Report a cura di Edoardo De Nardi
Ancora Toscana, ancora The Jungle, che si conferma ormai come assoluto punto di interesse estivo per ogni amante del rock in tutte le sue sfaccettature e, naturalmente, ancora una volta una serata dedicata alle multiformi sfumature del metal: gli ingredienti rimangono invariati rispetto alle fortunate calate toscane di Obituary, Skid Row e Venom presso la venue pisana, per l’ennesimo trionfo di una delle band seminali per il genere, e per tutte le sue derive, grind-core: i Napalm Death hanno infatti egregiamente concluso questa prima edizione del Watchtower Fest, festival particolare in quanto popolato da realtà per molti versi ‘alternative’ rispetto ad una concezione integralista e non contaminata della musica. Vi raccontiamo quindi come si sono svolti i fatti di una delle ultime manifestazioni estive degne di nota, prima di addentrarci nuovamente nelle fumose atmosfere invernali dei locali delle nostre città…
FALL OF DARKNESS
Si parte subito con gli opener locali Fall Of Darkness, ancora poco conosciuti al grande pubblico ma autori proprio quest’anno del loro debut “… In Perfect Asimmetry”, che diffonderà certamente il loro nome visto la buona qualità del materiale. Siamo in territori prog-thrash eleganti e melodici, memori però delle repentine sterzate verso partiture più veloci ed aggressive che hanno arricchito molte uscite del settore dagli anni ’90 in poi. Sembra insomma di trovarsi di fronte ad una versione rivisitata dei Megadeth più sperimentali di “Countdown To Extinction” e “Youthanasia”, che rivela una grande attenzione per la cura degli arrangiamenti e negli sviluppi atmosferici che costellano i suoi brani. La preparazione musicale dei ragazzi si dimostra più che sufficiente fin da subito, grazie anche a delle belle parti solistiche e ad una scelta dei suoni ponderata e di gusto: dispiace solo per gli sporadici errori che, proprio sui momenti arpeggiati di maggiore pathos, spezzano drasticamente la delicatezza del momento, e per una voce tecnicamente ben impostata ma sinceramente stucchevole nel complesso, ancora migliorabile nell’offrire varietà di toni e registri all’interno dei pezzi. Un buon antipasto comunque, che ci introduce nel vivo della serata e verso le band che presto presenzieranno sul palco del The Jungle questa sera.
ATOMIC BLAST
Con il secondo gruppo ci spostiamo in Emilia, fino alla provincia bolognese da cui provengono gli Atomic Blast. Questo giovane quintetto deve aver divorato senza tregua la discografia di Lamb Of God, Damageplan e tutto quel post-thrash ricco di groove tipico di molte band americane. Anche in questo caso, colpisce in positivo l’assoluta dedizione e gli ottimi risultati ottenuti con i propri strumenti dai musicisti, che a dispetto di un’età e di una carriera ancora acerba non temono assolutamente il confronto con il pubblico e la propria prestazione on-stage, esaltandosi nel corso della performance ed eseguendo brani coinvolgenti e dalla facile presa, con risultati certo non inaspettati ma comunque discretamente piacevoli. Francesco Vogli, sorta di ibrido illecito tra la voce e le movenze di Phil Anselmo e Randy Blythe, pur essendo ancora un po’ forzato nel timbro vocale, impostato su di uno screaming in tonalità medie ormai brevettato dallo stesso Anselmo, non si ferma un minuto sopra il palco, acquisendo diversi punti sotto l’aspetto scenico; mentre la coppia d’asce non dimostra cedimenti di sorta, accompagnata con dovizia da un basso trascinante e rotondo. Il lavoro dietro alle pelli avrebbe potuto essere certamente più ricco e minuzioso, col risultato di semplificare talvolta le trame ritmiche degli strumenti a corda, ma il genuino entusiasmo dei ragazzi e la crescente qualità dei pezzi in scaletta, hanno permesso di soprassedere a queste piccole pecche e salutare con un pollice alto lo show degli Atomic Blast.
