2-4/06/2022 - MYSTIC FESTIVAL 2022 @ Gdansk Stocznia - Danzica

Pubblicato il 16/06/2022 da

Introduzione e report a cura di Simone Vavalà

Torna dopo lunga attesa il Mystic Festival, il più grande happening metal su territorio polacco, che oltre ad aver patito lo stop forzato causa Covid-19, aveva già subito una lunga sosta di oltre dieci anni a partire dal 2007.
L’organizzazione, per fortuna, non si è persa d’animo, e ha deciso anzi di fare le cose ancora più in grande, in primis con lo spostamento della sede: abbandonata Cracovia, quest’anno sono stati allestiti a cattedrale del metallo ampi spazi dei cantieri navali di Danzica, che oltre alla fama legata agli scioperi degli anni Ottanta e a Solidarność si sono presentati ai nostri occhi come una location veramente eccellente. L’atmosfera post industriale, unita a una gestione assolutamente da premiare e a un uso intelligente degli spazi interni – sia per i due palchi che per la zona ristoro – ha permesso infatti di godere appieno di un’area in pieno recupero; parlando di palchi, completavano l’offerta tre palchi esterni, uno di dimensioni ridotte adiacente ai capannoni, due completamente a cielo aperto, con il Main Stage particolarmente massiccio, all’interno di uno spazio delimitato da zona ristoro, area Vip, Press e abbondanti bagni. A tal proposito, assolutamente all’altezza la quantità di stand alimentari e spine di birra (con prezzi decisamente apprezzabili: dai 4 ai 12 euro per un pasto, birre a partire da 3€), così come il numero e la pulizia dei bagni.
In termini di logistica – giusto sottolineare anche come l’area fosse raggiungibile – in poco più di venti minuti a piedi si raggiungeva l’area pedonale in pieno centro città, ove si concentrava ovviamente l’offerta di alberghi e appoggi per la notte.
I complimenti, come evidente, prevalgono sulle critiche, che possono essere anzi ridotte a ben poca cosa; sicuramente ci si può augurare che gli stand culinari riescano in futuro ad affinare i tempi di offerta: è un piacere mangiare cibo preparato fresco al momento, anche se rende un po’ difficoltoso ‘incastrare’ uno spuntino, se non scegliendo di fare lunghe pause – col rischio di perdere parte delle esibizioni, anche se ovviamente si tratta di una colpa veniale e non attribuibile all’organizzazione (abbiamo anzi notato che anche in città la ristorazione segue ritmi decisamente… mediterranei, ecco). Ma è tempo di far parlare la musica e scaldarci gli animi, proprio come avvenuto nelle fresche serate di Danzica!

