Report a cura di Nicola Merlino
Fotografie di Luigi Rizzo
Ricordate il film “Rock Star”? No? Buon per voi. Pensate, ad Hollywood nei primi anni 2000 c’era chi credeva che girare quasi due ore di clichè lontanamente ispirati al periodo in cui i Judas Priest rimpiazzarono Rob Halford con il cantante di una tribute band fosse una buona idea. Nelle battute finali della pellicola, durante un concerto, l’improbabile frontman degli Steel Dragon Mark Wahlberg scorge tra le prime file un ragazzo. Porta capelli cotonati, la faccia uscita da una replica di Jesus Christ Superstar, un outfit di pelle imbarazzante e canta dieci decibel sopra il volume dell’impianto. E’ perfetto. Lo invita sul palco, e dopo poche battute gli consegna microfono e chiavi del palco per tornarsene alla vita di prima tra le braccia di Jennifer Aniston. Ah, il lieto fine all’americana. Il film fu un flop da manuale al box office, ma diciassette anni dopo Myles Kennedy lo ricorda divertito, se non altro perché quel ragazzo lo interpretava proprio lui. Si parlava di finzione, ma a pensarci bene quella singola scena avrebbe fatto da presagio ai momenti chiave di una carriera peculiare negli ultimi vent’anni di rock n’ roll: quella del ragazzo d’oro dall’ugola benedetta che diventa la scelta numero uno per tutte le band orfane del cantante smarrito. E’ successo prima con gli sciaguratissimi Creed, lucidati a specchio nella confezione hard & heavy degli Alter Bridge; poi la bromance con Slash nata al tempo in cui vigeva ancora la guerra dei ‘Roses; e poteva succedere nuovamente quando Jimmy Page e John Paul Jones, ricevuto l’ennesimo due di picche da Robert Plant, stavano lavorando ad un progetto top secret svanito in un grande ‘se fosse’. Un ginepraio di impegni tessuto dai suoi progetti principali ha ostacolato la lavorazione di un album solista del quale si parla sin dal lontano 2010; una chimera sconfitta solo lo scorso marzo con la pubblicazione di “Year of the Tiger”, concept orbitante attorno alla tragedia della morte assurda del padre – che rifiutò di sottoporsi a delle cure in quanto aderente al culto cristiano scientista – e dalle scelte necessarie per venire a patti con un’assenza così ingombrante. E’ inevitabilmente la sua release più personale, dove il peculiare gusto melodico viene spogliato fino alle radici blues e folk che ammiccano ad un MTV Unplugged registrato in studio. Con il fido Mark Tremonti e l’uomo col cilindro impegnati su altri lidi e una finestra di tempo più lunga di un quarto d’ora accademico finalmente a disposizione, era inverosimile che il nostro si prendesse una pausa per dedicarsi al giardinaggio, e fortunatamente il suo spirito guida Stachanov ci ha messo ben poco a riportarlo on the raod. E’ quindi un piacere poter accogliere nuovamente in Italia il cantante da Spokane a pochi mesi dalla data sold-out dei Magazzini Generali, questa volta per tre date in location di grande pregio, ultima in calendario quella nell’incantevole cornice del Castello di Udine, alla quale non vedremmo l’ora di assistere se solo Giove Pluvio non avesse altri programmi per la serata.
DORIAN SORRIAUX
L’accoglienza meteorologica riservata a musicisti e platea è quanto di più friulano avesse in serbo il cielo udinese, con l’afa pomeridiana che si commuove nel temporale estivo delle sette. L’acqua scende a sprazzi, ed il belvedere del Castello che normalmente si apre a 270° sulla cornice delle Alpi oggi sembra invece rivolgersi verso Mordor. Un fulmine dopo l’altro, le tempistiche si dilatano e inevitabilmente a risentirne è l’esibizione in apertura di Dorian Sorriaux. La parte francofona dei Blues Pills sta portando dal vivo il suo EP di debutto solista “Hungry Ghosts”, discesa acustica nel folk anni ’70 che strizza l’occhio in particolare al Neil Young più delicato. Un peccato vederlo sgomberare la sua (ridotta) attrezzatura dal palco, ma speriamo abbia presto modo di porre rimedio a questa battuta a vuoto. Brutto segnale, sembra proprio che questo show non s’abbia da fare.
MYLES KENNEDY & CO.