NAGA
Anche i napoletani Naga si trovano a presentare la musica presente sul debut di recente uscita “Hen”, ma è subito palese la maggiore esperienza del combo rispetto ai loro predecessori: del resto, ben due terzi del gruppo deriva dai Kill The Easter Rabbit, band che, sin dal 2002 e fino all’anno scorso, si è cimentata in questo genere e di cui i Naga rappresentano la naturale prosecuzione. Stiamo parlando infatti di uno sludge/doom/post-metal altamente evocativo, minaccioso e poco raccomandabile, sviluppato intorno ad un songwriting riflessivo e contemplativo, memore anzitutto della lezione impartita dai padrini Neurosis, ma sporcato allo stesso tempo dall’esoterismo degli Electric Wizard e dalla negatività congenita del black metal. Più semplicemente, i Naga propongono musica straziata e disperata, ed utilizzano quale perfetto strumento di tortura la lentezza e la pesantezza pachidermica del doom. La curiosità di testare anche in sede live la resa sonora del gruppo era certamente molta e possiamo ritenerci perfettamente soddisfatti del risultato oggi raggiunto da questo trio: la scelta dei suoni, fondamentale per questi tipi di realtà, risulta sin dal rapido soundcheck pachidermica e mastodontica, mentre la prova vocale del cantante/chitarrista Lorenzo De Stefano è ammaliante, ipnotica e ieratica al punto giusto, perfettamente coadiuvata dalle tonnellate di fuzz ed effetti sprigionati dalle quattro corde di Emanuele Schember, altro elemento fondamentale alla buona riuscita del progetto napoletano. Nel giro di poco tempo, il nome di questi musicisti si sta diffondendo davvero a macchia d’olio e non possiamo che ritenere del tutto meritato questo crescente successo riservato ad “Hen” e ai Naga: avanti così, quindi, per questo nuovo orgoglio tutto made in Italy, la loro strada sarà sicuramente in discesa nel prossimo futuro.
SHORES OF NULL
Tocca quindi ad un altro astro ascendente del panorama metal tricolore calcare il palco del The Jungle, ovvero gli Shores Of Null. “Quiescence”, primo lavoro della band pubblicato niente meno che da Candlelight Records, ha riscosso anche sulle nostre stesse pagine un trattamento esclusivo e di massimo rispetto, a ragione di un lotto di brani eterei ed aggressivi, sognanti e disincantati, caratterizzati insomma da numerosi elementi teoricamente agli antipodi, ma amalgamati dagli Shores Of Null con esperienza e maestria. La trama principale, comunque, rimane ancorata al melodic-death ed al death-doom più intimistico ed emotivo, effettivamente miscelato alla componente death con naturalezza ed agilità dai cinque romani, che trovano in questa vincente commistione il loro asso nella manica. Sfortunatamente, la perfetta amalgama nei suoni dei vari strumenti, necessaria per rendere intelliggibili al meglio gli intrecci delle canzoni, non raggiunge oggi un risultato eccelso, penalizzata in primis da un suono di chitarre fin troppo presente e tagliente, che poco si addice all’habitat stilistico in cui si muovono gli Shores Of Null. Anche la voce di Davide Straccione, elemento distintivo di spessore grazie alle linee melodiche fantasiose e profonde con cui arricchisce i brani, non risalta come dovrebbe e rimarrà lungo tutto il corso della performance soffocata dall’invadente presenza degli altri strumenti. In tale contesto, si finisce talvolta per trascurare i minuziosi dettagli contenuti nei pezzi dell’album, che finiscono per differenziarsi poco tra di loro ed assomigliarsi un po’ tutti nella resa finale, a dispetto delle strutture piacevolmente complesse che emergono chiaramente all’ascolto del full-length. Penalizzati fonicamente, gli Shores Of Null offrono comunque uno spettacolo professionale e gradevole, soprattutto per il pubblico più vicino a questo tipo di proposte e sonorità, abbastanza presente oggi al Watchtower Fest.