MERCOLEDÌ 1 GIUGNO
Grazie a due ore e un quarto di ritardo del nostro volo di andata (e non andrà meglio al ritorno…) decidiamo di portarci al festival direttamente coi bagagli, potendo così apprezzare anche l’offerta di locker a prezzo ragionevole, a ben vedere. Mentre costeggiamo l’area concerti e recuperiamo i nostri braccialetti riusciamo ad ascoltare gli ultimi brani dei CARCASS, che spaziano da “Corporal Jigsore Quandary” a “Captive Bolt Pistol”, passando per “Heartwork”; purtroppo dobbiamo limitarci a un ‘senza voto’ per ovvie ragioni di onestà, anche se è facile notare subito volumi possenti e un buon missaggio, e chi era presente dall’inizio ci dice che l’esibizione è stata più che dignitosa in termini di tenuta del palco e scelta dei brani. Iniziando a prendere confidenza con gli spazi e gli stand presenti, ci spostiamo allo Shrine Stand, ossia la sala al chiuso dall’ampia capienza (a naso, un migliaio di persone) decisamente affollata per l’esibizione degli HEATHEN. La band della Bay Area non è stata tra le più fortunate in termini di successo ai tempi d’oro, e non sarà questa serata a farci pensare che il destino sia stato particolarmente crudele con loro, tuttavia – complici volumi possenti, a tratti pure troppo – il concerto scorre gradevolmente, con brani che si concentrano tra il recente “Empire Of The Blind” e il loro esordio “Breaking The Silence”. Sugli scudi la graffiante prova vocale di David White e ovviamente l’immarcescibile Lee Altus, che oltre a portare avanti da quasi quarant’anni questa band, è ormai un membro stabile degli Exodus, a dimostrazione di un ruolo comunque di tutto rispetto nella scena. Poco prima delle 23 prendiamo posto sotto il Park Stage, che per questa serata di warm-up svolge il ruolo di palco principale, pronti a una delle esibizioni più attese del festival (e forse dell’intera estate di concerti, a ben vedere): Tom G. Warrior’s Legacy, ossia due ore in cui il musicista svizzero ripercorrerà la storia di tutte le sue band, e a ben vedere della musica estrema tout court.
Con una scenografia basilare ma evocativa (banner posteriore con la scritta Hellhammer, demoni stilizzati direttamente dei demo sui muri di casse) si parte con i TRIUMPH OF DEATH, alias la formazione con cui già da qualche anno Tom ha riportato in scena, ovviamente, i suddetti Hellhammer. La formazione è decisamente rimaneggiata rispetto al tour del 2019, ma l’impatto e la resa di brani ormai mitici è strepitosa; la selezione dai demo della band primigenia include tracce come “Maniac” o “Messiah”, giusto per ricordarci quanto altri musicisti abbiano preso ispirazione da quei primi vagiti di violenza senza pari, “Decapitator” – a nostro parere l’apice dell’esibizione – e la conclusiva e lugubre “Triumph Of Death”. Un’ora complessiva in cui abbiamo fatto a gara in termini di esaltazione tra il palco e il pit, con un Tom G. a tratti anche spiritoso (notevole la gag sui suoi “UH!”) e sicuramente galvanizzato da pezzi che, dopo anni di oblio e culto quasi nascosto, trovano nuova forza e un impatto eterno. Circa un quarto d’ora di cambio palco (e di formazione) ed ecco il secondo set; sotto l’immancabile egida di H.R. Giger e del suo “Satan I” è il momento dei Triptykon e di una selezione di brani dal loro repertorio e da quello dei Celtic Frost. Detto che già il quartetto precedente aveva ripescato “Visions Of Mortality”, sono purtroppo solo cinque le canzoni proposte dai dischi della band ‘di mezzo’, sebbene siano pezzi del calibro di “Procreation (Of The Wicked)”, “Circle Of Tyrants” e “Dethroned Emperor” tra le altre, tutte rese ottimamente, anche se con un piglio tendente al doom, come nella natura dei Triptykon, del resto. Tocca poi a quattro tracce loro a tutti gli effetti, con menzione speciale per l’evocativa “Goetia” chiudere l’esibizione; tutto ottimo, senza dubbio, anche se due piccole critiche si possono muovere: una di natura nostalgica, dato che ovviamente le aspettative e il cuore ci facevano sperare in una selezione più ampia di classici delle prime due band, la seconda di puro ‘tiro’. La costruzione del concerto è stata coerente ed efficace, ma lasciare la parola fine all’ossessività dilatata di “The Prolonging” non ha aiutato molto a tenere viva l’adrenalina quanto meritato. Complici il viaggio non proprio privo di contrattempi e una temperatura quasi invernale, rinunciamo purtroppo all’esibizione finale dei GAEREA, con dispiacere acuito dalle ottime impressioni raccolte il giorno successivo da chi vi ha assistito.

GIOVEDÌ 2 GIUGNO
Nonostante i migliori propositi, prendiamo con relativa calma l’approccio al primo giorno di festival vero e proprio, e le forze con cui torneremo a casa la notte ci confermeranno la saggezza della scelta. Iniziamo quindi da dove eravamo rimasti il giorno precedenti, ossia il Park Stage, occupato in questo caso dai KVELERTAK. Che dire? La formazione norvegese ha saputo crearsi uno status di tutto rispetto in pochi anni, e meritato, vista la buonissima tenuta del palco. Le tre chitarre garantiscono un impatto notevole, e il nuovo cantante – che chi vi scrive vede per la prima volta all’opera – sa essere accattivante e graffiante. I tre quarti d’ora della loro esibizione scorrono piacevoli e con ottimo piglio, anche se qualcosa non ci convince fino in fondo; il loro sound, negli anni, si è relativamente ammorbidito, andando a limare la componente più estrema a favore di un approccio che sembra cercare una sintesi tra gli Entombed più piacioni, Turbonegro ed Hellacopters… ma sotto la potenza di fuoco i brani ci sembrano tutto sommato più deboli di quelli dei loro maestri, anche dal vivo. La doppietta di band a seguire le citiamo en passant, esattamente com’è stata la nostra presenza sotto al loro cospetto; i MALEVOLENCE, complici i volumi mostruosi del Main Stage, hanno sicuramente offerto una prova muscolosa e che ha coinvolto i presenti – anche se ci spieghiamo poco la loro collocazione sul palco più grande, dato che non ci sono parsi altro che l’ennesimo clone di terza generazione dei Pantera.

