Introduzione a cura di Marco Gallarati e Gennaro Dileo
Report a cura di Gennaro Dileo, Alessandro Corno, Matteo Cereda e Marco Gallarati
Foto di Enrico Dal Boni e Nina Ramirez Art
Metalfest 2012, prima volta in terra italiana, spalmato in tre giorni di eterogeneo metallo un po’ per tutti i gusti. Eventi ormai noti ai più hanno letteralmente castrato le potenzialità di questa manifestazione, almeno per quanto riguarda la sua versione tricolore: in primis il criticatissimo spostamento della location dallo stadio Brianteo di Monza all’Alcatraz di Milano, troncando di fatto, così, la dicitura ‘open air’ dal cartellone del festival; poi la traslazione dei Kreator da supporto dei Megadeth a headliner della terza giornata; infine, la cancellazione intempestiva e rimasta immotivata di ben cinque band in programma – Huntress, Hate, Septicflesh, Nexus Inferis e soprattutto i nostri Fleshgod Apocalypse. Uniteci il prezzo impegnativo e la vicinanza del Gods Of Metal, più tutti i molteplici eventi singoli di questo ricco giugno rock-metallaro, ed avrete un quadro piuttosto drammatico della situazione. Davvero un peccato, perché le formazioni impegnate hanno dato tutte l’anima e si sono dimostrate professionali ed entusiaste nel partecipare, con la leggera eccezione dei soliti altezzosi Megadeth.
Per quanto concerne il primo giorno – quello che ha visto chiudere le danze ad Anthrax e Blind Guardian – l’affluenza di pubblico è stata molto sotto le attese, compensata in parte dalle ottime performance dei combo citati, dei Triptykon e degli opener Skull Fist; purtroppo è pollice verso, invece, per Fueled By Fire ed Alestorm, che pur avendo riscosso buon gradimento, hanno rivelato penose lacune. Discorso a parte meritano gli Hypocrisy, molto attesi ma deludenti a causa di irrisolti problemi tecnici.
Il secondo giorno di questa manifestazione, invece, ha registrato una maggiore affluenza di pubblico, anche se ben lontana dallo sfiorare il sold out. Il thrash metal tecnico ma di sicuro impatto dei californiani Megadeth ha riscosso il consueto entusiasmo tra gli aficionados del capriccioso leader Dave Mustaine, così come il furioso rock’n’roll retrò dei redivivi W.A.S.P. di Blackie Lawless ha mietuto vittime a volontà. Positiva anche la performance dei Grand Magus, abili nel catturare le simpatie di tutti coloro che si nutrono di doom, metal classico e roboante hard rock di matrice Seventies. A dir poco imbarazzante nella sostanza, il power metal ‘liturgico’ dei tedeschi Powerwolf, nonostante siano stati ben accolti da entusiasti fan accalcati sotto il palco. Il livello qualitativo sale decisamente con il massacrante death metal tecnico dei Behemoth, trascinati come sempre dal carismatico leader Nergal.
Il terzo ed ultimo giorno dell’evento ha registrato un’affluenza decisamente scarsa, sebbene il variegato bill avrebbe dovuto richiamare – almeno sulla carta – un’utenza eterogenea. Lo show degli storici techno-thrashers Death Angel ha rasentato la perfezione formale, mentre gli amatissimi Dark Tranquillity hanno preferito ripescare i loro brani più melodici, facendo così storcere il naso ad una fetta di pubblico che si aspettava ben altro. Il colorato folk metal, irrobustito da adrenaliniche sfuriate power e dagli input tanto cari all’extreme metal, dei finnici Ensiferum ha prima risvegliato e poi scatenato il mai sopito animo battagliero dei loro estimatori. Commento a parte va fatto per lo stoner allucinogeno dei Kyuss Lives! che, se da un lato ha stordito e gettato nello sconforto gran parte dei metallari più tradizionalisti, dall’altro ha attirato a sé uno sparuto nugolo di entusiasti ‘freakettoni’. Chiusura affidata al thrash violento e ipersonico dei tedeschi Kreator, trascinati senza remore dal piccolo ma incazzato Mille Petrozza, meritevole di aver risvegliato in pochi minuti l’entusiasmo dei presenti, ridotto ai minimi termini dal rock psicotropo dei suoi predecessori.
Un ultimo, breve e laconico giudizio sulla logistica e la gestione dei soliti punti critici amati, ma soprattutto odiati, dai fan italiani: ancora una volta sono risultati assenti i braccialetti per muoversi liberamente dentro e fuori dal locale, inspiegabile anacronismo che in tutta sincerità ha davvero stufato, per essere bonari di parole; i prezzi del cibo, pochissima varietà e scelta all’interno dell’Alcatraz, e della birra (6 euro) sicuramente non da festival, bensì da data singola; impossibilità di uscire passata una certa ora. Il lupo perde il pelo ma non il vizio e in Italia ci troviamo ancora reclusi fra quattro mura in pieno coprifuoco. Per favore, basta. Veramente.
