A cura di Luca Filisetti
Sulla carta questa Metal Fest 2008 era una ghiottissima occasione per vedere all’opera cinque band di valore assoluto, a partire dai veterani Morbid Angel e Marduk fino ad arrivare agli Arsis ed ai Keep Of Kalessin, da pochi anni balzati agli onori della cronaca, passando per i lanciatissimi Kataklysm. Se musicalmente il live non si discute (solo gli Arsis hanno parzialmente deluso, ma c’erano le attenuanti del caso), a livello di sonorità siamo andati incontro ad un mezzo disastro che ha inficiato pesantemente in primo luogo la performance dei Marduk e poi anche i due opening act. Il Rolling Stone, praticamente vuoto alle 18, si è via via riempito fino ad essere stipato quasi in ogni posto durante il live dei Kataklysm. La security, durante gli ultimi due set, ha avuto il suo bel da fare a cercare di contenere i continui tentativi di surfing e di stage diving, e a un certo punto si è sfiorata la rissa tra il pubblico ed i buttafuori, peraltro subito sedata da Maurizio Iacono con l’antica tecnica del “volemose bene”. I verdetti usciti dalla serata sono comunque la fotografia di una scena estrema in palla come non mai negli ultimi anni e mostrano, se mai ce ne fosse bisogno, che nonostante l’ottima prova soprattutto dei Kataklysm, i Morbid Angel dal vivo sono su un altro pianeta. Di seguito il dettaglio del concerto band by band.
ARSIS
Sono le 18 precise quando gli americani Arsis fanno il loro esordio assoluto sul suolo italico. I ragazzi, come un po’ tutti gli altri gruppi, presentano sin da subito dei problemi di sound che inficiano non poco la loro prova. Il loro set è composto da sei canzoni per un totale di 25 minuti: un tempo esiguo che i nostri non mettono a frutto nel migliore dei modi. Oltre ai già citati problemi di suono, gli Arsis pagano i cambi di line up che hanno semirivoluzionato la band e soprattutto il drummer David Kincade (Malevolent Creation, Borknagar) non è ancora perfettamente in grado di riproporre i funambolismi di Darren Cesca. Ad ogni modo, da rimarcare soprattutto la performance perfetta del leader James Malone, a suo agio sia come singer che come lead guitar e che sul palco ricorda un po’ Alexi Laiho; un vero uragano invece il bassista Nick Cordle, che si dimena in continuazione, a differenza del secondo chitarrista Ryan Knight, una specie di statua di sale. I problemi di suono non permettono alle chitarre di emergere adeguatamente e quindi la carica melodica di brani quali “We Are The Nightmare” e “Sightless Wisdom” rimane soffocata sotto una colata di doppia cassa. Nel complesso non male ma nemmeno troppo bene.
KEEP OF KALESSIN
Sempre supportati da un sound pessimo che anche in questo caso mette in evidenza il lato più violento della proposta dei Keep Of Kalessin, soffocando l’afflato epico della loro musica, i norvegesi offrono una mezz’ora abbondante di ottimo black melodico. Sul palco entra per primo il chitarrista Obsidian Claw, seguito da Vyl alla batteria, Wizziac al basso e, con tanto di ovazione da parte di un pubblico non ancora numeroso, il singer Thebon. La band ci regala cinque brani complessi, epici e blackeggianti come solo loro sanno fare, con il climax che si raggiunge lungo l’esecuzione della title track dell’ultimo album e negli estratti dallo splendido “Armada”. Thebon è un cantante non eccezionale, ma capace di attirare a sé l’attenzione; menzione di merito per la sei corde, che passa con disinvoltura da freddissimi riffing black a calde e pesanti partiture epiche, senza mai scadere nel pacchiano o nel noioso. Il bassista Wizziac, con la lunga chioma bionda sempre in movimento, attira subito l’attenzione delle numerose ragazze presenti al Rolling Stone e si guadagna la palma di “sex symbol” della serata. La performance dei Keep Of Kalessin è stata piuttosto coinvolgente, peccato solo per il poco tempo a loro disposizione.
