08/06/2023 - MYSTIC FESTIVAL 2023

Pubblicato il 11/07/2023 da

Un’edizione relativamente sfortunata, quella dell’evento polacco di cui ci accingiamo a parlarvi, perlomeno se rapportata a quella dello scorso anno: mettendo da parte le esibizioni che non hanno avuto modo di tenersi per vari motivi – Exodus a causa dei problemi familiari di Gary Holt, mentre perl Lord Of The Lost ancora non ci è chiaro – abbiamo notato spesso e volentieri una gestione dei suoni non ottimale sul palco principale; problematica non presente invece sul Park Stage, ossia il secondo palco in ordine di grandezza, se non fosse che quest’ultimo si è reso disponibile per l’utilizzo solo nelle ultime due giornate, probabilmente anche per ragioni logistiche, costringendo quindi a cambi nella disposizione delle band, accavallamenti non previsti con le esibizioni sugli stage minori e così via.
Aggiungeteci un significativo aumento dei prezzi, unito a qualche scivolone inspiegabile di carattere gestionale sul campo – vedi l’impossibilità (a volte) di uscire con la birra in mano da una determinata area accanto al parterre del main stage, nonostante anche lì ci fossero stand addetti alla stessa identica funzione – e avrete il quadro completo dei difetti intercorsi nel corso dell’edizione 2023 del Mystic Festival, che ha sede nella ridente città di Danzica.
Fortunatamente c’è stato molto spazio anche per la goduria, non solo sul versante musicale, in quanto la location in prossimità dei cantieri navali continua ad avere un fascino industriale tutto suo, così come il setting nell’insieme, in cui trovano posto anche numerosi stand gastronomici e persino un cinema con proiezioni di culto del genere horror. Inoltre, gli orari permissivi delle esibizioni ci hanno permesso di bearci all’insegna delle passeggiate, con annesse bevute e scorpacciate, in prossimità del centro di questa piacevolissima città nel nord dell’est Europa. Se volete sapere qualcosa in più in merito alle esibizioni cui abbiamo avuto modo di assistere, vi rimandiamo al reportage completo nelle prossime righe. Buona lettura!

MERCOLEDÌ 8 GIUGNO

Trattandosi di una giornata di riscaldamento, nonché quella del nostro arrivo in terra polacca, abbiamo avuto modo di assistere a poche esibizioni, previste tutte per gli stage minori, di cui uno all’aperto e ben due al chiuso. La nostra avventura comincia sotto il vessillo della band anglo-australiana DESTROYER 666, giunti in sostituzione dei Godflesh, e il loro speed/thrash con influenze black, aggressivo e senza compromessi o sofisticazioni, che non può che essere accolto dagli astanti con urla e pinte alzate verso il soffitto dello Shrine Stage.
Una celebrazione del metal più duro e perforante, come anche le parole del frontman K.K. Warslut fra una canzone e l’altra tengono a sottolineare. La band è in ottima forma e i tre chitarristi dominano il fronte del palco con un look ‘denim and leather’ e un piglio aggressivo che dosano in abbondanza per ogni pezzo, andando a toccare ogni album della loro discografia con produzioni recenti, come la ancora nuovissima “Never Surrender” o la successiva “Wildfire”, ma anche con cavalli di battaglia del calibro “Lone Wolf Winter” e “Satanic Speed Metal”. Forse uno show non così coinvolgente nella sua seconda metà, quando il ritmo dei brani comincia a farsi un po’ ripetitivo, ma senza dubbio un inizio festival di notevole impatto. (Gregory Chiesa)

Torniamo all’aperto in prossimità del Shrine Stage e proseguiamo in chiave drasticamente più raffinata, seppur mantenendo intatta la radice australiana, con i NE OBLIVISCARIS e la loro proposta dalle molteplici colorazioni e sfumature. Purtroppo l’assenza di uno dei due cantanti, ovvero Marc Campbell, costringe la band ad adottare una soluzione sostitutiva grazie a James Dorton, che comunque fornisce una prova esemplare, anche se si percepisce una coordinazione inferiore col suo collega dedito alle voci pulite (nonché al violino) Tim Charles.
Impeccabili invece sul fronte strumentale, e ci fa enormemente piacere vedere il nostrano bassista Martino Garattoni perfettamente inserito in un contesto in cui trovano posto solo cinque pezzi dalla lunghezza notevole, provenienti da tutti e quattro i loro full-length disponibili sul mercato. La stanchezza data dal viaggio comincia a farsi sentire durante uno show che non fa certo dell’immediatezza il proprio punto di forza, ma negare le incredibili doti di questo combo a tinte progressive sarebbe a dir poco da criminali, e siamo sicuri che tutti i presenti siano d’accordo. (Roberto Guerra)
Irrinunciabile a questo punto un sano revival del repertorio dei leggendari Motorhead in compagnia di PHIL CAMPBELL AND THE BASTARD SONS, che stasera si cimentano in uno show incentrato unicamente sugli inni immortali composti da Sua Maestà Lemmy Kilmister nel corso della sua gloriosa carriera. Mai come in questo caso sarebbe inutile esaminare tutti i brani, così come ribadire il piglio che questi riescono ad avere su una platea già gremita di metallari e rocker di sorta, che su pietre miliari come “Iron Fist”, “Over The Top”, “Going To Brazil” e “Bomber” non può non rompersi qualche osso, senza nulla togliere anche a estratti più recenti, come “Rock Out”.
Chiaramente la resa non è nemmeno paragonabile a quella che sussisteva al cospetto dell’immortale frontman coi baffi a manubrio, però il suo ex chitarrista svolge ottimamente la propria parte, e i suoi figli in fin dei conti si rendono fautori di un piacevolissimo tributo, come in ogni occasione passata. Immancabili poi le inflazionatissime “Ace Of Spades”, “Killed By Death” e “Overkill”, che sarebbe a dir poco deprecabile non conoscere, nel momento in cui ci si etichetta come appassionati della grande musica rock/metal. (Roberto Guerra)
Chiudiamo nella totale ignoranza questa prima serata vicino al Desert Fest in compagnia dei WITCHMASTER, band originaria proprio della Polonia, ma residente ormai da anni in terra inglese, dedita ad un sound non lontano da quella dei loro colleghi e amici Destroyer 666, che infatti prendono posto nel pubblico a pochi metri da noi. Ben sedici canzoni in appena un’ora di tempo, a dimostrazione della proposta quadrata e demolitiva messa in piedi da un combo allineato agli stilemi del black/thrash a tinte speed, e onestamente ben in grado di rendere giustizia al proprio genere: la velocità la fa da padrone, così come la violenza e la carica di piombo che questo quartetto ci scarica direttamente nelle budella.
Chiaramente la varietà non è di casa, al contrario dell’adrenalina e dell’headbanging, che si fermano solo in pochi momenti isolati, costringendoci a segnarci il nome di questa band per poi approfondirla in separata sede su disco. Se apprezzate il sound ignorante e smitragliante tipico di line-up come queste, i Witchmaster sono un ascolto irrinunciabile. (Roberto Guerra)