Infine, dopo questa corposa introduzione, é giunto il momento di lasciare spazio alle nostre impressioni catturate direttamente sul campo e dedicate alle singole band. Buona lettura, sperando di poter rivedere anche l’anno prossimo il Metalfest, festival penalizzato da una moltitudine di sfortunate e mal gestite congiunzioni astrali.
SKULL FIST
Martedì 5 giugno, prima giornata di Metalfest: dopo aver ammirato Refused e Soundgarden la sera precedente all’aperto, ridimensioniamo le nostre pretese entrando in un Alcatraz torrido e semi-deserto. I veementi canadesi Skull Fist sono gli opener di giornata e saltano sul palco letteralmente gasati e infoiati. Zero originalità sprigionata dai Nostri, bensì una carica devastante di adrenalina e grinta, baciata da suoni a tuono fin dal primo brano! Skid Row, Iron Maiden e i Manowar più veloci e meno epici sono i numi tutelari del gruppo di Toronto, guidato dal cantante-chitarrista Jackie Slaughter, in grado di suonare la chitarra e cantare ottimamente senza alcuna sbavatura. Non da meno sono i suoi tre pard, fra cui spiccano il batterista Jake – un traino esaltante! – e il secondo chitarrista Jonny Nesta, coadiuvatore negli assoli dello scatenato frontman. Addirittura abbiamo visto i due axe-men, in piena attitudine Eighties, prendersi uno in spalla all’altro e promulgarsi in un solo incrociato particolarmente pacchiano. La chiusura affidata all’emblematica “No False Metal” ha posto fine ad una performance breve ma che è comunque valsa il prezzo del biglietto.
(Marco Gallarati)
FUELED BY FIRE
Se per gli Skull Fist si poteva parlare di ottima revival-band, per i californiani Fueled By Fire basta mutare l’aggettivo in ‘scarsa’. Thrash metal che più thrash metal non si può, passando da Slayer a Destruction, da Metallica e soprattutto Testament, dal cui repertorio i Fueled By Fire estrapolano il 70% dei loro riff, fino ad arrivare ai Sepultura di “Schizophrenia”. L’attitudine e la passione per il genere sono assolutamente genuine – e ciò lo si scorge benissimo dal piglio con cui i ragazzi affrontano l’audience – ma anche a causa di suoni claudicanti e mai incisivi, i Fueled By Fire non ci lasciano un buon ricordo, anzi! Bisogna concedere però, a Rick Rangel e compagni, di aver generato le prime sacche di pogo della giornata nelle prime (e uniche, in pratica) file dell’Alcatraz; ma oltre a ciò veramente poco altro.
(Marco Gallarati)
TRIPTYKON
Una delle band cui sicuramente ha fatto bene lo spostamento del festival in un luogo chiuso sono i Triptykon. La formazione capitanata dalla mente dei Celtic Frost, Tom Gabriel Fischer, non avrebbe reso al meglio il proprio sound oscuro, contaminato da sonorità black, death e doom metal, se al caldo ed al sole pomeridiano. Gli svizzeri, coadiuvati da luci soffuse, offrono uno spettacolo di buon livello, in cui partiture dalle ritmiche rallentate e dall’incedere ossessivo si fondono con le vocals grezze e deliranti del succitato leader. L’influenza dei Celtic Frost è palese e non potrebbe essere altrimenti e la gente del resto, più che apprezzare, sembra quasi ipnotizzata dal mantra diabolico dei Triptykon.
(Matteo Cereda)
ALESTORM
Gli scozzesi Alestorm sono la prima band a scatenare l’entusiasmo convinto del, per la verità ancora molto esiguo, pubblico in sala. Il power metal contaminato da influenze folk è quanto di più immediato, coinvolgente e ignorante si possa pensare. Accompagnato da una buona resa sonora, il quintetto scottish imperversa con il proprio sound spensierato, in cui le tastiere perennemente giocate sui canonici giri folk la fanno da padrone su basi power metal ed un cantato grezzo e poco educato. Peccato che la buona prestazione dei ragazzi non vada propriamente di pari passo con la qualità del proprio songwriting, apparso a tratti di una pochezza e di una banalità disarmanti. Poco male, la gente sembra non accorgersene o fregarsene, divertendosi a danzare il True Scottish Pirate Metal degli Alestorm senza freni di alcun tipo.
