12/07/2004 - MONSTERS OF ROCK 2004 @ Stadio "G. Sinigaglia" - Como

Pubblicato il 24/07/2004 da

A cura di Francesco Colombo

Ma quale Monsters Of Rock? Me lo sono chiesto non appena letti i nomi dei gruppi che avrebbero accompagnato i Deep Purple nel loro tour europeo del 2004. Tutto sommato, di rock allo stadio di Como se ne è sentito; di mostri sacri se ne sono visti!
La giornata del 13 luglio inizia con una serie di interrogativi e di dubbi, a cominciare dall’orario di apertura dei cancelli: stando alle varie e frammentarie informazioni, l’apertura avrebbe dovuto essere tra le 15 e le 17.30; alla fine, alle 17 viene aperto l’unico cancello di accesso allo stadio… pardon, al RETRO dello stadio: il palco è infatti rivolto verso l’esterno, di fronte a due tribune che lasciano uno spazio ristretto per il “prato” – coperto da una protezione per l’erba – e che rimangono separate dal palco da un’alta e fastidiosa rete, come in un campo da tennis. Altro punto di domanda: le condizioni climatiche. Osservando il colore del cielo, c’è poco da stare tranquilli; in ogni caso, verso sera le nuvole si dissolvono, così come le nostre paure. Ma la questione più importante è cosa ci saremmo dovuti aspettare da questo festival. Ebbene, i Settevite non ci hanno dato molte speranze: il loro repertorio, un rock molto moderno, ammiccante alle nuove tendenze nu-metal e con qualche reminiscenza grunge, lascia l’amaro in bocca al poco numeroso pubblico già presente; nemmeno la scelta della cover proposta è felice: una canzone dei Matia Bazar che nessuno ha voglia di cantare. Insomma, nessun oltraggio alla band – che, comunque, ha dimostrato di saper suonare – ma nemmeno alcun entusiasmo.

Si monta poi il palco per i Cheap Trick. Il sottoscritto non li conosce affatto; un ragazzo mi chiede se può seguire quel concerto dalle transenne, se posso cedergli il mio posto. Gli leggo negli occhi quello stesso bagliore che, immagino, si accende anche nei miei quando parlo dei Deep Purple; come posso non accontentarlo? Mi racconta qualcosa del gruppo, di come siano i migliori per lui. Di come siano ironici e auto-ironici. Ma solo quando li ho visti suonare ho capito: mi hanno davvero divertito, con tutti quei cambi di chitarra, con le docce di plettri, con le loro canzoni trascinanti e con quel tanto di punk attitude che non infastidisce.

Altra pausa, e ci si prepara per gli Status Quo. Torno al mio posto, il ragazzo corre a inseguire i suoi idoli nel backstage. Una distinta signora inglese ultracinquantenne attende impaziente in prima fila. I cinque entrano in scena dopo una breve intro, che viene ripetuta, per qualche problema tecnico. Ma gli inconvenienti non sono finiti: per buona parte della prima canzone manca la voce. Viene sostituito in fretta e furia un microfono e tutto si sistema, tra i sorrisi e gli sguardi divertiti del gruppo. Il concerto scorre piacevolmente, guidato da sani riff di puro rock’n’roll; un po’ ripetitivi, ma abbastanza coinvolgenti. Dopo aver giocato fra loro e scherzato, essersi suonati a vicenda le chitarre e aver fatto dondolare i propri strumenti tra le gambe, gli Status Quo si concedono anche un breve bis, e ci salutano definitivamente. Ora sta calando l’oscurità, e non è altro che un’ombra violacea…