GIOVEDÌ 9 GIUGNO

La notizia della mancata funzione del Park Stage non tarda ad arrivare, così come quella in merito all’annullamento del concerto dei Lord Of The Lost e degli inevitabili spostamenti dati dalla situazione odierna, che di fatto ci hanno scombussolato gran parte dei piani in merito al nostro personale running order.
Stando così le cose, decidiamo di iniziare il nostro tardo pomeriggio musicale in compagnia dei WHITE HILLS. Il duo di New York è ormai considerato un’istituzione del rock psichedelico a stelle e strisce e sul Desert Stage mostra tutto il suo carattere garage, tanto nella sostanza del sound e dei pezzi scarni ed acidi, quanto nella forma e nel look sul palco.
La batterista Ego Sensation si esibisce in piedi e con indosso una tuta nera di lattice dando ai pezzi un incedere preciso e lisergico, mentre il chitarrista Dave W. sfoggia un suono di chitarra acido ed oscuro ma anche una camicia floreale e uno sguardo che ci ricorda quello di Alice Cooper. La setlist pesca in buona parte dalla prima metà dalla loro discografia ed ha davvero una buona presa sugli astanti, che rispondono con scroscianti applausi. (Gregory Chiesa)
Successivamente, la tappa obbligata è anche la più ovvia, ovvero il Main Stage in vista dell’esibizione dei TESTAMENT, con nuovamente in formazione quell’asso della sei corde che risponde al nome di Alex Skolnick, che ricordiamo è dovuto risultare assente nella data di Milano a causa di problemi familiari. L’iconica thrash metal band statunitense avrebbe dovuto esibirsi sul meno ingombrante Park Stage, ma la piega che hanno preso gli eventi ha costretto a questo cambio: il risultato è uno show più corto e con suoni peggiori rispetto a quelli che avrebbero potuto trovare diversamente, ma per fortuna ci pensano pezzi maiuscoli come le immancabili “The New Order”, “The Preacher” e “D.N.R.” a tenere alto l’entusiasmo, insieme a estratti più recenti come l’ormai ben nota “Rise Up” e l’ancora nuova “Children Of The Next Level”. Purtroppo la taratura non ottimale dei suoni impedisce allo show di essere potenzialmente perfetto come (quasi) sempre, nel loro caso, e la sensazione generale è che sul Park Stage lo show avrebbe avuto un altro sapore, nonostante le dimensioni meno gargantuesche; sensazione che verrà confermata il giorno dopo, ma ne parleremo più avanti. (Roberto Guerra)
Dopo esserci nutriti in vista della lunga serata, torniamo in prossimità del Main Stage per assistere a quello che è probabilmente lo show dal maggior richiamo quest’oggi, ossia quello degli autoctoni BEHEMOTH, la cui presenza spiega anche la quantità di processioni cattoliche urlanti in giro per la città sin dal mattino (potete immaginare la nostra gioia al risveglio), intente a screditare il nome del festival e della band stessa, il cui leader Adam ‘Nergal’ Darski è divenuto la superstar che conosciamo anche grazie alla sua capacità di elevare se stesso alla stregua di una sorta di simbolo blasfemo e opposto agli stilemi religiosi, ancora molto influenti in patria.
Ebbene, mettendo da parte queste considerazioni, notiamo con piacere che anche dalle loro parti i Behemoth non perdono una virgola della loro capacità di intrattenimento: lo show è un concentrato di energia ed effetti scenici, con dei suoni fortunatamente migliori rispetto alla media odierna. La scaletta rispecchia quanto ci si poteva aspettare, con l’apertura affidata ad “Ora Pro Nobis Lucifer” e diversi estratti dal recentissimo “Opvs Contra Natvram”, affiancati però da classici come “Conquer All”, “Daimonos”, “No Sympathy For Fools” e così via.
Purtroppo non siamo in grado di comprendere le frasi in polacco pronunciate dal buon Nergal tra un pezzo e l’altro, ma vedendo l’esaltazione che si impossessa degli astanti possiamo capire quanto questa band sia rilevante entro i propri confini, e non solo. Per quanto ci riguarda – e per quanto riguarda anche alcuni scettici, ricredutisi nel corso del concerto – questa è la miglior esibizione di oggi, senza nessun dubbio. (Roberto Guerra)