(Matteo Cereda)
LEGION OF THE DAMNED
Ritroviamo i Legion Of The Damned neanche a quattro mesi di distanza dall’esibizione di supporto a Cannibal Corpse e Behemoth. Il loro impatto, dopo le macchiette folk Alestorm, può essere solo accrescitivo, ma il combo olandese conferma le stesse impressioni rilevate durante la precedente calata italica: sentito un pezzo, sentiti tutti. L’attacco frontale thrash-death metal è coadiuvato da un wall-of-sound efficace, ma il songwriting e la presenza scenica dei LOTD ne limitano parecchio le possibilità di pieno gradimento. Ripetitivi e quasi intestarditi nella loro ossessiva formula, potrebbero risultare vincenti se solo il vocalist Maurice Swinkels riuscisse a dare quel quid in più alla sua prestazione e alle linee vocali imbastite, invece anch’esse piatte e monocordi. Certo, il tiro e l’approccio allo stage della band è quello corretto, ma ci pare difficile per loro riuscire in futuro ad andare oltre il comunque ben svolto ruolo di gruppo-tappabuchi. Per chi si accontenta di scapocciare mezzora senza un perché, la Legione dei Dannati andrà sempre bene.
(Marco Gallarati)
HYPOCRISY
Le infernali e allo stesso tempo maestose orchestrazioni di “Fractured Millennium” introducono sul palco gli attesi Hypocrisy, anticipati dalla gigantografia dell’ultimo “A Taste Of Extreme Divinity” (2009) sullo sfondo. La band svedese è alcuni anni che manca dall’Italia e, pur non avendo prodotto alcun nuovo disco negli ultimi tre, rimane una delle realtà storiche del death metal europeo. Il gruppo appare sin dalle prime battute concentrato, tuttavia l’acustica non sembra impeccabile e ciò, anche con il passare dei minuti pur migliorando, non permetterà al pubblico di godere a pieno dello spettacolo, esaltando il drumming impeccabile del batterista Horgh e le vocals taglienti del leader Peter Tagtgren a discapito delle preziosissime trame chitarristiche. Pezzi come “Killing Art”, “Pleasure Of Molestation” o “Adjusting The Sun”, ad esempio, mostrano un impatto devastante, ma per chi non conosce il brano diventa difficile apprezzare le sfumature sonore al di là della pura violenza. Meglio dunque quando la band si cimenta in mid-tempo atmosferici come “The Final Chapter”, in cui le basi di tastiera si fondono perfettamente con le chitarre e le vocals allucinate di Tagtgren. La chiusura dello spettacolo è affidata all’immancabile classico “Roswell 47”, il pubblico applaude soddisfatto, ma il rammarico per un’esibizione che, con una resa sonora migliore, avrebbe potuto esser di ben altro spessore, ebbene resta.
(Matteo Cereda)
ANTHRAX
Il pubblico del Metalfest tocca, in questo primo giorno, l’apice numerico proprio al cospetto degli Anthrax. La band statunitense ha recentemente pubblicato il nuovo “Worship Music”, come dimostra la colorata coreografia sullo sfondo, ma la partenza è con un classico del calibro di “Caught In A Mosh”, che scatena subito l’inferno in sala. Il sound sprigionato dalle casse appare ben bilanciato, con le chitarre di Ian e Caggiano a duellare supportate dalla devastante sezione ritmica composta dal duo Bello-Benante, rispettivamente basso e batteria. Gli occhi sono tutti puntati sul singer Joey Belladonna, che in questa occasione smentisce gli scettici con una buona prestazione vocale accompagnata dal consueto grande spettacolo scenico e di intrattenimento. Nell’ora abbondante a disposizione, gli Anthrax prediligono i classici, raccogliendo consensi a dismisura durante le ottime riproposizioni di “Antisocial”, “Indians” ed “Among The Living”, pur non dimenticando l’ultima recente release tributata con un paio di estratti quali “Fight ‘Em Till You Can’t” e “The Devil You Know”. Nel finale tuttavia, sono ancora i classici a salire in cattedra, scatenando l’headbanging generale con “Madhouse” e “I Am The Law”, degni sigilli di uno spettacolo che potrebbe già rappresentare il picco dell’intera giornata.