Alle 21.00 passate le speranze sono ormai al lumicino, quando le ultime luci del tramonto fanno capolino disegnando ombre tra le nuvole; la crew rimuove i teli di nylon dal palco, e finalmente si può tirare un sospiro di sollievo. Come di consueto saranno le note registrate dagli echi rockabilly di “Devil on the Wall” a sancire l’inizio del concerto, sulle quali si aggiunge in corsa la voce inconfondibile di Myles questa volta contornata da una formazione semi-inedita. Oltre alla chitarra del frontman, sullo stage vediamo infatti anche il basso dell’amico-barra-manager Tim Tournier e Zia Uddin alle pelli, partner in crime sin dai tempi dei Mayfield Four – primo importante progetto del cantante, criminalmente stritolato dagli ingranaggi del music business. E’ proprio questa la maggior novità rispetto alla precedente leg del tour, con la formazione in power trio ad aggiungere una connotazione raw&uncut all’elegia di “The Great Beyond” e quasi bluegrass su “Ghost of Shangri La”. Un rapido sguardo al proprio fianco basta per capire come il pubblico della serata, in termini di numeri, non sia propriamente quello delle grandi occasioni. Normalmente l’Europa, ed in particolare l’Italia, sono terreno di caccia sicuro per tutti i progetti targati MK, ma forse la pioggia è stata sufficiente a scoraggiare la parte meno sfegatata di folla, lasciando così parecchi spazi deserti tra le sedie della platea. Posti a sedere? Davvero?! Sì, o almeno fino alle prime note country-blues di “Haunted by Design”, quando l’entusiasmo esplode e tutti si stringono sotto il palco soccombendo al principio di gravitazione universale mentre, galvanizzato dall’accorciarsi delle distanze, Myles coglie sulla coda strumentale del pezzo l’occasione per ricordarci come, oltre ad essere dotato di una delle voci più straordinarie del globo terraqueo, incidentalmente sia pure un chitarrista con i contro[omissis]. Poi un sorriso, qualche battuta e, colpo di grazia, uno spiffero di bora che gli alza i capelli neanche fossimo nella pubblicità di un profumo. Un vaffa liberatorio ci starebbe d’ufficio, ma per grande che possa essere lo sforzo, ad odiarlo proprio non ci si riesce. Non mancano ovviamente i frangenti dove il frontman viene lasciato in solitudine sotto i riflettori ad ammaliare gli astanti solamente con la chitarra e un pedale a mo’ di grancassa. Pescata dagli albori della collaborazione con Slash, la luminosa “Starlight” viene intonata come buon auspicio verso le condizioni meteo, iniziando più bassa dell’originale onde permettere a tutti di unirsi ai cori, salvo poi decollare lasciando noi, vocalmente normoestesi, a terra, seguita da una “Addicted to Pain” completamente rimaneggiata in chiave acustica e che scatena la gioia dei fan degli Alter Bridge. La carriera fin qui trascorsa ha giocoforza costretto Myles Kennedy a crescere come intrattenitore, imparando uno dopo l’altro tutti i migliori trucchi per ingaggiare una platea che ad ogni cenno, nel dubbio, risponde con l’internazionale ‘Woooo!’. L’inconfondibile intro di “The Trooper” si fa strada mentre i cori prendono quota, ed è divertente pensare che la stiano suonando come se al posto di Adrian Smith ci fosse Johnny Cash; più che una cover è un quadro di Mirò. Myles ride, scherza e inanella aneddoti come il più consumato dei cantastorie, e viene quasi da chiedersi dove sia finito il timido songwriter degli esordi, rievocato nel divertente siparietto con il batterista Zia tra le reminiscenze della prima sbronza e dei sogni che si infrangono allo scadere di un contratto discografico, sfociando nella bellissima “White Flag” dell’era Mayfield Four per sei corde e bonghi, come si fosse al parco. Gli highlight si susseguono tra un tributo al membro fondatore del Club27 Robert Johnson sul giro in slide di “Travelling Riverside Blues” e un’improvvisazione funk piazzata prima della possente ”World on Fire”, dal catalogo Conspirators; ma il momento più emozionante è inevitabilmente la performance di “Watch Over You”, über ballatona stracciamutande cantata a squarciagola da tutti i presenti… mentre riprendono dai telefoni. Il set volge al termine con la title track “Year of the Tiger”, che ci permette di riflettere su come un concept così oscuro e sofferto da cui è scaturito un album in questa occasione ampiamente proposto attraverso i suoi testi intimisti, eppure così universali, sia stato espressione di pura gioia culminata nell’encore struggente di “Love Can Only Heal”. Difficile trovare dei punti deboli alla performance odierna, forse i volumi del basso troppo sparati e una resa non ottimale di alcuni arrangiamenti per il trio ancora in fase di rodaggio, ma per il resto bisogna togliersi il cappello di fronte ad un ragazzo di quasi cinquant’anni che del suo immenso talento è riuscito a farne magistero. Con il prossimo album dei Conspirators in uscita a settembre e il 2019 già prenotato dagli Alter Bridge, ci auguriamo comunque di poterlo rivedere presto in questa veste più minimale; ma, nel frattempo, negli anni in cui regna l’eiaculatio precox di poter gridare prima degli altri quanto tutto faccia schifo, è bello poter almeno concordare unanimemente su quanto bravo sia Myles Kennedy.
Setlist
Devil on the Wall
The Great Beyond
Ghost of Shangri La
Haunted by Design
Starlight
Addicted to Pain
Turning Stones
Blind Faith
The Trooper
White Flag
Songbird
Watch Over You
Travelling Riverside Blues
World on Fire
Year of The Tiger
Encore
Love Can Only Heal