Prima degli headliner, nella cornice del Desert Stage, bastano pochi istanti in compagnia delle prime note del lungo e rilassato assolo di chitarra, in apertura del set degli EARTHLESS, per proiettare tutta l’audience in una sorta di trance sonica e per poi travolgere tutti quando, all’apice di questo trattato sull’euforia chitarristica ad opera di Isaiah Mitchell, il trio californiano riversa su di noi il tema di “Night Parade Of One Hundred Demons” come un’immensa onda oceanica.
Una jam di psichedelia heavy trascinante e colma di gravità lisergica, che non è possibile contrastare con le nostre sole forze, e nella quale veniamo trascinati tramite groove di batteria rotondi ed incessanti ad opera del sempre eccezionale Mario Rubalcaba ed assoli di chitarra lunghissimi che si intervallano a riff e contro tempi. Il trio sembra esibire un’energia infinita e così la suite in due parti dell’ultimo disco viene eseguita senza un vero e proprio attimo di pausa. Al suo termine ci risvegliamo frastornati e sbalorditi ma all’unisono ci ritroviamo ad urlare nuovamente di gioia, quando viene annunciato il terzo ed ultimo pezzo della serata, sulle note del classico rock blues della band: la bellissima “Cherry Red”. Sull’ultima nota, il trio conclude con saluti veloci dal palco un’altra delle migliori esibizioni dell’intero festival. (Gregory Chiesa)
Purtroppo ora arrivano anche i dolori, in quanto l’esibizione odierna dei GHOST è probabilmente la più fiacca di tutte quelle cui abbiamo assistito negli ultimi anni da parte del popolarissimo combo svedese.
Mettendo da parte dei suoni decisamente sbagliati e incapaci di valorizzare i singoli elementi del sound degli headliner di oggi, si nota sin da subito una sorta di scazzo generale da parte di Tobias Forge e truppa, che propongono un concerto dalla scaletta piuttosto simile a quella eseguita in quel di Milano poche settimane prima (tre canzoni in meno, per via del minor tempo a disposizione), ma senza la medesima energia e/o lo stesso coinvolgimento.
Inoltre, pare mancare una sorta di intesa generale in alcuni passaggi, soprattutto per quanto riguarda le parti di batteria, non provviste di quel tocco ben sincronizzato che non deve mancare mai, nemmeno in un genere orecchiabile come quello dei Ghost. Fortunatamente canzoni come “Rats”, “Spillways”, “Year Zero” e altre continuano a piacerci e quindi, malgrado un impatto minore, c’è comunque spazio per un po’ di canto da parte nostra; così come nell’encore, in cui a spiccare è sempre e comunque il trittico “Kiss The Go-Goat”, “Dance Macabre” e “Square Hammer”. Peccato, ci auguriamo si tratti solo di un caso sfortunato. (Roberto Guerra)
Siamo pronti a congedarci, non appena si sarà concluso lo show dei MOONSPELL, per cui vige un discorso a parte. Verrebbe da chiedersi se ci sia un segreto, o magari una ragione precisa, dietro all’incredibile capacità artistica ed il talento enorme di Fernando Ribeiro. A fronte di un’esibizione grandiosa da parte di tutta la band e dei suoni ottimi di uno Shrine Stage molto affollato, il cantante affronta tutto il set accovacciato e visibilmente in preda ad un forte dolore (una grave infezione allo stomaco che gli è valsa un ricovero ospedaliero immediato, come rivelerà lui stesso via social i giorni dopo), ma nonostante tutto con una capacità canora ed una presenza sul palco stupefacenti.
Al contrario, la band è in forma smagliante e, seppur tenendo d’occhio il loro prezioso frontman di brano in brano, si dimostra sempre un’elegante padrona di quel sound caldo e drammatico che è uno dei suoi marchi principali. Si rincorrono brani da tutto il loro percorso discografico classico e recente, tra cui quelli seminali per il gothic metal, come le grandiose “Opium” e “Alma Mater”, che raccolgono ovviamente una grande risposta dal pubblico. Ribeiro, con lo sguardo raramente sollevato dal pavimento (se non durante le smorfie di dolore) si contorce, ansima lontano dal microfono e rimane accovacciato con un braccio attorno all’addome ma la sua voce esce nonostante tutto potente, calda, teatrale e perfettamente intonata fino alle ultime note di “Fool Moon Madness”, nel finale.
Un ottimo show che si chiude con abbondanti saluti e ringraziamenti dal palco da parte di tutta la band e che merita tutti gli applausi scroscianti che ha raccolto, prima di dirigersi in ospedale. (Gregory Chiesa)