(Matteo Cereda)
Setlist
Caught In A Mosh
Got The Time
Fight’em Till You Can’t
Antisocial
Indians
The Devil You Know
Among The Living
Madhouse
I Am The Law
BLIND GUARDIAN
Gli Anthrax hanno dato una sveglia globale al pubblico del Metalfest, che però, almeno in qualche sua unità, ha preferito abbandonare la venue prima dell’esibizione degli headliner della giornata, i teutonici Blind Guardian, segno piuttosto evidente della poca propensione dell’audience italiana verso i festival multi-genere, tanto educatamente apprezzati invece all’estero. Hansi Kursch, André Olbrich, Marcus Siepen, Frederik Ehmke e i due musicisti live Oliver Holzwarth (basso) e Mi Schuren (tastiere), meglio conosciuti globalmente come Blind Guardian, puntano sulla sobrietà di una scenografia rappresentata soltanto da un immenso drappo alle spalle del palco e, dopo la sezione orchestrale di introduzione, attaccano con l’epica “Sacred Worlds”, imponente opener dell’ultimo “At The Edge Of Time”. I suoni sono precisi e puliti – sebbene le tastiere e in parte le chitarre risulteranno un po’ penalizzate dal mix generale – Ehmke è una macchina da guerra, lo show è minimale, ma la simpatia e l’umiltà di Hansi Kursch condiscono alla perfezione ciò che permette ai Blind Guardian di sbaragliare la concorrenza odierna, ovvero un repertorio assolutamente incredibile! Gli astanti tributano alla band di Krefeld osanna continui e molto spesso i brani sono accompagnati, od addirittura eseguiti, dal pubblico soltanto – emblematico il finale di “Valhalla”, allungato a dismisura grazie all’aiuto di una platea intonata e coinvolta, ancor più che sulla ballad per eccellenza del gruppo, “The Bard’s Song – In The Forest”. Le canzoni di “Nightfall In Middle-Earth” e “Imaginations From The Other Side” sono ancora quelle che più trascinano e oggi il Guardiano Cieco ha eseguito, fra queste, probabilmente le migliori: “Nightfall”, il delirio “Time Stands Still (At The Iron Hill)”, “Imaginations From The Other Side”, “Into The Storm” e nei bis i capolavori assoluti “Bright Eyes” e “Mirror Mirror”. Davvero una setlist da apoteosi, in cui ha anche trovato spazio un episodio mai proposto dai tedeschi in Italia, “The Last Candle”. Da lacrime, invece, il siparietto folk-acustico composto da “A Past And Future Secret” e “Lord Of The Rings”. Hansi, da quando ha abbandonato il basso, educando la voce e accumulando esperienza, dal vivo è quasi una sicurezza, considerando la difficoltà delle sue parti vocali. Poco altro da dire, quindi, per una performance praticamente perfetta, giocata su pochi fronzoli e sulla sostanza di una discografia, in ambito power metal, realmente imbattibile. Ottimi!
(Marco Gallarati)
Setlist
Sacred Worlds
Welcome To Dying
Nightfall
Fly
Time Stands Still (At The Iron Hill)
Tanelorn (Into The Void)
Majesty
The Last Candle
Valhalla
A Past And Future Secret
Lord Of The Rings
Imaginations From The Other Side
War Of Wrath / Into The Storm
The Bard’s Song – In The Forest
Bright Eyes
Mirror Mirror
VADER
IN EXTREMO
GRAND MAGUS
Forti dell’ennesimo bersaglio centrato con il recente “The Hunt”, i Grand Magus hanno la ghiotta occasione di confermare dal vivo quanto di buono sono riusciti ad imprimere nei solchi degli ultimi tre capitoli discografici. E le nostre attese non sono andate affatto deluse, in quanto il power-trio svedese ha dimostrato di avere i giusti attributi di una hard rock band che mescola ed unisce sapientemente atmosfere doomy ed un riffing squisitamente classico, che rimanda alla vecchia scuola del genere. Dietro il drumkit del nuovo arrivato Ludwig Witt (già al lavoro con realtà nord europee come Spiritual Beggars e Shining) svetta fiero un grosso telone raffigurante la bandiera svedese. Capitanata dal carismatico JB Christoffersson, la band si è resa protagonista di una prestazione solida ed ispirata. Sin dalle prime battute, abbiamo constatato di avere a che fare con una formazione in palla, consapevole dei propri mezzi e che ha snocciolato con la giusta perizia una serie di riff massicci ed assolo ispirati, che hanno fatto da tappeto alle tematiche mitologiche di “Valhalla Rising” e “Hammer Of The North”. Il frontman si è destreggiato con bravura nel tessere le possenti architetture ritmiche, supportate da un motore pulsorio al cemento armato, in grado di garantire un quadro sonoro compatto e granitico. I caldi soli di chitarra e l’ugola imperiosa e melodica al tempo stesso di JB sono riusciti nell’impresa di conquistare i favori del pubblico, letteralmente rapito dalle note conclusive di “Iron Will”, note che hanno salutato un’esibizione senz’altro positiva. Siamo convinti che in un piccolo club i Nostri possono fare ancora meglio. Promossi.