Dei BARONESS abbiamo ascoltato due brani mentre ci recavamo a prendere una birra e in direzione dei palchi più piccoli, e difficilmente si poteva fare di più, se non da fan hardcore: John Baizley ha oggettivamente stuprato “Ogeechee Hymnal” con una prestazione vocale tremenda, in cui si è complicato la vita da solo alla ricerca di un arrangiamento diverso. Il treno della band di Savannah ci pare passato da tempo, ahimè, e tra poco più di un’ora avremo il riscontro lampante di come un’altra band della Georgia sia riuscita invece a fare ben altri progressi… Ma prima è tempo di vedere i DEAD LORD, band che ci aveva già conquistato con la sua attitudine spaccona e divertente qualche anno fa al Desertfest di Berlino. Che dire? Ci sono poche formazioni più lontane dall’originalità di questi quattro svedesi, con la loro proposta ai limiti del plagio nei confronti dei Thin Lizzy: dalle terzine di basso al suono delle chitarre, passando per gli stop’n’go che punteggiano i brani – o persino la voce calda da guascone di Hakim Krim – ma è impossibile resistere al groove di brani come “Too Late” o “Hammer To The Heart”, e non a caso il ridottissimo spazio sotto il Desert Stage si è impallato a dismisura. Da sottolineare, come nota di costume, la presenza di tre bambini in transenna, dotati di cuffie da cantiere e battle jacket d’ordinanza, che hanno fatto ben sperare sulle future generazioni!

Arriva così il momento di tornare verso il Main Stage, per vedere se i MASTODON, questa sera, saranno in forma o meno. Rispetto a una carriera discografica eccellente e in continuo progresso, è infatti noto che le loro prestazioni dal vivo non sempre sono all’altezza dei loro brani, ma stasera ci è andata decisamente bene; nessuno dei quattro sbaglia un colpo, alle chitarre Hinds e Kelliher si scambiano shredding e riff con naturalezza e con scambi divertiti, mentre la sezione ritmica lavora di contrappunti quasi da band prog. Brann Dailor merita anzi una menzione speciale: stasera riesce a dimostrare appieno di appartenere, come batterista, a quell’empireo fatto di groove e tecnica dove pochi sono entrati (per esempio il suo modello Neil Peart) e non perde nemmeno potenza ed efficacia nei brani che lo vedono impegnato come voce principale. La scaletta è, prevedibilmente, concentrata sui brani del recente “Hushed And Grim”, disco tra i migliori dello scorso anno, ma forse leggermente debole in sede live rispetto alle loro cose più vecchie. Peccato veniale, comunque, dato che la potenza è notevole, e il ripescaggio di pezzi come “Black Tongue”, “The Czar” e la conclusiva “Blood And Thunder” appagano tutti. Un concerto messo subito tra gli highlight del festival, e ci resterà fino alla fine. Servirebbe decisamente un po’ di decompressione dopo l’impatto sonoro della band di Atlanta, ma non si può certo cercare al cospetto degli HEILUNG. Avendo già avuto occasione di assistere a un loro spettacolo, avevamo piena consapevolezza di come non si tratti in alcun modo di un concerto, e non abbiamo specificato ‘metal’: quella messa in scena da questo collettivo internazionale è una performance che mette insieme narrazione antropologica, culturale (è nota e profonda la ricerca sugli strumenti tradizionali da parte dei membri), folklore e paganesimo. Non è un’esibizione semplice, e sicuramente superato l’impatto visivo di questi sciamani redivivi e dei loro complessi ed evocativi canti, può incorrere anche una certa stanchezza. Ma è innegabile il fascino ipnotico del loro rituale. Certi di attirarci qualche insulto, scegliamo il concerto degli OPETH per andare a cenare, e al di là del nostro scarso amore per le ultime uscite della band svedese, ci viene detto in seguito che sia la scaletta che l’affiatamento della band, stasera, non erano al top; possiamo andare quindi serenamente a sostenere l’unica, gloriosa presenza italiana al festival, ossia gli OVO. Reduce dal prestigioso Inferno di Oslo, il duo è evidentemente molto atteso anche qui, visto che non pochi si accalcano in transenna già mentre il fumo riempie la sala; come sempre, la presenza scenica è essenziale, ma di notevole impatto. Bruno pesta la sua batteria ridotta all’osso e i sampler come un gigante selvaggio, quasi imprigionato dietro lo strumento, mentre Stefania, sciolti i tentacolari dread, diviene una vera e propria incarnazione maligna: siano i suoi riff basilari e distorti all’inverosimile o le sue grida quasi sovrumane, l’evocazione dei meandri più oscuri dell’umanità è perfetta, nel loro mix unico tra black, noise e industrial. Beviamo l’ultima birra facendo in tempo ad ascoltare qualche brano dei KATATONIA, che chiudono la kermesse odierna sul Party Stage. Un ascolto troppo breve per un giudizio di merito, anche se notiamo – almeno a livello di emozione personale – una grossa differenza di impatto quando Renkse e compagni tornano – se non più indietro, ahimè – almeno a inizio millennio con la suggestiva “Ghost Of The Sun”.