VENERDÌ 10 GIUGNO

L’epidemia di piccole band stoner doom inneggianti alla cannabis ci ha già regalato proprio in Polonia un’ottima band come i Belzebong, che sono in tutti e per tutto i nomi tutelari di questi MOONSTONE, anch’essi polacchi, che aprono la nostra giornata al Desert Stage. Questi quattro giovanotti hanno imparato bene la lezione e sfoggiano una tenuta di palco ed un sound davvero buoni. Per quanto i pezzi della loro breve esibizione non fossero particolarmente memorabili, ad eccezione forse di “Mushroom King”, nulla sembra mancare e il loro impatto sonoro, fatto di riff pesanti e fumosi, nonché tempi lenti e rotondi, è valido ed il pubblico manifesta rumorosamente la propria approvazione. (Gregory Chiesa)
Torniamo all’aperto e inauguriamo il finalmente operativo Park Stage in compagnia dei SOEN, una delle band di genere affine al prog metal più interessanti degli ultimi anni, che in questa sede si rendono protagonisti di uno show dotato di un ottimo sound e attitudine più impattante del previsto. I pezzi sono proposti con un piglio adeguatamente riflessivo e colto, ma non mancano anche l’esaltazione e lo stridio graffiante delle chitarre, ben evidenti nei sette pezzi che compongono la tracklist, di cui “Savia” si presenta come la più datata, mentre il resto pesca pressoché interamente dai due recenti “Lotus” e “Imperia”, con un risultato che ci ha saputo deliziare per più ragioni: dall’efficacia generale del loro sound, ad una presenza on stage gestita ottimamente da un combo di professionisti, che in questo progetto riversano tutta la propria preparazione, venendo di fatto accolti e poi salutati con sommo entusiasmo da ogni astante.
In particolare il vocalist Joel Ekelof fornisce una prova esemplare, vestendo perfettamente i panni del frontman, seppur nella sua sobrietà, anche quando decide di lanciare via il cappello. (Roberto Guerra)
Ci spostiamo ora verso la cornice, invero abbastanza ristretta, del Sabbath Stage, dove la band polacca SUNNATA si presenta con cappucci, mantelle e melodie rituali pesanti, quasi tantriche. Manca però tanta sostanza, tanto dal punto di vista esecutivo che compositivo, e i brani arrancano con un sound ed una struttura non particolarmente interessanti e coinvolgenti. Le voci monotonali ed incessanti attraversano ogni canzone senza particolari picchi e così fanno anche le melodie di chitarra. È sicuramente negli obbiettivi dei Sunnata il creare un’atmosfera mistica e oppressiva, ma oggi questo avviene senza un particolare successo da parte loro, né senza un gran coinvolgimento del pubblico. Nulla di notevole, purtroppo. (Gregory Chiesa)
Parlando dei LOST SOCIETY ci sorgono sempre spontanee le medesime domande, che riguardano principalmente il loro cambio direzionale intrapreso qualche anno fa, che li ha visti passare da una sorta di thrash metal moderno, ad un monotono e ridondante metalcore a tinte groove rivolto ad un pubblico potenzialmente giovane. Sebbene non fossero una cima nemmeno ai tempi, ora come ora ci riesce difficile assistere ad un loro show senza storcere il naso in almeno tre quarti dei passaggi, in quanto i brani selezionati e l’attitudine sfoggiata appaiono francamente molto lontani dal nostro gusto, ma in generale riteniamo che, anche parlando del loro genere attuale, in giro ci sia molto di meglio.
La loro esibizione ci risulta piatta e i pezzi proposti non riescono praticamente mai a coinvolgerci, e anche gli astanti paiono un po’ perplessi, tant’è che ci domandiamo cosa abbia spinto gli organizzatori a collocarli sul Main Stage, anche perché la scaletta pesca pressoché interamente dal loro ultimo lavoro, con in più un paio di parentesi dal precedente e solamente una antecedente, in cui si intravede quell’estro thrash degli inizi, ovvero quella “Riot” che aveva convinto qualche ascoltatore. Un concerto oltremodo evitabile, così come la loro proposta in generale. (Roberto Guerra)
Finalmente arrivano le mazzate di fronte al Park Stage, date con criterio e fame di violenza in compagnia dei deathster svedesi DISMEMBER, protagonisti indiscussi della scena swedish death metal degli anni ’90 e ambasciatori di un sound tellurico e sanguinario, come ben si addice ad un combo che da oltre trent’anni rende felici gli amanti del metal estremo alla vecchia maniera.
Un concerto che ingrana la marcia sin dalle prime battute, anche grazie ad un’apertura affidata al primo pezzo del loro primo album, ovvero “Override Of The Overture”, passando poi per “Pieces” e giungendo a quella “Of Fire” che proviene dall’album intitolato, come il genere stesso, “Death Metal”. Da qui in avanti lo show è un concentrato di volumi fuori scala, moshpit sfrenato nella polvere e sfuriate musicali eseguite con tanta ignoranza, ma anche con una sorta di classe e precisione di fondo, anche perché ricordiamoci che parliamo di cinque musicisti che suonano insieme da più di tre decenni. Matti Karki conferma poi le sue indiscutibili doti da frontman, simpatico e iracondo al punto giusto nel momento di dare il via libera al suo growl, mentre alle sue spalle suonano chitarroni massicci e una sezione ritmica che non fa prigionieri. Dopo il finale con “Bleed For Me” e “In Death’s Sleep” appare chiaro che, senza alcun tipo di pretesa arzigogolata, i Dismember riescono a portare a casa una delle migliori performance del festival, costringendo chi verrà dopo a tener ben presente che, indipendentemente dalle pretese compositive, col death metal classico c’è poco da scherzare. (Roberto Guerra)