(Gennaro Dileo)
POWERWOLF
Giunti alle soglie del decimo anno di attività, i tedeschi Powerwolf rileggono le sonorità sontuose del power metal di matrice europea con tronfie partiture orchestrali e liturgiche dettate dalle tastiere di Falk Maria Schlegel. Curiosamente proprio quest’ultimo è assente in questa data a causa di non precisati motivi di salute, che fortunatamente però non gli impediranno di proseguire il tour europeo. Di conseguenza, spetta ai musicisti integrarsi alla perfezione nelle basi preregistrate e dobbiamo ammettere che nel complesso il quartetto ha eseguito il proprio compito con sufficiente trasporto, seppur non privo di sbavature soprattutto a livello vocale (abbiamo udito ben più di una stecca del cantante Attila Dorn). Ciò che ci lascia a dir poco perplessi è il pastone indigesto cucinato dai Nostri, che al suo interno mescola tematiche traboccanti di satanismo all’acqua di rose, chorus oltremodo fiacchi e ridondanti, infiocchettati da un gusto melodico e compositivo quantomeno discutibile. Canzoni come “We Drink Your Blood”, “Resurrection By Erection” e “Saturday Satan” riescono sì a scatenare l’entusiasmo dei presenti, ma d’altro canto non possiamo non chiudere gli occhi dinanzi ad episodi così banali e grotteschi. Intendiamoci: ben venga il sense of humour divertente e ben congegnato, ma in questa occasione non abbiamo trovato nulla di tutto ciò, ed alla fine, del loro set, abbiamo avuto l’impressione di assistere ad una vera e propria pagliacciata, peraltro neanche divertente. Brividi…
(Gennaro Dileo)
BEHEMOTH
Dalle stalle alle stelle. Questa è la semplice ma significativa considerazione finale da noi tracciata, dopo aver avuto modo di assistere ad un concerto così dannatamente intenso ed ispirato. Il caos organizzato trasposto in musica da Nergal e soci non lascia prigionieri e sin dalle prime battute della spaccaossa “Ov Fire And The Void” veniamo piacevolmente investiti dal blackened death metal tecnico nella struttura e furioso nelle ritmiche dettate da un Inferno in stato di grazia. Il macabro growl di Nergal – spesso irrobustito dagli interventi di Orion e Seth – non mostra segni di cedimento, nonostante il leader abbia recentemente lottato con successo per rimanere in vita contro una tremenda leucemia e la conseguente lunga convalescenza. Evidentemente, queste avversità hanno donato nuova linfa e inspessito la corazza del frontman, capace di rivelarsi ancor di più un vero e proprio mattatore, aizzando di continuo la folla entusiasta ai suoi piedi; e così “At The Left Hand Ov God” e “Slaves Shall Serve” assumono le sembianze di un fiume di lava incandescente. La conclusiva “Lucifer” assume invece le parvenze di un paranoico ed oppressivo rituale che ha il compito di intorpidire i nostri sensi, per accompagnarci lentamente verso un finale marziale e sofferto. La sorprendente pioggia di coriandoli, sparati in aria da un apposito congegno, spezza l’atmosfera malsana creatasi poc’anzi e, senza neanche rendercene conto, la band ha abbandonato il palco tra forti applausi…
(Gennaro Dileo)
W.A.S.P.
Ai Principi del più sguaiato, violento ed irriverente shock rock, tocca il compito oneroso di riscaldare la platea in trepidante attesa dei celebri thrasher americani, e possiamo serenamente affermare che le nostre speranze di assistere ad un grande show sono state ben ripagate oltre ogni più rosea aspettativa. Capitanati dal carismatico ed egocentrico Blackie Lawless, gli W.A.S.P. godono di una line-up più o meno stabile, con Doug Blair alla chitarra solista, Mike Duda al basso e Mike Dupke dietro le pelli. Consapevole che i tempi d’oro sono oramai definitivamente andati, a causa di un’ispirazione compositiva a dir poco altalenante, Blackie sceglie di regalare al pubblico una scaletta incentrata esclusivamente sui primi cinque irripetibili album. Una finta intro radiofonica sparata a tutto volume – nella quale cogliamo in maniera distinta alcuni estratti delle hit più celebri – fa da preludio alla comparsa sul palco della band, accolta da un forte boato e dai pugni dei presenti che si alzano in cielo. Il leader appare francamente oltremodo gonfio e fuori forma, ma in questa occasione ha dimostrato di possedere ancora un’ugola graffiante e che ha concesso ben pochi cali di tensione. Il trittico iniziale “On Your Knees”, “The Real Me” (cover degli inglesi The Who) e “L.O.V.E. Machine” ha mozzato semplicemente il fiato, sia per la caratura insita nel songwriting, sia per la prestazione di una band coesa e consapevole dei propri mezzi. Per nostra fortuna, si evita di rievocare i celebri e truculenti show che hanno reso celebre nel passato gli W.A.S.P., per sparare dagli amplificatori un rock’n’roll ad altissimo voltaggio. Se il furioso medley composto da “Hellion / I Don’t Need No Doctor / Scream Until You Like It” ci catapulta nell’epoca d’oro dell’hard rock, le ruvide ed infuocate “Crazy” e “Babylon’s Burning”, estratte dall’ultimo studio album “Babylon”, ben rappresentano ciò che sono attualmente gli W.A.S.P.. Come ciliegina sulla torta, i Nostri piazzano la toccante ballata “The Idol”, estratta dalla rock opera “Crimson Idol”, mentre l’ovvia conclusione spetta alla sing-a-long “I Wanna Be Somebody”, nella quale il frontman incita il pubblico a far sentire la propria voce. Semplicemente il miglior concerto della giornata.