THE SECRET
Discorso analogo può ben adattarsi anche alla performance dei triestini The Secret, che iniziano ad aprire la ‘zona calda’ del bill del Watchtower Fest. Non è certo un mistero l’enorme importanza che il sound tumefatto e caotico di cui sono dotati ricopre nell’economia del loro blackened crust-core, e sentire anche in questo caso l’impianto sprigionare solamente metà del loro potenziale non può che permetterci di gustare il loro estremo rituale con qualche perplessità di troppo. Ad ogni modo, l’esperienza accumulata in questi ultimi anni, segnati dall’uscita di due album sensazionali e da un numero di date e tournée in tutto il mondo da far rabbrividire persino i più stakanovisti dei musicisti metal, gioca positivamente a favore dei The Secret, che nonostante tutto non perdono un grammo della loro morbosità, della loro oscurità e della furia iconoclasta che tanta presa sembra aver fatto recentemente tanto tra i loro fan quanto tra moltissimi addetti ai lavori, ammantando letteralmente il palco del The Jungle. Pochi minuti e via, le prime canzoni vengono inflitte agli ascoltatori come lame affilate, presi a schiaffi dalle numerose badilate in d-beat di cui si nutrono i pezzi di “Solve Et Coagula” e “Agnus Dei”, come sempre privilegiati in quanto a numero di brani inseriti in tracklist. Nel corso della loro concitata prestazione, c’è spazio anche per qualche anteprima non ancora presente su alcuna uscita ufficiale del gruppo, ma è sicuramente sul vecchio repertorio che il pubblico dimostra maggiore enfasi ed entusiasmo, scatenando un ignorante pogo sotto palco. La voce di Coslovich, come fin troppo spesso accade durante la prestazione dei quattro, è colpevolmente sotterrata dal resto della band, risultando lontana e mai troppo presente, nonostante il singer sprigioni una ferocia ed una rabbia che avremmo preferito poter sentire più in primo piano, mentre il lavoro dietro le pelli di Tommaso Corte è tanto istintivo quanto efficace, solamente un po’ coperto nel mix generale. L’impatto devastante dei The Secret è sotto gli occhi di tutti già da tempo ormai e non necessita certamente di ulteriori conferme: diciamo solo che oggi il loro impeto è stato frenato in parte da discutibili scelte del fonico, in parte da un’esecuzione non fra le migliori da parte dello stesso combo giuliano.
CHURCH OF MISERY
Come detto in apertura, la ricerca di un bill variegato e comprendente versanti anche molto lontani tra loro della musica heavy ci porta oggi a poter assistere a concerti e band di natura ed origine delle più disparate, visto che finalmente arriva l’atteso momento degli stoner-heroes Church Of Misery, direttamente dal Giappone! Oltre che da una provenienza esotica, i giapponesi vengono caratterizzati da uno stile unico, fatto di lunghi capelli fluenti, bandane e pantaloni a zampa di elefante, come se il tempo si fosse fermato cronologicamente agli anni ’70 ed, artisticamente, al prolifico periodo in cui Black Sabbath e Pentagram iniziavano a mostrare al mondo cosa fosse l’oscura potenza del doom con i loro primi, leggendari lavori. Il mito lisergico dello sballo extra-sensoriale, il sogno infranto di una pace idilliaca tramutatosi nell’orrore degli omicidi seriali prolificati nell’America post-guerra di Corea, la ricerca di protezione dal famelico sistema capitalistico del dopo-guerra in una spiritualità fisica, carnale: tutto questo, e molto altro, rivive magicamente nella musica dei Church Of Misery, sommi ministri del desert-rock più ruvido e slabbrato, che senza avvertimenti e proclami principiano il loro rituale sabbatico fatto di down-tuning, fuzz, feedback infiniti e synth allucinati. All’improvviso, i vistosi problemi tecnici legati al suono scompaiono come d’incanto, lasciando il posto ad un monolite di magniloquenza tradotta in migliaia di watt, perfetto per il calvario a cui verremo costretti per i successivi quarantacinque minuti. La formula rimane stoicamente sempre