Torniamo di fronte al Main Stage per assistere allo show degli svedesi THE HELLACOPTERS, nonché del loro leader Nicke Andersson, divenuto famoso come uno dei musicisti più poliedrici del panorama, grazie alla sua militanza in realtà estreme come gli Entombed, ma anche in proposte più tetre come i Lucifer, di cui parleremo più avanti.
Coi The Hellacopters possiamo dire che viene messo in piazza il suo carattere da frontman, nonché la sua anima più hard rock/punk, e in effetti questa si presenta coerentemente appena presa visione della struttura del palco adibito per l’occasione: molto essenziale, con una batteria in posizione relativamente avanzata e la sola attitudine rockettara a fungere da biglietto da visita. L’impatto c’è tutto e l’estro più garage punk si mantiene invariato per tutto il concerto, che peraltro si compone di ben sedici canzoni, che spaziano dal loro repertorio anni ’90 agli estratti più recenti, con molta importanza data all’ultimo album “Eyes Of Oblivion”, uscito peraltro a ben quattordici anni di distanza dal precedente.
Sebbene subentri un leggero senso di piattezza andando avanti col concerto, saremmo ingrati a non riconoscere l’energia trasmessa da un combo che, similmente ai Dismember, malgrado il genere diverso, per intrattenere ha bisogno solo dei propri semplici strumenti e di uno stile che non invecchia mai, nemmeno quando il panorama sembra andare sempre di più in direzione dei suoni plastificati e delle produzioni opulente. (Roberto Guerra)
Pensiamo per un attimo al solo concetto di una band, indubbiamente padrona di un culto di fan fedelissimi, che chiude ancora una volta la propria esibizione come ha sempre fatto: uno dei suoi pezzi più famosi, più negativi e frastornanti, accompagnato sullo sfondo da incessanti immagini di gigantesche esplosioni nucleari sovrapposte a pattern psichedelici, al refrain di “nuclear warheads, ready to strike“. Chiedetevi, quale band potrebbe mai farlo in Polonia, nella primavera del 2023, con una sanguinosa guerra che divampa sul confine? La risposta non può che essere: ELECTRIC WIZARD.
È questa la chiave di lettura di tutto lo show: il totale shock sonoro – ma anche audiovisivo – per il quale la band si è sempre contraddistinta, riversato ancora una volta con piena potenza, cattiveria e groove, sul palco del Park Stage. Non ci sono novità o sorprese, come non ci sono vie di fuga (nemmeno per chi vorrebbe allontanarsi a metà concerto per seguire altre band contemporanee nel programma); i quattro alfieri dell’apocalisse ripropongono la stessa scaletta dei classici di sempre, cominciando con le “Black Masses” e “Witchcult Today” di rito, coi loro riff taglienti, e lentamente scendendo nell’oscurità dello stoner doom più roboante e lancinante di “Satanic Rites Of Drugula”, “The Chosen Few” e altre poesie infernali. P
er chi, come chi scrive, non rivedeva la band da qualche anno, si è trattato di un concerto maestoso ed ipnotico da parte di un quartetto solido e sugli scudi. Un diabolico padrone di melodie e groove potenti e meravigliosamente fedele a se stesso nel bene e, soprattutto, nel male che la stessa musica dei britannici rappresenta. E quindi, dopo una lunga tortura con feedback a tutto volume, eccoci al finale con la sopracitata “Funeralopolis”: un annichilente sfogo di rabbia e distruzione, in cui i fuzz e la saturazione dei suoni crescono continuamente di intensità e le tanto citate testate nucleari esplodono davanti a noi, toccando con la loro onda sonora i nostri sensi e le nostre paure. (Gregory Chiesa)