VENERDÌ 3 GIUGNO
La seconda giornata ‘piena’ del Mystic si preannuncia da subito la più impegnativa. Restiamo allineati sull’arrivo all’area verso le 17, in tempo per una band perfetta per aprire le danze senza troppo impegno. I DOPELORD giocano in casa e si nota, dato l’entusiasmo del pubblico, che non si interrompe nemmeno in occasione delle ben tre interruzioni totali che si generano dalle parti del chitarrista solista – presumibilmente per qualche contatto sulla pedaliera. La band di Lublino riesce a essere così pedissequamente schiacciata sul suono degli Electric Wizard quando gli stessi Electric Wizard fanno del lor meglio per replicare i Sabbath di “Vol.4” da essere semplicemente perfetti. Nessuna aspettativa particolare, tantomeno suoni nuovi, ma il fuzz, il fumo (sopra e sotto il palco…) e il look a metà strada tra il metallaro ‘street’ e gli anni Settanta funzionano sempre a meraviglia. Ben altre le sonorità dei BENEDICTION, che inaugurano oggi il Main Stage. Con la scomparsa dei Bolt Thrower sono ormai gli ultimi, veri alfieri storici del death metal made in UK, ma a nostro modesto parere gli sono sempre mancate parecchie lunghezze per poter essere paragonati all’ex band di Ingram. Ciò detto, i loro riff, per quanto un po’ monocolori, sono una garanzia, la nuova sessione ritmica – che vediamo solo oggi esordire live – è quadrata e potente, e Dave Ingram stesso resta un animale da palco capace e abbastanza coinvolgente – sicuramente in una forma migliore del povero Willetts. Un po’ ripetitivo anche lui, a ben vedere, visto che deve sottolineare sia nel caso di “Nightfear” che di “Unfound Mortality” che provengono dal loro maggior successo (ovviamente parliamo di “Transcend The Rubicon”), così come diviene un siparietto tra l’esilarante e il patetico il fatto che lanci lui in continuazione il coro “Every Friday! Benediction!”, ma alla fine anche i momenti da ‘sagra del cinghiale di Mortaretto’ hanno il loro perché, nel metal. Riusciamo a vedere poco meno di metà dell’esibizione dei TRIBULATION, una band che ha sicuramente sempre avuto discreti elementi di interesse, specie con la trasformazione subita in termini di direzione musicale. Ad anni di distanza dall’ultimo loro concerto visto, potremmo fare un discorso speculare rispetto a quanto scritto poco fa; anche qui vediamo suonare due membri nuovi, francamente meno incisivi, che pur tuttavia non fanno danni a pezzi che godono di buoni arrangiamenti. Al tempo stesso, complice il sole delle 19 o il fatto che Andersson sia molto statico, il concerto non esplode mai.

