Report di Giuseppe Caterino
Foto di Moira Carola
Ma quante volte li abbiamo visti live, i Napalm Death? Ormai chi scrive non le conta nemmeno più, ma ancora una volta siamo accorsi alla chiamata di Mark ‘Barney’ Greenway e soci allo Slaughter Club di Paderno Dugnano, in buona compagnia – come possiamo notare già una volta arrivati al locale – per questa ‘Campaign for musical destruction’.
Sebbene il pubblico sia veramente numeroso, possiamo notare che questa volta sono state evitate quanto meno le code al di fuori del locale (al contrario ad esempio di quando suonarono i Mgla), e avendo l’organizzazione adeguatamente pubblicizzato l’iter da seguire per il tesseramento online – e grazie ad un’ormai accresciuta consapevolezza sulla gestione di eventi di grande richiamo – riusciamo a fare ‘solo’ un quarto d’ora di fila e ad entrare nel locale in tempi relativamente umani.
Un grande richiamo, dicevamo, tra l’altro di giovedì sera, e come sempre il pubblico dei Napalm Death porta un mix variopinto di metallari, punk e normalissimi spettatori di età variabile, pronti a farsi spettinare dal grindcore ormai sempre più eclettico degli inglesi. La band ha dimostrato di essere viva e vegeta su disco, con una serie di buonissimi lavori piuttosto freschi e con qualcosa da dire anche al di fuori del proprio genere in senso stretto (ma non strettissimo, per fortuna!), e dal vivo è da sempre sinonimo di garanzia. Anche questa volta i Nostri sapranno lasciare un ricordo indelebile del loro passaggio, sebbene il concerto di questa sera non sarà, per cause di forza maggiore non ascrivibili alla band, come vedremo, il loro migliore di sempre.
Mettiamo piede nell’affollato locale di Paderno quando i Siberian Meat Grinder hanno appena fatto il loro ingresso sul palco (non siamo riusciti invece a vedere gli Escuela Grind, purtroppo, visto che eravamo piuttosto curiosi della resa dal vivo del miscuglio tra grindcore e powerviolence suonato dalla band americana), desistiamo forzatamente al desiderio di una birretta per via della coda ormai ben oltre l’altezza dell’ingresso e ci avviamo verso la nostra meritata dose di schiaffi in faccia!
SIBERIAN MEAT GRINDER
Russi come il nome della band lascia supporre, i Siberian Meat Grinder sono attivi da una decina d’anni abbondante, e sembrano raccogliere l’attenzione del pubblico grazie al loro crossover che va a toccare tanto il thrash metal di versante americano quanto qualche eco death metal vecchia scuola e punk, il tutto all’interno di una certa melodia e gusto per il ritornello da cantare assieme alla folla, cosa che Vladimir The Great Tormentor, cantante mascherato dell’ensemble, si sforza di far accadere ad ogni occasione.
Il tiro del gruppo è innegabile, e ci rendiamo conto di quanto un certo tipo di sonorità, se ben fatte, funzionino sempre benissimo dal vivo; anche per chi non ha mai avuto modo di ascoltare un disco di questa band, è impossibile non lasciarsi trasportare dall’attitudine dei Siberian Meat Grinder, che anche dal punto di visto d’impatto e di professionalità sanno dire il fatto loro: ineccepibile infatti la prova tecnica del gruppo, tra cui figura alla chitarra Matt Sheridan dei Pro Pain. Tra un elogio alla storica scena hardcore italiana, qualche brano di forte presa sulla folta audience (la sala è praticamente piena alle 20.30, e più di qualcuno si lascia andare con “Bear Cult Is Real” o “No Way Back”), un paio di riff taglienti come lamette e qualche divagazione quasi rap, arriviamo verso la fine con tanto di ingresso sul palco di un orso ballerino – pelosa mascotte dei Nostri – che regala una nota di goliardia quasi immancabile all’interno di un concerto del genere, alla fine del quale i Siberian Meat Grinder escono tra gli applausi.
DROPDEAD
Di certo non si può parlare di goliardia, invece, quando salgono sul palco i Dropdead, formazione leggendaria di Providence, Rhode Island: un veloce settaggio degli strumenti, abbassamento delle luci, presentazione e via, una carrellata di hc punk è servita. Bob Otis e soci non lasciano prigionieri quando iniziano a suonare, e così viene a crearsi molto velocemente un bel pit vorticante, non privo di stage diving; un carnaio interrotto solo dalle pause tra un brano e l’altro dove Otis parla dei punti di vista propri e della band, impegnatissima sul piano politico, ribadendo il proprio essere antifascista e contro ogni tipo di discriminazione, pro-femminista e contro lo sfruttamento animale.