(Gennaro Dileo)
Setlist
On Your Knees
The Real Me
L.O.V.E. Machine
Crazy
Wild Child
Hellion/I Don’t Need No Doctor/Scream Until You Like It
Babylon’s Burning
The Idol
I Wanna Be Somebody
MEGADETH
Giunti al capolinea della seconda giornata di questo evento, è arrivato il momento di accogliere la mitica thrash metal band di Los Angeles, pronta a darci l’ultima scarica di adrenalina di quest’oggi. Guidati dal carismatico, controverso e lunatico leader Dave Mustaine, i Megadeth ci regalano uno spettacolo intenso, serrato, ma decisamente troppo breve, in quanto, dopo solo un’ora e dieci minuti, i Nostri si sono congedati, comunque tra copiosi applausi della folla. La setlist è divisa in maniera calibrata ed intelligente, in modo da accontentare un po’ tutti, spaziando tra i vecchi cavalli di battaglia e gli episodi più recenti, che nel bene e nel male hanno segnato la seconda parte della carriera della band americana. “Never Dead”, “Whose Life (Is It Anyways?)” e “Public Enemy No. 1” sono i tre estratti scelti dal nuovissimo capitolo ‘Th1rt3en’ e, seppure vengano accolti con un certo calore dai presenti, appare evidente che i fan sono pronti a dare di matto per i brani più celebri. Difatti, le dinamiche contorte e diaboliche di “Hangar 18” e “Poison Was the Cure” riscuotono una meritata ovazione, mentre dal best seller “Countdown To Extinction” viene ripescata a sorpresa “Ashes In Your Mouth”, che forma il tris con le ben più celebri “Symphony Of Destruction” e “Sweating Bullets”. Trovano spazio anche il noto mid tempo di matrice radio-friendly “Trust”, che dopo parecchi anni è entrata di diritto nei classici dei ‘Deth, e la più rude “She-Wolf”, entrambe tratte dal non irresistibile ‘Cryptic Writings’. Annotiamo con soddisfazione che la voce di Mustaine – seppure con tutti i suoi conosciuti limiti – ha retto discretamente per tutto il gig, ma ci troviamo costretti a sottolineare che l’acustica è stata tutt’altro che impeccabile, penalizzando soprattutto le fantasiose svisate soliste di Chris Broderick. D’altro canto, il bassista Dave Ellefson non ha smesso un secondo di incitare il pubblico, mentre Shawn Drover ha svolto il suo lavoro dietro le pelli in maniera encomiabile. La chiusura è affidata alla terremotante “Peace Sells”, siparietto perfetto per la comparsa della mascotte Vic Rattlehead, e all’eclettica encore “Holy Wars…The Punishment Due”, coronante uno show sicuramente imperfetto ma più che soddisfacente. Applausi meritati.
(Gennaro Dileo)
Setlist
Never Dead
Head Crusher
Hangar 18
She-Wolf
Trust
Dawn Patrol
Poison Was The Cure
Sweating Bullets
Ashes in Your Mouth
Whose Life (Is It Anyways?)
Public Enemy No. 1
Symphony Of Destruction
Peace Sells
Holy Wars… The Punishment Due
STEELWING
BRAINSTORM
DEATH ANGEL
Straordinario, semplicemente straordinario. Non riusciamo a trovare un aggettivo più idoneo per descrivere l’esperienza vissuta in questo concerto. I Death Angel si sono formati nel lontano 1982 e nel giro di pochi anni hanno inciso lo staordinario album di debutto “The Ultra-Violence”, autentica opera d’arte traboccante del miglior thrash metal tecnico, supersonico, melodico ed ispirato mai partorito dalla Bay Area. Difatti, la scaletta è incentrata esclusivamente sulla riproposizione di questo platter, suonato con una perizia tecnica ed un feeling a dir poco impressionanti. Sin dalle prime note del manifesto “Thrashers”, si scatena un’autentica bolgia sotto il palco e per una volta ci svestiamo volentieri dai panni grigi della critica per vestire in jeans aderenti e giubbotto con le toppe per fiondarci in un caloroso pit. A dir poco impressionante la performance di Rob Cavestany, in grado di esaltare con un’abilità fuori dal comune la sua tecnica sopraffina, mostrando altresì un gusto pazzesco nel disegnare una cascata di riff e lick senza mostrare un minimo di incertezza. Al tempo stesso, il frontman Mark Osegueda dimostra di essere un cavallo di razza, magnetizzando nel giro di pochi secondi l’attenzione dei presenti sulla sua performance a dir poco grintosa e passionale. Tra gli highlight dell’esibizione, optiamo senza alcun timore per la maestosa e progressiva title-track – un intenso e mirabolante episodio strumentale, nel quale prendono vita una moltitudine di geniali e camaleontici affreschi, impegnando in un intenso tour de force i musicisti – e per “Voracious Souls”, un entusiasmante tourbillon di note lanciate alla velocità della luce, fuse con maestria ad intense linee vocali, graziate da un senso melodico sopraffino. Dieci e lode.