uguale a sé stessa, basata su semplici riff pentatonici in continua evoluzione e quindi mai esattamente uguali gli uni agli altri, accompagnati dalle bordate a basse frequenze di un basso mai così grosso e distorto e da una batteria sguaiata e pestona, perfettamente a suo agio tra i bpm da collasso su cui si muovono le canzoni. Crediamo comunque che l’elemento che più catalizzi l’attenzione dei presenti rimanga indubbiamente Hideki Fukasawa, indomito frontman della formazione, dotato di uno stile vocale assolutamente sui generis: raramente capita di incontrare un cantato così estremo e gutturale su basi prettamente stoner/doom, naturalmente alternate, con la logica di uno schizofrenico, a linee melodiche ben più familiari a questo genere; e poi le strane movenze, i riuscitissimi interventi al Moog ed i surreali sorrisi rivolti al pubblico: tutto, di quest’uomo, ci ha rapito ed ammaliato, impedendoci di perdere anche solo una nota della band e donandoci una performance contestualmente perfetta per il caldo della giornata e per il tramonto, reso agro-dolce dai grandissimi Church Of Misery.
DESTRAGE
Sempre in nome della varietà, arriviamo rapidamente all’ultimo guest prima del turno dei mitici headliner inglesi, giusto in tempo per il gruppo più provocatorio e chiacchierato della serata. Della fenomenale ascesa che ha portato i Destrage a licenziare l’ultimo “Are You Kidding me? No” per il colosso Metal Blade pochi mesi fa sanno ormai in molti, così come del funambolico metal-core realizzato dai Nostri; effettivamente, le persone accorse a seguire le gesta live dei milanesi sono diverse, segno questo di un crescente interesse legato al nome della band. Analizzando l’aspetto meramente tecnico, dobbiamo ammettere di trovarci certamente di fronte alla proposta più complessa e curata della serata, fatta di riff vorticosi, numerosi stacchi di tempo inattesi e realmente fuori genere, un’irrequietezza di fondo che impedisce ad ogni membro di mantenere la propria posizione per più di pochi secondi, senza per questo trascurare il versante esecutivo. Anche scenicamente quindi, i ragazzi sanno come imporsi e far presa sui numerosi e giovani presenti venuti esplicitamente per ascoltare il vecchio e soprattutto il nuovo materiale, proiettato come un treno verso tutto ciò che è moderno ed al passo coi tempi. Ad un esame più approfondito, il modern metal-core dei Destrage è solo la piattaforma di partenza da cui il gruppo lombardo spicca il volo per toccare le più disparate influenze, tutte in ogni caso legate ad una filosofia della melodia, per quanto sbilenca, irregolare o sincopata, ben evidente, proponendo in definitiva un compendio abbastanza esaustivo circa quel che il mondo alternative/nu-metal ha avuto da offrire negli ultimi quindici anni. Questo, naturalmente, va un poco a cozzare con quanto sentito fino ad ora nel corso della giornata, causando più di qualche dubbio o sguardo angosciato tanto tra i fedeli dei Napalm Death, lontani anni luce dalla musicalità degli italiani, quanto tra le altre persone che ancora non avevano sentito parlare di questo gruppo. Le vocals di Paolo Colavolpe, inoltre, modulate su tonalità altissime rispetto alla media, non aiutano a far digerire il mattone ai più tradizionalisti, a cui non resta forse che perdersi dietro alla prova tentacolare di Federico Paulovich al drum-kit, artista completo a 360°, nonché vero e proprio valore aggiunto capace di attirare costantemente l’attenzione sul suo operato. Come già detto, la band non si risparmia sul palco e persino a fronte di qualche fischio od offesa poco carina sembra non trasmettere la minima incertezza o indecisione, denotando al contempo una grande professionalità: non si trattava forse del miglior contesto in cui inserirli, ma a tutti quelli che preferiscono la melodia, la contaminazione, o in generale un metal ‘all’acqua di rose’, i Destrage piaceranno ancora di più dopo averli visti stasera. Haters gonna hate.