Il Mystic Festival 2023 verrà sicuramente ricordato per il programma dalle sovrapposizioni sanguinose. La magia mesmerica degli Electric Wizard ci impedisce di abbandonare il loro palco prima della fine dello show e quindi ci rinchiudiamo nel Shrine Stage, fra le sue ombrose colonne di cemento, con un po’ di ritardo rispetto all’inizio del set dei CARPATHIAN FOREST. Lì troviamo il quintetto in preda ad un atteggiamento inizialmente distaccato, freddo e cattivo quanto basta per regalarci un vero assaggio dell’oscurità norvegese.
I due chitarristi ed il bassista si ergono alti, colossali e quasi impassibili, fatto salvo per gli episodi di headbanging, per quasi tutta la durata dello show ed assieme al batterista ci sparano addosso un sound robusto e tagliente. Un grande impatto rock’n roll di cui la band si è fatta maestra fin dagli esordi e che non può non riportarci alla mente i divini Motorhead e certo metal più scarno e duro.
Nattefrost è l’unico elemento che crea un contatto costante col pubblico, con incitamenti e ringraziamenti dopo ogni pezzo ed introduzioni anche interessanti e bizzarre, come la dedica della potente e cadenzata “He’s Turning Blue” a Kurt Cobain o come l’uso sporadico e casuale dell’armonica a bocca durante alcuni pezzi. Il suo fare sul palco, molto comunicativo, seppur appaia fisicamente più stanco ed appesantito rispetto al resto dei componenti, unito ai suoi ‘UH!’ e alla sua voce solo all’apparenza debole e fuori fase, ma in realtà cattiva e tagliente, diventa un punto focale dell’esibizione. La scaletta è concentrata in particolare sui primi tre album della band – più le due cover di ordinanza di Cure e Turbonegro – e diversi pezzi scatenano le urla di approvazione e l’headbanging continuo fra il pubblico, come “The Beast In Man”, “Sadomasochistic” e le potentissime “Black Shining Leather” e “Pierced Genitalia”. (Gregory Chiesa)
Nel mentre di tutto ciò, c’è tra noi chi preferisce seguire il sopracitato Nicke Andersson presso il Desert Stage, stavolta collocato dietro alle pelli della batteria dei LUCIFER, che non abbiamo potuto saggiare di supporto ai Ghost in quel di Milano a causa della inaccettabile gestione degli ingressi presso l’Ippodromo di San Siro che ultimamente sta mandando ai matti un numero impressionante di fan, indipendentemente dal concerto preso in analisi.
Ebbene, se il livello musicale di questa band dalla provenienza internazionale, rappresentata dalla bionda frontwoman Johanna Sadonis, era lo stesso anche in quell’occasione, non possiamo che invidiare chi è entrato in tempo; poiché questa formazione, seppur esistente da meno di un decennio, fa sfoggio di una maturità musicale notevole, abbinata ad una natura mista e in grado di accontentare i fan del heavy/doom metal, coì come gli amanti del rock anni ’70. Brani come “Ghosts”, “Leather Demon” e “Bring Me His Head” riescono a suonare eleganti e romantici, e nel contempo sanguinari e blasfemi, con un gusto generale che non tradisce mai la propria essenza e la necessità di risultare orecchiabile, e non solo accattivante.
Qualche leggerissimo calo vocale verso la fine e un piccolo problema tecnico in concomitanza di “Midnight Phantom” non influiscono negativamente su una performance solida ed eccitante, eseguita da una band che sicuramente deve tanto alla propria cantante e al suo estro, ma fa piacere notare che i Lucifer stiano facendo breccia nel cuore di molti ascoltatori col passare del tempo. Senza dubbio, con esibizioni come questa dimostrano di meritare ogni sostegno possibile. (Roberto Guerra)
Parlando del concerto di DANZIG – peraltro il primo nella città che porta il suo nome – ammettiamo che, nei momenti antecedenti l’ingresso on stage, le nostre sensazioni appaiono miste e un po’ intimorite, memori di alcuni suoi show drasticamente sottotono nel corso degli ultimi anni. In questa sede però ci fa piacere constatare che il corpulento vocalist statunitense, divenuto famoso a suo tempo per la militanza nei Misfits, riesce a mettere in piedi uno show alla vecchia maniera, grintoso e oscuro al punto giusto, con in più quell’anima rockeggiante intatta e perfetta per stimolare in noi qualche sana vibrazione nostalgica. Il tutto senza permettere a fotografi e cameramen di svolgere il proprio dovere, non chiedeteci perché.
La prima parte della scaletta vede l’esecuzione integrale del capolavoro omonimo, con quelle “Twist Of Cain”, “Am I Demon” e “End Of Time” a farla da padrone, se escludiamo l’inno “Mother”, che ormai è un vero e proprio classico del rock. Il buon Glenn piglia una nota su tre e si mostra spesso affaticato, ma ciò nonostante è bello notare che di fiato ne ha ancora abbastanza, così come di voglia di mietere qualche sacrificio, ovviamente sostenuto da una band di assi come il batterista Johnny Kelly (Kill Devil Hill, ex Type O Negative) e il chitarrista Tommy Victor (Prong), il cui tocco urlante risulta fondamentale per la buona riuscita dello show. Questo accoglie nella seconda metà della propria scaletta alcuni estratti dai lavori successivi all’esordio, tra cui “How The Gods Kill”, “Her Black Wings” e la conclusiva “Snakes Of Christ”, donando un altro po’ di gioia agli estimatori presenti e pronti a salutare il secondo headliner di quest’edizione del Mystic Festival con il sorriso sulla faccia. (Roberto Guerra)
Siamo pronti a tornare nel nostro appartamento, ma non prima di un ultimo saluto al maligno in compagnia dei WATAIN e della loro messa nera in chiave black metal. Il combo svedese ci aveva già fatto esaltare alla fine dell’ultima edizione del nostro festival, e anche in questa sede, malgrado una scaletta ridotta, la tempesta di sangue, acciaio e male puro scatenata da una delle realtà più apprezzate del panorama black mondiale ci travolge in pieno. La dose di ignoranza trasmessa dai volumi esagerati, dai riff granitici e dai perfidi sfoggi vocali può rivaleggiare con quanto fatto da altri sul Park Stage nelle ore precedenti, rafforzata dalla abnorme scenografia posta alle loro spalle e da un pubblico che ancora non vuole saperne di abbandonare headbanging e moshpit. Dieci pezzi, provenienti anche in questo caso da vari momenti della loro discografia – incluso l’esordio “Rabid Death’s Curse”, con il brano “On Horns Impaled” – per permettere agli astanti di andare a dormire con ben salda dinnanzi agli occhi la sagoma di Satana e del suo entourage di oscuri cantori ed adoratori furenti, pronti ad omaggiarlo una volta terminato il concerto, con tanto di inchino dinnanzi all’altare. (Roberto Guerra)