Arrivano finalmente cattiveria e ignoranza (solo apparente, a ben vedere) al momento degli OKKULTOKRATI, che riempiono quasi completamente lo Shrine Stage, sebbene non saranno poche le fughe da un circle pit a tratti selvaggio. La band di Oslo ha atmosfere insieme oscure e selvagge, le loro pose ieratiche, con le quali emergono dal fumo e dalle luci fredde sono perfette per rafforzare la dimensione più nichilista della loro musica, un perfetto mix di black metal e punk che, ci piace immaginare, pare esprimere al meglio quell’attitudine che i Darkthrone, ahimè, non porteranno mai su un palco. La setlist è abbastanza equilibrata tra il recente “La Ilden Lyse” e i brani più vecchi, sebbene sia stato un peccato non sentire la trascinante e ipnotica “World Peace”. L’inizio del concerto dei SAXON in contemporanea con la fine di questo ci fa perdere qualche minuto di esibizione della band inglese, ma poco cambia; come sempre, al cospetto di Biff e compagni, passa davanti agli occhi e nelle orecchie la storia del metal stesso: ed è lo stesso cantante a sottolinearlo, ricordando nostalgicamente di quando si trovarono a condividere il palco con i Judas Priest già quarantatre anni orsono. Immarcescibili, impeccabili, anche per l’ascoltatore più disattento, un brano su due è una hit sentita mille volte, da “Wheels Of Steel” a “Denim & Leather”, e sul finale sono veri brividi. A un certo punto Biff – il cui stato vocale ha quasi dell’incredibile – straccia la scaletta e lascia che sia il pubblico a scegliere come andare avanti. Viene invocata “Crusader”, ovviamente sostenuta da tutti presenti, e a seguire tocca a “747 (Strangers in the Night)” e “Princess of the Night”, prima di uscire dall’area principale soddisfatti e felici. Ci si sposta pressoché in massa sotto il Party Stage, ed è il momento dei MGŁA. Divenuti ormai enormi ovunque, e inevitabilmente osannati in patria (le loro sono le magliette che abbiamo visto più frequentemente indosso in questi giorni, a parte forse quelle dei Judas Priest), i quattro incappucciati hanno stasera un parterre di almeno quattromila persone al loro cospetto. Sono lontani i tempi delle loro esibizioni in piccoli locali fumosi, anche se per fortuna loro non hanno modificato la loro attitudine indifferente e iconoclasta. Purtroppo, come già notato quando ci è capitato di vederli open air, non è questa la situazione ideale per ascoltarli e farsi trascinare dalle loro atmosfere, e nonostante i suoni siano più che dignitosi, non si sviluppa quel rapimento estatico che sanno sempre creare su disco.

Li abbiamo citati poche righe fa, ed eccoli arrivare: gli dei del metallo senza se e senza ma, ovvero i JUDAS PRIEST. Cinquant’anni di carriera, le due storiche asce pensionate (e in questo tour estivo non ci saranno nemmeno comparsate da parte di Glenn Tipton), eppure ancora un riferimento eterno e da applausi. La spina dorsale della band è sempre sul pezzo; Ian Hill, dimesso ma fondamentale e sempre sorridente, e Scott Travis con il suo stile energico e tuonante garantiscono il metronomo e l’energia, mentre alle chitarre è inutile cedere alla pur forte nostalgia. Richie Faulkner è da tempo ben più che un turnista, mentre Andy Sneap sarebbe un rimpiazzo perfetto pressoché in qualunque band; entrambi mostrano di saper replicare assoli anche storici con la capacità di mettere il giusto tocco personale, forse l’unica, vaga pecca è in alcuni passaggi di consegne tra le due chitarre, ma va detto che il paragone è infame, tenuto conto che KK Downing  e Tipton erano le chitarre gemelle per antonomasia. Abbiamo tenuto per ultimo Rob Halford, ma se non bastassero la sua presenza scenica e i cambi d’abito a lasciare impresso il suo segno nella serata, va detto che le sue condizioni vocali sono eccellenti; incalzante e strafottente sui pezzi più catchy (“You’ve Got Another Thing Comin'”, “Turbo Lover”), esegue astutamente e senza ribassare troppo pezzi dalle tonalità mostruose (“Freewheel Burning”, Diamonds & Rust” – quest’ultima proposta in versione ‘heavy’), arrivando ai pezzi più intensi e trascinanti senza perdere colpi, da “Painkiller” alle scontate “Breaking The Law” e “Living After Midnight”. Un’ora e mezza carica ed emozionante, che complice una scaletta notevole – non a caso riportata più sotto – sembra riportare indietro di trent’anni la storia di questa band. E del metal.