NAPALM DEATH
La notte è calata ormai da tempo a stemperare i bollori di tutti coloro che da ore attendono pazientemente la nuova prova di forza nel nostro Paese del nome-istituzione del marciume e della musica ‘brutta’ in generale: i Napalm Death! Basta un rapido colpo d’occhio al palco per capire il forte messaggio anti-sensazionalistico e prepotentemente contenutistico portato avanti da decenni da queste quattro icone del rock duro: via dalla scena colorati striscioni, banner, distese di casse ed inutili orpelli scenici…bastano una batteria, una testata ed un cassa per chitarra (stranamente Shane Embury non presenterà amplificatori a vista con cui suonare!), un microfono e che il massacro abbia inizio! Chi segue da tempo il quartetto di Birmingham non sarà certo stupito nel ritrovare on the road la band nel nostro Paese, visto che la loro presenza in Italia è diventata ormai un appuntamento fisso quasi annuale, rinnovato però ogni volta con maggiore entusiasmo sia dai fedeli followers del gruppo, sia dalla band stessa, che sembra avere molto a cuore il suo pubblico italiano. Come era facile intuire sin dalle premesse, quindi, i novanta minuti che seguiranno saranno indelebilmente segnati da una nuova, ennesima prova maiuscola per il gruppo capitanato dall’affabile Greenway, oggi peraltro particolarmente ispirato nel suo continuo interagire con i presenti più scalmanati, riempiendo sagacemente i pochi attimi di silenzio tra un pezzo e l’altro. Sempre impeccabile e privo di alcuna ‘distrazione’, all’infuori naturalmente della propria storica Les Paul, Mitch Harris macina al solito un centinaio di riff al minuto, con una calma surreale interrotta solamente dalle acidissime screaming vocals con cui accompagna il cantato principale del frontman inglese, screaming che caratterizzano ormai da anni le live performance della band. Certamente meno scrupolosa nei dettagli e più vicina alla vecchia concezione hardcore, per i quali i Napalm Death rappresentarono e continuano a rappresentare un fondamentale momento di svolta, nonché di rara unione con la poco tollerata scena metal, la sezione ritmica metta in scena una prestazione fatta di poca testa e molta, molta pancia! Il basso ruggente di Embury infatti non sembra essere sempre perfettamente sul pezzo ed in linea con il tempo di chitarra, così come nei momenti più roboanti anche Danny Herrera sembra perdere qualche colpo e faticare più del dovuto per un risultato che però, incredibilmente, non fa altro che aumentare la foga delle song e dei loro esecutori! L’esperienza pluri-ventennale, una line-up stabile dal 1991 ed una fedeltà alla linea come se ne trovano poche in giro, permettono ai Napalm Death di gestire anche i momenti più complicati con una scioltezza ed un tiro veramente da paura. Analizzando la setlist, non stupisce la presenza di brani tratti indistintamente da tutti i periodi della loro carriera, senza ridurre il concerto ad una mera celebrazione delle sole opere più note: “Silence Is Deafening”, “When All Is Said And Done”, l’immancabile tributo ai Dead Kennedys di “Nazi Punks Fuck Off “ e la fulminea “You Suffer” sono alcuni dei momenti di una scaletta, stasera come non mai, incentrata più sul groove e sul ritmo, che non sugli assalti all’arma bianca che definiscono da oltre trent’anni il concetto di grind. Una perfetta sintesi quindi, per una giornata dove non è mancato il talento dei più giovani, la scoperta di ‘nuove’ promesse e la conferma invece dei gruppi più affermati: speriamo quindi che il Watchtower Fest non diventi un isolato evento estivo, bensì un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di realtà underground e della buona musica in generale.