SABATO 11 GIUGNO

La proposta musicale dei BOMBUS è molto interessante per il suo incrocio non ben definito di rock duro, stoner desertico ed heavy metal. Tuttavia notiamo con piacere che la loro esibizione al Desert Stage sembra fare un passo al di là della mescolanza dei generi citati e si manifesta in una soluzione più semplice di swedish rock dalle tinte molto heavy.
I tre album  di maggiore interesse della loro discografia vengono rappresentati equamente e con un’immensa dose di energia, dalla prima metà con le grintose “(You Are All Just) Human Beings” e “Repeat Until Death”, sino alla favolosa chiusura di “Biblical” ed “Enter The Night”. La band appare freschissima nella sua attitudine molto rock e suona con un grande carico di groove, con un’ottima sezione ritmica, alle prese con una scaletta dritta e di impatto seppure dai ritmi molto vari, e le tre chitarre che si alternano in una catena di riff ed assoli sempre grintosi. I due cantanti Feffe e Matte si alternano con maestria al microfono, il primo sui pezzi dal timbro più duro e il secondo su linee melodiche leggermente più articolate, ma entrambi con grande ruvidità. A livello sonoro, e vista la struttura dei pezzi, si ha l’impressione di ascoltare la versione rock di un uragano che da decenni gira per il continente, raccogliendo correnti più classiche e mescolandole con quelle tonalità più abrasive e moderne, e che oggi si abbatte con potenza su un pubblico molto appassionato e coinvolto, dentro all’enorme cimitero navale di Danzica. (Gregory Chiesa)
Esistono band di culto, di successo e che hanno scritto la storia, e fra queste possiamo riconoscere quelle imperdibili ai festival, così come quelle che meriterebbero palchi più ampi. I VOIVOD riescono ad inserirsi quasi per intero in ciascuna di queste categorie e si meriterebbero appunto una sistemazione di prim’ordine, ma si ritrovano ad inizio serata sul Shrine Stage, che, seppur ottimo per quanto riguarda i suoni, è fra i più contenuti e di difficile ingresso di tutto il festival. Chiaramente ai quattro canadesi questo aspetto, ‘sofferto’ da molti fan, non importa affatto, e dopo un rapido ingresso sul palco si lanciano nella propria esibizione con l’asciuttezza thrash di “Killing Technology”, “Obsolete Beings” e “Macrosolutions To Megaproblems”, inchiodando immediatamente gli spettatori sul proprio posto.
Uno show che per tutta la prima metà si fa carico di nervo e velocità strumentale, che a tratti sembra quasi eccessiva e confusionaria, come se stressasse certi passaggi delle canzoni, comprimendoli, o rendendoli poco chiari; anche questo forse è l’intento della band, viste le sue influenze fantascientifiche. Difficile immaginarsi un Chewy alla chitarra meno carico e felice dell’andamento odierno; il suo suono è ricco e tagliente, la sua mano non si ferma un solo secondo, così come il suo ghigno non sparisce mai e anzi si trasforma subito in un sorriso quando gli applausi del pubblico marcano la fine di ogni canzone. Meno espressivo nella mimica facciale, ma chiaramente determinato a dare il massimo nelle canzoni e nel contatto col pubblico è invece Snake, dalla voce grezza e difficilmente domabile, sempre pronto a lanciarsi sul fronte del palco per dare carica ai testi cervellotici e spaventosi.
“Rise” e “Rebel Robot” hanno un ritmo più cadenzato ed è come se ci spostassero lentamente verso una seconda parte del set dai ritmi leggermente più lenti. Lì trovano spazio anche due brani dell’ultimo “Synchro Anarchy”, eseguiti uno dopo l’altro e dopo i quali la band ci regala la chicca “Fix My Heart”, da quel capolavoro mai adeguatamente incensato di “The Outer Limits”. Dopo questa arriva in chiusura l’inno della band, “Voivod”, e gli ultimi minuti dello show diventano una celebrazione collettiva, raccogliendo più generazioni di fan ma anche più epoche e sonorità. E cosi’ il varco dimensionale si chiude. (Gregory Chiesa)
Nel frattempo, parlando di sovrapposizioni infelici, tra noi c’è chi decide di prendere posto di fronte al Main Stage in attesa dell’ingresso degli americani DARK ANGEL, altra band ricordata come una tra le più fenomenali del panorama thrash old-school, soprattutto se parliamo di quelle più tecniche e preparate. Il batterista Gene Hoglan non ha bisogno di presentazioni, e la sua prova a dir poco esemplare è il simbolo di una capacità unica di sorreggere il palco e la struttura stessa dei brani, affiancato peraltro da sua moglie Laura Christine alla chitarra, entrata in pianta stabile per sostituire il compianto Jim Durkin. Il vero problema del concerto risiede nei suoni, ancora una volta inadeguati e non idonei a un palco di questa portata, e nella resa vocale del frontman Ron Rineheart, decisamente sottotono e persino fastidiosa durante gli acuti, compensata però da un’ottima interazione col pubblico.
Per quanto riguarda i pezzi invece è chiaramente un’emozione per noi poter tastare la portata di tracce come “We Have Arrived”, “Time Does Not Heal” e “Merciless Death”, anche se riteniamo la prova odierna avrebbe giovato non poco di una situazione analoga a quella del Park Stage, più contenuta e con suoni migliori; senza contare che l’affluenza non giustifica in alcun modo una platea tanto estesa, malgrado la presenza di un moshpit di buone dimensioni. L’accoppiata finale “Darkness Descends” e “Perish In Flames” ci rifila un ultimo schiaffo, prima di farci prendere coscienza di aver assistito a uno show convincente, ma anche deludente sotto diversi punti di vista, e che speriamo di poter replicare presto in un contesto diverso. (Roberto Guerra)