Setlist:
One Shot At Glory
Lightning Strike
You’ve Got Another Thing Comin’
Freewheel Burning
Turbo Lover
Hell Patrol
The Sentinel
A Touch Of Evil
Rocka Rolla
Victim Of Changes
Desert Plains
Blood Red Skies
The Green Manalishi (With The Two Prong Crown)
Diamonds & Rust
Painkiller

The Hellion
Electric Eye
Hell Bent For Leather
Breaking The Law
Living After Midnight

Sta scoccando l’una di notte quando il Male sale sul palco del Mystic. Stiamo parlando ovviamente dei MAYHEM, che mantengono la formula vista nell’ultimo tour pre-Covid, dimostrando di non sbagliare la scelta. Apertura con un Attila subito sugli scudi dedicata ai pezzi più recenti, con due estratti da “Daemon” più “Voces Ab Alta” dall’ultimo EP, e curiosamente ben tre pezzi dall’era Maniac, che sinceramente non ci sembrano perdere nulla passando dall’ugola dell’ungherese, anzi. Come nel caso dei Priest, Teloch e  Ghul non sono forse personalità di spicco, ma non sarà un caso che la loro sia la più lunga permanenza alle chitarre nella storia dei Mayhem, a testimonianza di una professionalità e di un’efficacia non indifferenti, che si nota sempre di più dal vivo. La seconda parte del concerto, ovviamente con cappucci di ordinanza, è dedicata a tre estratti da “De Misteriis Dom Sathanas” – manca rispetto alle ultime uscite la trascinante “Pagan Fears”, mentre il finale i cinque regalano l’ormai consueta perla di una dozzina di minuti di pura ferocia hardcore. Necrobutcher sorride beffardo, evidentemente felice della violenza sotto palco e di poter tornare ai suoi vent’anni, Hellhammer – molto dimagrito e sempre di una precisione strepitosa – cede al suo lato più cazzaro con accelerazioni e d-beat, mentre Attila sfodera il meglio (peggio?) della sua attitudine punk: si tratta, ovviamente, della selezione di brani da Deathcrush” e dal mitico “Pure Fucking Armageddon”, la cui title track chiude il concerto e permette di rifiatare anche ai più esagitati del circle pit (noi compresi). Ottimo finale di una giornata impegnativa, ma non paghi dalle fatiche precedenti, proviamo per curiosità anche a recarci all’afterparty presso il Dessert Stage, che termina però curiosamente in concomitanza con l’ultimo concerto; poco male, visto che ora che raggiungiamo l’albergo, sul Baltico inizia ad albeggiare.

SABATO 4 GIUGNO
Premessa opposta rispetto al giorno precedente, per una chiusura di Festival decisamente sotto le righe, se si escludono gli headliner. A tal proposito, una piccola tirata d’orecchie all’organizzazione va fatta: abbiamo infatti saputo solo giovedì pomeriggio in forma ufficiale che i KILLING JOKE non sarebbero stati presenti; purtroppo le defezioni dell’ultimo minuto capitano, ma grazie a un contatto diretto nella band, eravamo già informati da diversi giorni di tale assenza. E diciamo che, chi vi scrive come forse diversi altri, ha deciso di partecipare all’ultimo giorno solo per loro e i redivivi Mercyful Fate: un po’ magro, quindi, il bilancio conclusivo di una giornata che, secondo la prassi di un Festival, dovrebbe offrire gli ultimi, esplosivi e imperdibili concerti. Sarà per questo, oltre forse all’inevitabile stanchezza accumulata, che la nostra domenica prende la forma di un ping-pong alla ricerca di ascolti interessanti, talvolta per poche decine di minuti di ascolto, ma anche con un un paio di esibizioni decisamente gradite. I primi che andiamo ad ascoltare sono i polacchi RED SCALP, i cui membri hanno curiosamente come soprannomi quelli di alcuni villain dei film di 007. Non va molto oltre l’interesse per una band sicuramente compatta e gradevole, ma che per arrangiamenti, suoni e attitudine sul palco non si differenzia da un migliaio di altre band stoner rock (e anche nella costruzione del monicker, a ben vedere). Si resta in casa, ma dalle parti di Varsavia con i TRUCHŁO STRZYGI, che non siamo riusciti ad ascoltare in precedenza, ma ci incuriosivano per la proposta “black metal/punk”. Alla luce dei fatti, ci è sembrato più un extreme metal d’antan, a metà strada tra certo speed meno furioso e tante band dell’Est Europa degli anni Ottanta, complice un cantato in lingua madre non proprio accattivante. E’ a questo unto tempo di scoprire se IGORRR, di cui abbiamo finora apprezzato le uscite discografiche, confermerà le buone impressioni dal vivo, o si stratta solo di una ricetta buona per gli hipster prestati al metallo. I dubbi vengono fugati subito: Gautier Serre e soci sanno suonare, eccome. Gautier stesso occupa la postazione da dj, il cui aspetto è quello di un altare postmoderno, con tanto di teschio posato sopra; al suo fianco, giustamente ben visibile, Sylvain Bouvier e la sua batteria, le cui ritmiche spaziano dal furibondo agli intermezzi jazz con una naturalezza incredibile. Alla sei corde, Martyn Clément riesce ad altare riff death, invenzioni dal gusto mediorientale, essenziali ma mirabili inserti al servizio dei passaggi più apertamente elettronici. Ci sono poi i due vocalist, entrambi di recente inserimento, ossia Jean-Baptiste Le Bail, anche membro fondatore degli Svart Crown, che stasera sfoggia una tenuta à la Gaahl e si occupa ovviamente delle parti più propriamente ‘metal’, anche se la vera malignità esce dall’ugola di Aphrodite Patoulidou. Soprano (e violinista) di formazione, incanta sotto ogni punto di vista: per la prestazione vocale ai limiti, ma mai sopra le righe, per la sensualità con cui tiene la scena, per la capacità di variare registro e di riversare sensazioni da baccanale sul pubblico. Merita quasi il paragone con la sua connazionale Diamanda Galas, e contribuisce molto alla piena promozione di questa intensa esibizione.