DEEP PURPLE

Con l’aiuto di qualche altro fanatico, appendo uno striscione davanti al palco: “Our heart is purple”. Di fianco a me, dei ragazzi di 17 anni ne appendono uno grande il doppio. Intanto, il palco si colora di viola, puntellato da qualche banana sotto l’imponente batteria di Ian e la postazione di Don. Non credo ancora di poterli vedere da così vicino! I cinque entrano in scena tra i suoni di un’introduzione a “Silver Tongue”; devo ammettere che non mi piace molto come pezzo d’apertura, e che, oltretutto, è stato eseguito in una versione piuttosto “lenta” o, comunque, non troppo spinta. Sotto il palco c’è un brulicare di fotografi; c’è anche una telecamera che riprende che, dopo i primi pezzi, perdo di vista. Parte “Woman From Tokyo”, e cantiamo tutti a squarciagola; alla fine, Gillan ci ringrazia con uno dei suoi potenti e inarrivabili “thank you”, per poi trascinarci nel ritmo coinvolgente della nuova “I Got Your Number”. Mentre introduce “Strange Kind Of A Woman”, Ian firma un foglietto che era stato lanciato sul palco, e poi lo rilancia tra il pubblico (ma non ci arriva). In questo brano, il preciso Ian Paice si esibisce in un primo e breve assolo di batteria.
La prima parte del concerto è, come avrete capito, un’altalena tra classici e brani tratti da “Bananas”, con una band compatta e decisa. I cinque propongono anche la title-track dell’ultimo album, un pezzo veloce, dalla complicata sezione ritmica e con un duello mozzafiato tra chitarra e organo. Un cupo suono di tastiera ci lancia, poi, in “Knocking At Your Back Door”, che da tempo – in Italia – mancava nella setlist dei Deep Purple. Il riff principale è eseguito da Morse con un’energia molto intensa, e, nella parte finale, un Gillan in formissima ci regala delle urla strazianti. Altra gradita sorpresa della serata, sempre introdotta dai fantastici suoni di Don Airey, è “Demon’s Eye”, un potente rock-blues, che fa saltare tutta la platea al ritmo delle note del basso di Roger Glover.
L’atmosfera, finalmente, si rilassa un attimo, ma si intristisce: Gillan, accovacciato al centro del palco, ricorda la strage dello shuttle Columbia, avvenuta nel 2003, che ha ispirato il brano che sta per essere eseguito. Si tratta di “Contact Lost”, un pezzo di chitarra molto drammatico ed evocativo. Steve attacca con una sbavatura, e possiamo leggere il suo rammarico nell’espressione del viso. Ma sa farsi perdonare: con le sue magiche dita, che accarezzano il pomello del volume della Musicman e solleticano il suo manico, il biondo chitarrista ci conduce da un brano così struggente all’eclettismo più assoluto, trascinando la band in una magistrale esecuzione di “The Well Dressed Guitar”. E’ poi il turno di Don Airey, che fa sfoggio del suo bagaglio classico e si esibisce prima alle tastiere, poi all’hammond. Il tutto introduce una massiccia “Perfect Strangers”, che è solo la prima di una serie micidiale di classici. Infatti, sui colpi di una familiare rullata di Paice, Glover e Morse – duetto insolito – iniziano a giocare con le loro corde, e partono con una fulminante “Highway Star”, che fa scatenare il pubblico. Gli assoli di tastiera e chitarra sono, come di consueto, per questo brano, fedeli all’originale. E’ quindi Airey il re della scena, mentre costruisce con l’organo il tema di “Lazy”; quando Steve ne suona il riff principale è il tripudio, e il pubblico va in visibilio. Intanto, Ian Gillan urla e soffia nella sua armonica, e Ian Paice fa fuochi d’artificio con un magistrale assolo di batteria.
E’ giunto il momento di alzare il piede dall’acceleratore: viene proposta una splendida versione di “When A Blind Man Cries”. Strutturalmente simile all’originale, il brano assume un carattere più sommesso rispetto alle liriche versioni di “Olympia ‘96” o di “Perihelion”. Anche l’assolo di Morse è molto essenziale e delicato, da togliere il fiato. In assoluto, uno dei migliori brani della serata, per la carica empatica che ha esercitato sul pubblico, o, almeno, sul sottoscritto. In ogni caso, sia Gillan che Morse sembrano essere impressionati a vicenda dalla resa del brano, e si scambiano vivi complimenti. Tra l’altro, durante il concerto, spesso la band ha osservato e indicato il pubblico, sia in platea che sulle tribune, con aria di soddisfazione. Ma torniamo a noi: “un’altra canzone che era con il Columbia”, dice Gillan per introdurre “Space Truckin’”, e tutti ci mettiamo a saltare come dei matti (non prima di qualche gesto scaramantico). Poi, le luci si spengono e, senza un attimo di respiro, parte il riff di “Smoke On The Water”, che cantiamo dalla prima all’ultima parola. La band lascia quindi il palco, tra gli applausi generali. Ma, subito, torna indietro per regalarci una strabiliante versione della vecchia “Hush”, che sfuma in una base ritmica a noi tanto cara… Roger Glover è sotto i riflettori e martella le corde del suo Vigier; poi, senza nemmeno accorgersene, si ritrova a suonare il riff di “Black Night”. Allora ci dà dentro, e le casse sputano un suono così secco e cattivo da fare invidia a Lemmy. Si unisce infine a lui tutta la band per questo brano storico. Steve ci regala gli ultimi numeri della serata, e, con le sue plettrate micidiali, ingaggia un karaoke con il pubblico. Gran finale di ritorno su “Black Night”; poi, i cinque abbandonano definitivamente la scena, ma sembrano soddisfatti. Non più di tutti noi.

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