanti di certe sonorità; queste premesse, unite alla scaletta azzeccata, generano come risultato uno show che siamo sicuri rimarrà nel cuore di molti. I movimenti in sincrono delle due asce, le melodie dell’attesissima “Princess Of The Dawn” e il ritornello vincente di “Balls To The Wall” posto in chiusura, sono solo momenti di un concerto che ha visto una grande band del passato, riformatasi cinque anni fa dopo l’abbandono del cantante originale, dimostrare che ancora adesso ai grossi festival estivi, a fare la differenza sono comunque ancora i nomi di una volta. Dopo lo show degli Accept, valutata la risposta del pubblico, siamo più che mai sicuri che il metal classico non morirà mai. Con ancora nelle orecchie il ritornello di “Balls To The Wall” torniamo a casa, contenti della nostra breve ma intensa esperienza slovena.
ARKONA
BELPHEGOR
DEICIDE
DIE APOKALYPTISCHEN REITER
HEAVEN GREY
IN EXTREMO
KREATOR
MOONSORROW
SUICIDAL ANGELS