A seguire, come accennato, inizia per noi una vera e propria peregrinazione alla caccia di un concerto che ci sappia conquistare, anche se davvero risulta difficile nelle successive quattro ore. I primi estratti sono i WITCHCRAFT, e tenuto conto che chi li ha visti in tempi recenti (per esempio ai vari Desertfest) ci aveva parlato di una condizione pietosa, non abbiamo avuto vibrazioni poi così pessime. Certo, la china insieme distruttiva e da padre-padrone di Magnus non aiuta, ma va detto che lo stesso Pelander riesce a tenere il palco con relativa dignità e i suoi attuali sodali, per quanto anonimi, non mettono in scena uno spettacolo così disastroso. Altro tema, ma ormai è così da un paio di lustri, è la qualità e originalità dei brani, ovviamente. Tocca poi ai WIEGEDOOD e qui le cose migliorano decisamente. Il gruppo belga ha dato recentemente alle stampe un disco di assoluto pregio, e sicuramente il migliore della loro carriera, e si vede/sente anche dal vivo; molto più diretti in termini di resa sonora e al tempo stesso evocativi, riescono a trasformare nuovamente lo Shrine Stage nella sede di un rito oscuro, meritando plauso per l’assenza di turnisti e di scenografie particolari: solo loro tre, luci fredde e invasive, e il gioco è fatto.
Torniamo a questo punto al palco principale per l’evento obbligatorio del pomeriggio, ovvero i VADER. Ovviamente, e con tutto il rispetto per la band polacca, questa premessa contiene anche un certo sarcasmo, dato che si tratta dell’unico concerto nell’arco dei tre giorni a non avere alcuna sovrapposizione, nemmeno per pochi minuti, su altri palchi, oltre ad avere dei volumi talmente smisurati da poterlo ascoltare quasi distintamente anche al paco opposto dell’area festival. Un trionfo di celebrazione nazionale, insomma, apprezzabile ma che non ci ha lasciati poi così sbigottiti; Piotr, che è tornato da tempo a occuparsi dal vivo sia delle parti vocali che della seconda chitarra, è in forma e accattivante, i giovani (o meno) compagni di viaggio offrono tutti una prova ineccepibile, favorita anche dalla scelta di riproporre per intero il loro capolavoro “De Profundis”. Ad acuire il senso di celebrazione nazionale, la selezione di brani dagli altri dischi – che fa scendere non poco il livello di hype – una cover dei loro seminali connazionali Kat, che manda in visibilio il pubblico, praticamente tutto presente nell’area del Main Stage; ma sotto le fiamme attizzate in ogni modo, la sensazione è quella che le braci restino sempre quelle di una band di culto, sì, ma il cui posto a livello globale non è – ahinoi – così rilevante.