(Gennaro Dileo)
DARK TRANQUILLITY
La storica melodic death metal band svedese, nel corso degli ultimi due lustri, ha conquistato ampiamente i favori del pubblico nostrano grazie ad una serie di dischi intensi ed ispirati, nonchè ad una forte presenza sui palchi dei club sparsi sul suolo italico. Di conseguenza, il sestetto scandinavo era sicuramente una delle realtà più attese di questa giornata e, nonostante la loro indubbia e provata abilità nel forgiare trame energiche intinte in un accattivante mood malinconico, ci ha lasciato con un pizzico di amaro in bocca. Intendiamoci: la performance dei Dark Tranquillity è stata pregevole oltre ogni dubbio, baciata da una coesione collettiva a dir poco invidiabile, ma ci saremmo aspettati una scaletta più variopinta e che avrebbe avuto il merito di soddisfare il palato di tutti. Così non è stato, dato che i Nostri hanno preferito incentrare il loro set sugli episodi più soffusi della loro nutrita discografia: accanto alle dinamiche “The Treason Wall” e “Final Resistance”, estratte da “Damage Done”, hanno infatti trovato spazio le melodie intime ed oscure di “Misery’s Crown” e “The Mundane And The Magic”. La resa vocale del frontman rosso crinito Mikael Stanne non ha subito alcun calo di tensione per tutto il set, dimostrando di saper graffiare ed ammaliare a seconda delle necessità, e al tempo stesso di interagire con trasporto nei confronti delle prime file incantate dalle composizioni qui proposte. Curiosamente e un po’ sarcasticamente, l’unica vera e propria novità proposta dalla band ha riguardato il chitarrista Martin Henriksson, che ha deciso di sacrificare i suoi rasta a favore di una più comoda rapata a zero. A questo punto rimaniamo in attesa del nuovo album previsto per il prossimo anno e chissà che i Dark Tranquillity non decidano di tornare a picchiare duro.
(Gennaro Dileo)
ENSIFERUM
Con una posizione in scaletta decisamente generosa rispetto a nomi storici come Death Angel e Dark Tranquillity, ma giustificata da un buon supporto da parte dei propri sostenitori, gli Ensiferum entrano in scena con il loro trucco da battaglia sulle note della intro “By The Dividing Stream”. La band va sul sicuro e con la catchy “Twilight Tavern” fa subito presa sul pubblico nonostante i suoni non siano al meglio. Il volume, in particolare, a centro sala appare piuttosto basso. Anche l’esecuzione non è priva di sbavature, ma col passare dei minuti le cose migliorano e lo show ci riserva anche una sorpresa gradita dai fan presenti: un nuovo brano intitolato “Burning Leaves”. Il pezzo è un mid tempo nel classico stile del gruppo, con una melodia portante molto diretta e un ritornello corale in voce pulita. Ovviamente da risentire sul nuovo album, ma la prima impressione è stata positiva. Tra i momenti migliori della performance anche “From Afar”, title-track dell’ultimo e convincente lavoro in studio, che dal vivo ha sempre un’ottima resa sebbene supportata da cori registrati, la danzereccia “One More Magic Potion” e la conclusiva, immancabile “Iron”. Esibizione quindi complessivamente più che discreta, anche se la scarsità di pubblico presente al festival non ha certo fornito una cornice ideale.
(Alessandro Corno)
Setlist
By The Dividing Stream
Twilight Tavern
Tale Of Revenge
Ahti
Token Of Time
Burning Leaves
From Afar
One More Magic Potion
Iron
KYUSS LIVES!
Davvero azzardato, ma intrigante, l’inserimento dei campioni del più torbido e bollente stoner rock in un bill sì assortito, ma squisitamente metal nel senso più stretto del termine. Riusciranno i nostri eroi a fare breccia nei cuori dei metallari duri e puri, in attesa di farsi sbattere al muro dal thrash supersonico dei Kreator? Assolutamente no. Ma è un vero e proprio peccato, dato che la band (o meglio la reincarnazione di essa, rivitalizzata dall’assenza dell’ombra ingombrante della prima donna Josh Homme e recentemente lasciata a piedi dal bassista Nick Oliveri, arrestato per una presunta e brutta storia di violenza domestica) si è resa artefice di una prestazione a dir poco incredibile. Il suono rovente e pachidermico eruttato dai Nostri è risultato indigesto alla gran parte dei presenti e le pur lecite contestazioni sono state prima soffocate e poi spazzate via da un monolitico e travolgente magma sonico. L’esibizione – prevalentemente incentrata sul torrenziale capolavoro ‘Welcome To Sky Valley’ – ha letteralmente intorpidito la platea, probabilmente impreparata a sopportare il groove asfissiante che costituisce la spina dorsale dei brani. Sono bastati un basso, una chitarra ed una batteria suonati con un’intensità pazzesca e ad un volume esagerato, per assumere l’inquietante forma di un implacabile panzer volto a sterminare ogni rivolo di adrenalina. Lo stralunato batterista Brant Bjork ha pestato come un fabbro infaticabile sulle pelli, fungendo da vera e propria locomotiva ritmica assieme ai feedback e alle note slabbrate partorite dal nuovo bassista Billy Cordell. La strumentale “Asteroid” ha causato lo stesso effetto di un violento cazzotto sulle gengive, mentre l’epica “Whitewater” ha assunto la forma di un’estenuante ed infinita marcia nel deserto. Il riffing secco e urgente di “One Inch Man” e “Green Machine” fornisce qualche minuto di ossigeno, che assume l’illusione di una refrigerante oasi asciugata dalle architetture elefantesche di “Supa Scoopa And Mighty Scoop” e “Thumb”. Quando i Nostri abbandonano la scena, una buona fetta del pubblico tira un sospiro di sollievo, ma improvvisamente la band rientra silenziosamente sul palco e ci appioppa ben quattro bis, proseguendo la massacrante odissea sonora che ci trasporta lentamente alla fine di questo ipnotico viaggio. Grandiosi.