MARDUK
Alle 19.25 il palco del Rolling Stone viene invaso da luci viola e da musica dark drone in sottofondo e per più di cinque minuti lo scenario resterà lo stesso e sarà utile per creare un’atmosfera putrida e cimiteriale nella quale i Marduk sono a proprio agio da sempre. Quando la Panzer Division si presenta on stage il pubblico è già piuttosto numeroso ed i fan dei Marduk hanno già guadagnato le primissime file. Sarebbe quasi inutile parlare di un live degli svedesi, data la qualità sempre piuttosto alta e la precisione chirurgica con la quale i nostri eseguono i loro brani, da quelli tirati e selvaggi a quelli più riflessivi e darkeggianti. Inutile anche dire che le ovazioni più grandi non sono state riservate alle varie tracce, ma ai numerosi ‘porconi’ tirati dal singer Morgan Håkansson verso Nostro Signore. Gli svedesi propongono una setlist abbastanza varia, che pesca da diversi loro lavori: assolutamente da segnalare l’esecuzione di “Throne Of Rats” e “Seven Angels, Seven Trumpets”, estratti da “Plague Angel”, e di “Cold Mouth Prayer” dall’ultimo “Rom 5:12”, senza dubbio i momenti migliori del concerto insieme alle vecchie “Infernal Eternal” e “Burn My Coffin”. Concerto letteralmente deturpato da un sound lo-fi che ha pesato come un macigno soprattutto sui brani più veloci dei ragazzi e che ha coinvolto anche e soprattutto la batteria di Lars Broddersson, con una doppia cassa che pareva di cartone! Nonostante ciò, il live è piaciuto per la varietà dei brani proposti e per la marcescenza che i ragazzi da sempre emanano nei loro spettacoli.
KATAKLYSM
In una venue ormai traboccante di pubblico, alle 20.35 fanno il loro ingresso on stage i Kataklysm, guidati da Maurizio Iacono che, complice anche la quasi perfetta conoscenza dell’italiano, finirà per essere il trascinatore dello show dei canadesi. Maurizio infatti si intrattiene spesso con il pubblico che lo osanna e gli dedica dei cori: il singer risponde con una prova molto fisica e con una simpatia contagiosa, che lo porta anche a farsi beffa del resto della band che non capisce una parola di ciò che dice. Se su disco la proposta dei nostri è violenta ma anche tecnica, dal vivo i ragazzi si trasformano in una macchina tritatutto dalla marcata attitudine sodomiana. La tecnica spesso e volentieri va a farsi benedire, anche perché sia Jean-François Dagenais alla chitarra che Stéphane Barbe al basso scendono fino alle transenne per fare letteralmente suonare il pubblico. L’ora a loro disposizione passa piuttosto in fretta e la setlist si concentra soprattutto sugli ultimi due lavori dei ragazzi, ovvero “In The Arms Of Devastation” e “Prevail”. Sebbene i suoni siano i migliori della serata, alcuni passaggi melodici usciti dalla sei corde di Dagenais vengono sacrificati sull’altare dell’impatto tout-court, un po’ come era successo agli Arsis ad inizio concerto. Tra i brani migliori troviamo “The Chains Of Power”, “Taking The World By Storm” e soprattutto “Crippled And Broken”, che hanno scatenato un pogo devastante sotto il palco e hanno fatto proseliti anche tra i pochi che ancora non conoscevano la band.
MORBID ANGEL
La differenza tra i Morbid Angel, la storia del death, e degli ottimi act quali Kataklysm e Marduk è evidente sin dalle primissime note di “Rapture”, brano di apertura del live dei floridiani. Il quartetto entra senza fronzoli, addirittura Pete Sandoval si occupa personalmente del soundcheck della batteria. Era da tempo che chi scrive non vedeva i Morbid Angel dal vivo, l’ultima volta risaliva all’era Tucker: ebbene, non ce ne vogliano i fan dello stesso Tucker, di Rutan o del povero Jared Anderson, ma il posto dietro al microfono spetta di diritto al sommo Dave Vincent che infatti offre una performance superba, degna della sua fama. La setlist pesca molto da “Covenant”, addirittura sei brani, ma non si possono trascurare gli outtakes degli altri album dell’era Vincent, come le mitiche “Fall From Grace”, “Maze Of Torment” e “Lord Of All Fever”, nonché una gradita sorpresa, ovvero la magnifica “Bli Ur Sag” direttamente da “Formulas Fatal To The Flesh”. Il live è pressoché perfetto a livello esecutivo, con Trey Azagthoth relegato in un angolo con la propria chitarra ed i propri riff dissonanti, le terzine mutuate direttamente da Tony Iommi e gli assoli intricati e selvaggi che l’hanno reso famoso. Dall’altro lato del palco troviamo Thor Anders Myhren alla ritmica, che raccorda bene la chitarra schizoide di Trey ed il basso pulsante di Vincent. Dietro le pelli un immenso Pete Sandoval mostra a tutti di che pasta è fatto, aiutato anche dal fatto che il suo strumento sovrastava di parecchio il resto del wall of sound eretto dalla band. Il pubblico poga dal primo all’ultimo brano, non importa se sono mazzate come “Pain Divine” o se la musica è lenta e putrescente come nella mastodontica “God Of Emptiness”. Sebbene i Morbid Angel spesso sugli ultimi album inseriscano qualche filler di troppo, dal vivo sono la solita macchina tritatutto e, dopo venticinque anni abbondanti di carriera, sono sempre lì ad insegnare al mondo cosa significa suonare death metal. A fine concerto Vincent, assoluto padrone della scena, promette che la prossima calata italica sarà a supporto del nuovo, attesissimo album, l’album della ‘I’, anticipato dall’ottima “Nevermore” proposta in questo live. Monumenti.