Arriva il momento di un altro ping pong tra cibo e concerti seguiti con attenzione relativa, ma come detto oggi il bill stesso del festival ha un po’ contribuito a tutto ciò. Per i SOLSTAFIR possiamo solo dire come sia ormai evidente che la band di Reykjavík ha mollato gli ormeggi verso lidi sempre più post (metal? Rock?), puntando su atmosfere rarefatte ed evocative. La loro esibizione è intensa come sonorità, e del resto passi falsi su disco ne hanno fatti pochi, ma non riesce ad essere realmente trascinante a livello emotivo. Pur spostandoci al Desert Stage restiamo virtualmente in Islanda con THE VINTAGE CARAVAN. Il power trio unisce la carica e l’attitudine dei Cream a sprazzi più stoner e psichedelici, con un tiro apprezzabile ma senza pezzi degni di nota; un buon intermezzo, ma questo palco e queste sonorità hanno offerto decisamente cose più dirompenti e originali negli ultimi giorni.
Cala infine la notte e cresce l’attesa per un ritorno insperato per anni e agognato da tutti dopo gli annunci pre-Covid: i MERCYFUL FATE. Per la band danese si tratta del primo tour e della seconda data in assoluto dopo ventinove anni, ossia dalle date di supporto a “9”; in occasione delle quali i più anziani – eccoci, per inciso! – poterono vederli nell’infame conca di asfalto del Forum di Milano. Da allora mai più un nuovo brano, né altri segni di vita, prima di questo annuncio e delle polemiche che si è portato dietro ancor prima di partire: dalla sostituzione del già malato Timi Hansen con Joey Vera, divenuta purtroppo definitiva con la dipartita del bassista originale, all’esclusione di Michael Denner, sui cui retroscena si sono sprecati fiumi di inchiostro ma nessuna dichiarazione ufficiale. Mai come in questo caso, però, ci permettiamo di dire che è il caso di far parlare la musica… e le immagini, visto che l’attenzione alla scenografia è sempre stata centrale, per questa band.
Su questo punto, nulla da dire: quando l’enorme telo che copre il palco viene calato, non manca proprio nulla: dalle scalinate di marmo che King Diamond percorrerà per chilometri all’altare-cubo che funge anche da camerino al Redel Male, passando per candelabri, un’enorme croce rovesciata e una serie di dettagli alle soglie dell’horror vacui. L’apertura è affidata a “The Oath”, e come annunciato tutti brani saranno tratti da i primi due dischi, oltre all’EP omonimo. O quasi. Dopo un avvio leggermente affannato, la band fa la curiosa scelta di proporre un brano inedito; non si capisce se per rifiatare già o rodarsi meglio senza rischiare di ‘rovinare’ qualche classico: fatto sta che la nuova “The Jackal Of Salzburg” risulta sicuramente interessante, ma decisamente da limare e rendere più organica, anche se ha tutta la potenzialità della grande suite horror tipica della band. Certo, in questo modo vengono per certi versi ‘buttati’ oltre dieci minuti di esibizione, ma da “A Corpse Without A Soul” in poi tutto fila alla grande. King Diamond va leggermente in palla su “A Dangerous Meeting”, ma per il resto la sua voce ha del miracoloso; il già citato Joey Vera è una macchina, così come Bjarne Holm dietro le pelli, mentre Mike Wead, per quanto possa patire l’eredità di Denner, mostra comunque il suo pluridecennale affiatamento con Mr. Petersen e anche con Hank Shermann, a ben vedere. Shermann che, ovviamente, è l’altra grande aspettativa della serata, e si mostra in forma e sorridente. L’ora e mezza prevista viene raggiunta anche grazie a tattiche pause, il rimpiantoper un paio di brani mancati è forte, ma nel complessivo il voto è più che positivo. Attendiamo sviluppi a corna al cielo.

Come detto in apertura, i co-headliner della sera, ossia i Killing Joke, hanno defezionato. Al loro posto, ma in uno slot più avanzato, ecco quindi i LEPROUS. La band norvegese ha l’onere/onore di chiudere l’intera kermesse, e a dirla tutta sono  il desiderio di defatigare e di passare ancora un’ora con gli amici a farci assistere al loro concerto. Va dato atto dell’impegno, della voglia di coinvolgere il pubblico e dell’energia spesa, specie da parte di Einar, che salta per tutto il concerto senza risparmiare le sue circonvoluzioni vocali; ma dopo l’esibizione di King Diamond e compagni sarebbe stato difficile tenere desto l’interesse per chiunque, figuriamoci per una band dalle pulsioni schizoidi e prog; e che, rispetto ad altre esibizioni viste in tempi ormai lontani, ci sembra aver ormai ceduto del tutto al lato più asettico e onanistico del proprio spettro musicale.
Poco male, l’adrenalina resterà ancora in corpo per qualche ora, assieme all’assoluta soddisfazione complessiva per un festival promosso senza molte riserve. Do zobaczenia, Gdansk!

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