(Gennaro Dileo)
Setlist
Hurricane
One Inch Man
Gardenia
Asteroid
Supa Scoopa And Mighty Scoop
Thumb
Green Machine
Freedom Run
Whitewater
El Rodeo
100°
Molten Universe
Conan Troutman
Spaceship Landing
Odyssey
KREATOR
Ore 22, l’ultimo atto del Metalfest sta per andare in scena e l’afflusso di pubblico che ci si attendeva non si è verificato. Qualche centinaio di persone assiepa le prime file, mentre già in zona mixer regna un vuoto a dir poco desolante, considerata la caratura dell’headliner, a detta di chi scrive la miglior formazione europea thrash metal di sempre. I Kreator dal vivo sono una garanzia, ma il pubblico italiano sembra proprio aver disertato in massa l’appuntamento e probabilmente su questo ha pesato il poco simpatico spostamento della band dalla giornata del 6 a quella del 7 giugno, quando già le vendite dei biglietti erano state aperte. Mille Petrozza e compagni non sembrano però badare più di tanto alla quantità di pubblico presente e con l’accoppiata “The Patriarch” – “Violent Revolution” danno inizio ad uno show devastante. Suoni dapprima discreti, che verranno ottimizzati nell’arco di pochi minuti, e una scenografia spettacolare che richiama l’ultimo lavoro in studio, “Phantom Antichrist”. Teli raffiguranti parti di artwork del disco e giochi di luce costituiscono una cornice suggestiva e dal retrogusto maligno, per un’esibizione che ha ben pochi difetti. Petrozza è in forma e il resto della formazione viaggia sui buoni standard a cui ci ha abituato. La setlist nella prima parte è un’alternanza di brani più o meno recenti e pezzi storici. Travolgenti “Hordes Of Chaos” e “Extreme Aggression”, sulle quali domina un pogo furioso, e il tiro micidiale delle meno violente “Phobia” e “People Of The Lie”. Solo due i nuovissimi brani proposti: la title-track “Phantom Antichrist”, che si conferma una mazzata nei denti in grado di mandare il pubblico in delirio, e l’anonima “From Flood Into Fire”, che invece non coinvolge più di tanto, rivelandosi come da previsioni un brano dallo scarso mordente anche in sede live. Si torna al passato con “Terrible Certainty”, mentre “Enemy Of God” e “Voices Of The Dead” ci riportano al recente passato prima di una parte finale di show interamente dedicata ai classici. Mille Petrozza, dalla sinistra penombra di un faro rosso che lo illumina dal basso verso l’alto, è un maestro nel fomentare il pubblico e introduce questa terrificante sequenza di cavalli di battaglia ordinando il più grande pogo possibile. I presenti lo accontentano e con “Endless Pain”, “Pleasure To Kill” e “Terrorzone” davanti al palco si apre un enorme cerchio che diventa un campo di battaglia per i più esagitati. “Betrayer”, “Flag Of Hate”, con tanto di circle-pit a centro platea, e “Tormentor” concludono lo show con Petrozza che, ringraziando, promette un ritorno sui palchi italiani tra novembre e dicembre 2012. Le luci si spengono e così termina la prima, e per vari aspetti negativa, esperienza italiana del Metalfest, un festival che è stato in parte salvato solo dalla qualità delle esibizioni offerte dalle band presenti tra cui, appunto, i Kreator. Non resta quindi che attendere l’annuncio della data italiana del tour invernale, la vera occasione per vedere questa grande band in azione con tutto il suo potenziale di fronte al proprio pubblico.
(Alessandro Corno)
Setlist
The Patriarch
Violent Revolution
Hordes Of Chaos
Phobia
Phantom Antichrist
Extreme Aggression
People Of The Lie
From Flood Into Fire
Terrible Certainty
Enemy Of God
Voices Of The Dead
Endless Pain
Pleasure To Kill
Terrorzone
Betrayer
Flag Of Hate
Tormentor