I suoni sono asettici e pure di fronte alla violenza sprigionata riusciamo a goderci uno show che spacca le ossa a tutti i presenti, riuscendo tuttavia a ‘capirci qualcosa’, cosa non sempre garantita in questo genere. Bob Otis gioca a roteare il microfono, e la cosa che porterà lo show a interrompersi per ben due volte visto che detto microfono finirà per risentire dei maltrattementi subiti, e si arriverà all’opzione ‘microfono dei piatti della batteria’, cosa che non potrebbe sottolineare meglio di così l’attitudine DIY del gruppo. Inutile prendere i brani singolarmente: l’intero concerto è formato da proiettili di pura rabbia punk che, esattamente come per i dischi degli americani, va assorbita tutti insieme in un’unica soluzione, immolandosi per la causa, lasciandosi aggredire dagli urli di Otis (ovviamente non feroci come negli anni ‘90, ma di certo non meno efficaci) e dalla quadrata marzialità della band, che non sbaglia un colpo e esce trionfante. Concerto della serata, a nostro avviso.
NAPALM DEATH
Infatti quello che è il gruppo di punta, i Napalm Death, questa volta non riuscirà a dare il meglio di sé, ma non possiamo imputare ciò a una prova scadente da parte della storica band inglese. E’ anzi lo stesso Barney a scusarsi in partenza, quando arriva sul palco col gesso a una gamba, si accomoda e prende il microfono.
Il cantante ci racconta di essersi rotto la caviglia undici giorni prima, sul palco – ci tiene a sottolinearlo – a Monaco, e dunque si rende conto che la performance non potrà essere quella di sempre. Del resto chi ha visto i Napalm Death dal vivo sa bene quanto la fisicità di Greenway è importante all’interno del concerto; altra nota inaspettata, Shane Embury non si trova sul palco per non meglio specificate ragioni personali: il suo sostituto non viene esattamente introdotto in maniera ufficiale, ma dalla nostra postazione sembra essere lo stesso Matt Sheridan, che ha suonato poco prima coi Siberian Meat Grinder.
Fatte le premesse, i Napalm Death iniziano il loro massacrante show, propendendo per un buon pugno di brani presi da “Throes of Joy in the Jaws of Defeatism”, un album che anche dal vivo suona assolutamente avvincente e che permette di notare quanto i Napalm non abbiano paura a sperimentare, osando con escursioni industrial e arie alla Killing Joke, e possiamo dire che anche live i brani rendono giustizia alla loro controparte in studio; pezzi come “Amoral”, “Fuck The Factoid” o la title-track hanno una resa davvero eccellente, e la professionalità della band fa il resto.
Tuttavia un concerto dei Napalm Death vive anche dei fasti del passato, e la band lo sa bene, pescando da una buona fetta del loro repertorio classico, con un occhio di riguardo per “Scum” e “From Enslavement…”, da cui vengono proposte diverse canzoni. Pur obbligato a stare seduto, Barney si agita come un ossesso, il suo vocione resta un marchio di fabbrica indiscutibile (sebbene qualche urlo un po’ ‘bizzarro’ venga fuori ogni tanto), e pur soffrendo nel non vederlo correre a destra e sinistra come sempre, non possiamo che provare profonda stima per questo signore di Birmingham. Le prime file sono ovviamente un groviglio di persone intente a pogare, agevolati da brani come “Suffer The Children”, “Scum”, “Mass Appeal Madness”, l’irreprensibile “You Suffer”, tutti eseguiti con un tiro inossidabile, così come le cover (la sempreverde “Nazi Punks Fuck Off” dei Dead Kennedys e “Don’t Need It” dei Bad Brains, che Barney sembra amare particolarmente).
Un concerto meno fisico, dunque, che culmina con la marcescente “Siege Of Power”, pezzo tra i più iconici in assoluto degli inglesi. Insomma, al netto che un concerto non ottimo dei Napalm Death sa essere meglio di un buon concerto di tante altre realtà, e che il voto all’attitudine è un dieci pieno, la serata scorre via in un baleno, lasciando i nostri timpani intorpiditi come da contratto e con una band che ringrazia (spesso e volentieri in italiano) e ci rimanda alla prossima visita nel Belpaese; questa volta, speriamo, tutti in piedi e con la formazione al completo.