Discorso opposto per i MESHUGGAH, che costringono una folla enorme a stringersi di fronte al Park Stage, da dove vengono sprigionati dei suoni a dir poco demolitivi e terremotanti sui rintocchi di una setlist che modula tra accelerazioni violente e rallentamenti martellanti. La band svedese è infatti tra le più popolari del momento, nonché autentica inventrice ante litteram del cosiddetto sound djent, in questo caso proposto ancora con relativa fedeltà alla componente più cerebrale ed estrema, e il risultato è sempre e comunque una sequenza si bordate telluriche, in cui spiccano le più datate “Rational Gaze” e “Pravus”, così come le recenti “Broken Cog” e “Ligature Marks”. C’è posto persino per l’accoppiata “In Death – Is Life”/”In Death – Is Death”, giunta la quale è ormai chiaro che questa band avrebbe meritato un posto direttamente sul main stage, così come il loro numerosissimo pubblico; magari uno scambio di posizione con i Dark Angel avrebbe potuto giovare a entrambi, ma è anche vero che col senno di poi siamo bravi tutti a parlare. Fatto sta che la prova dei Meshuggah rende comunque giustizia alla loro popolarità e alla loro nomea di autentici devastatori di platee, e la conclusione con l’ossessiva “Demiurge” e la perfida “Future Breed Machine” lo ribadisce ulteriormente. (Roberto Guerra)
La presenza degli SLEEP TOKEN, con la loro formula di canzoni indie pop imbellite da sonorità del metal più moderno, non può non creare interrogativi e qualche perplessità, tanto in questo festival quanto fra l’audience metal in generale. Ma entrati allo Shrine Stage a concerto già in corso, troviamo un pubblico più o meno di giovanissimi totalmente rapito da una band che, con un buon mestiere, sa intrattenere l’audience ed esprimere le qualità più efficiaci del loro sound. La voce in particolare, dal timbro molto pulito, a tratti supplichevole, la fa da padrone con melodie che solo di rado si intrecciano con sonorità metal, ma che non mancano di impatto e presenza anche grazie al lavoro delle tre coriste a fondo palco.
I costumi di scena sono anch’essi al passo coi tempi, con cappucci e tuniche nere lunghe fino ai piedi e maschere o bende insanguinate a coprire il volto dei musicisti, che si lanciano spesso in movenze teatrali. Ogni ritornello viene cantato a squarciagola e quasi per intero dal pubblico all’unisono, in un’atmosfera che a lunghi tratti si avvicina più a quella di uno spettacolo pop, soprattutto grazie a una scaletta che spinge a dovere sui brani più conosciuti come “The Summoning” e “Alkaline”. Un’impressione però da cui veniamo distratti negli stacchi strumentali, in particolare grazie ai suoni di chitarra e basso a volte vicini al djent, ma anche dal cantato quando si distacca dai toni melliflui verso lo scream. A prescindere da una qualità buona dell’esibizione di stasera, non ci è dato sapere quanto la band voglia accostarsi alle sonorità più metal, ma si ha l’impressione che al loro pubblico fedele, e tutto sommato numeroso, questo non interessi. (Gregory Chiesa)
Finalmente il Main Stage fornisce la propria miglior prova grazie all’ultimo headliner di questa edizione, ovvero i francesi GOJIRA, anch’essi divenuti ormai una vera e propria istituzione, nonché degli autentici idoli del metal moderno, ma ancora carico di quel gusto e quella botta che contraddistinguono da decenni le sonorità di estrazione death e groove.
I fratelli Duplantier sono due strumentisti incredibili ed esecutori dalla precisione chirurgica, e le atmosfere oniriche evocate da brani come “Stranded”, “Flying Wales” e “Another World” vengono infiammate dalla violenza trasmessa da una sezione ritmica che fa tremare la terra, anche grazie alle legnate di Mario sulle pelli, mentre il buon Joe accoglie gran parte del calore del pubblico presente, intonando sfoggi timbrici graffianti e sviscerando riff all’apparenza dissonanti, eppure coerenti col songwriting reso celebre dalla sua band. Questi trovano inoltre ulteriore sostegno strumentali nel chitarrista Christian Andreu, che a volte sembra quasi passare in secondo piano, ma siamo sicuri che il suo lavoro sul manico della Jackson da lui impugnata sia meritevole di molti applausi.
Gli astanti non possono non gradire il pacchetto completo, e ci fa piacere notare che anche i più scettici si ricredono quando i rintocchi delle varie “L’Enfant Sauvage”, “The Chant” e “Amazonia”, sulle quali si manifestano gli ultimi moshpit del festival, ma non prima dell’encore composto dalla recente “Silvera” e dalla ben nota “The Gift Of Guilt”, conclusione del concerto migliore tra quelli degli headliner, nonché uno dei candidati alla testa della nostra classifica personale. (Roberto Guerra)

Abbiamo detto l’ultimo moshpit? Ebbene, ci conviene ricrederci perché è col vulcanico PERTURBATOR che si giocano gli ultimi minuti della partita sul Park Stage, in quanto l’araldo della synthwave made in France, man mano che passano gli anni, si dimostra sempre di più un autentico fenomeno, caro ai metallari più che a chiunque altro, grazie alla sua attitudine e ad un sound elettronico ibrido, volto a valorizzare atmosfere al limite dell’horror cyberpunk.
Del resto, lui stesso è un metallaro da sempre, e la sua prestazione di oggi su tastiera, sintetizzatore e chitarra, sorretto da un lavoro di batteria encomiabile alle sue spalle, tinge il tutto di un colore ancora più nitido, nel caso ci fossero dei dubbi sulla sua appartenenza. L’intero concerto, per quanto danzabile, mette sul piatto una carica e una botta sonora che persino molte metal band tradizionali possono solo sognare, al punto tale da portare gli ultimi astanti rimasti a sollevare un polverone immane ed elevando questo ultimo atto del Mystic Festival 2023 dritto tra i migliori in assoluto. Il titolo della opener “Excess” rispecchia esattamente l’eccesso portato in scena per farci godere, toccando l’apice con “Neo Tokyo”, “Humans Are Such An Easy Prey” e verso la fine con “Tactical Precision Disarray” e “Tainted Empire”, che è anche l’ultima canzone che sentiremo in questo specifico contesto.
Se avete dei dubbi, dati magari da un pregiudizio di qualche genere, vi consigliamo di metterlo da parte e fare una capatina nei meandri della synthwave, perché in essa si possono trovare dei gioielli come quello che ha appena finito di deliziarci. (Roberto Guerra)

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