06/12/2003 - Napalm Death @ Mamamia - Senigallia (AN)

Pubblicato il 16/12/2003 da

A cura di Tony Intieri

Lo sguardo attento di un ascoltatore di metallo; il giudizio critico e appassionato di un fan accanito posto di fronte, per la prima volta, ai suoi più grandi idoli musicali; la cronaca dettagliata di un’esperienza certamente indimenticabile per un metalkid. In questo report, abbiamo voluto proporre qualcosa di speciale, accettando l’offerta di un lettore di Metalitalia.com, il quale ci ha gentilmente donato il proprio, personalissimo, commento al concerto, in un esperimento che speriamo abbia buon esito. Un modo diverso, ma assolutamente degno di nota, di rendere conto di un evento fra i più attesi della stagione: la calata in terra italica dei Napalm Death! Mettetevi comodi e… buona lettura!
La redazione di Metalitalia.com

NAPALM DEATH

Un paesaggio apocalittico sovrastava il mattino di Senigallia. Il vento e il freddo rendevano la cittadina pressoché deserta: poche persone per le strade, poche autovetture incrociavano la propria.

Avevo subito capito che queste sensazioni di desolazione erano dovute al fatto che mi sarei aspettato di incontrare qualche “metallaro” in più, come al solito durante i concerti. Sapevo da subito che l’evento Napalm Death sarebbe stato per pochi “eletti”, ma pensavo che fosse il gelo a tener chiuse le “losche presenze” da qualche parte, nella città. La cosa migliore da fare, dunque, era quella di rifugiarsi in albergo e sfuggire a quell’atmosfera apocalittica, a quella sintesi del romanzo di Bram Stoker alla rovescia…Coprifuoco di giorno! E così fu…
Dopo che la tenebra aveva preso il sopravvento sulle nostre teste, ecco che ritrovo all’uscita dell’albergo una Senigallia rinnovata, caotica, con traffico e gente ad ogni angolo della strada, devastata da un gelo comunque moltiplicato. Nessuna figura lasciava intendere chi sarebbe stato compagno di pogo per quella sera… nulla. Queste le mie sensazioni pre-concerto. Dopo aver mangiato una pizza dalle melanzane di plastica, mi dirigo verso il non molto vicino Mamamia. Ed eccomi incontrare le prime folte chiome per la strada, che chiedono passaggio verso l’Apocalisse. Trovare il Mamamia diventa appunto cosa alquanto semplice: basta seguire l’auto di un capellone qualsiasi, ed eccoci arrivati alla biglietteria. L’”Enemy Of The Music Business” comincia già qui, con un biglietto ticket da cinema. Mi viene da sorridere, perché so che, oltrepassata quella porta, la semplicità di quel biglietto mi restituirà la sua esatta antitesi, che è la complessità. So che qualcosa di diverso sta per accadere! Conosco la leggenda dei Grinders, ed eccomi dentro!
Ad accogliermi c’è l’unico stand ufficiale firmato Napalm Death. Solo t-shirt originali; sì, perché nessun approfittatore del music business stamperebbe immagini conturbanti di un gruppo seguito da praticamente pochissime persone. La resa sarebbe stata praticamente nulla, perché il merchandise ufficiale è venduto allo stesso prezzo di quello dei ‘profittatori’. Ma la cosa più pazzesca, prima ancora di rendermi conto di tutto ciò, è trovare Danny Herrera coperto dall’imponente bassista e immenso genio della musica estrema di Shane Embury, praticamente indisturbati dai pochi fan presenti… Mi rendo conto che quello che sto vedendo è un’elevazione allo spirito, all’umiltà di seguire in prima persona l’immensa creatura dell’essere se stessi! I Napalm Death sono qui per insegnarci e ribadire qualcosa. I Napalm Death, al Dio Denaro, lo hanno messo in c***; suonano per il fottutissimo gusto di suonare! I Napalm Death lasciano l’etichetta colosso dell’Earache, per entrare a far parte di un’etichetta minore underground, la Dream Catcher. Sfornare un potentissimo album (capolavoro?) quale “Enemy of Music Business” dopo il passo falso di “Word From The Exit Wound” (dispetto all’Earache?) dimostra senza ombra di dubbio che i cinque di Birmingham (questa sera in quattro per l’assenza di Jesse Pintado) fanno sul serio! Loro insegnano, e la loro materia è il metal estremo, in una parola: Grindcore. Sono qui per insegnare che la musica ha un’anima, e che i soldi sono la loro ultima preoccupazione. Sono qui per farci capire che si può essere in vetta, senza prima per forza riempirti la testa di piena di merda. Senza pensarci due volte mi dirigo verso i carismatici personaggi per scambiare quattro parole, e ringraziarli del loro contributo alla storia. Chiedo a Shane il perché dell’assenza di Jesse, e quella che ottengo non è una risposta buttata lì giusto per educazione, ma un concentrato di emotività che mi lascia intuire le serie motivazioni dei problemi familiari di Jesse, che ora si trova a Los Angeles con la famiglia. Shane mi dice che se la cosa non fosse seria Jesse sarebbe stato senz’altro on stage. La mia preoccupazione sulla salute del gruppo è poi subito smentita dall’imponente bassista in persona, che aggiunge infine che sarà tutto a posto già dai primi mesi del 2004. Molto felice da una parte per la loro disponibilità, e scontento dall’altra per l’assenza di una chitarra e chitarrista portante (questa assenza porterà l’esclusione di pezzi del calibro di “My Own Worst Enemy” e “Greed Killing”, classici della setlist del live Napalm Death), tra foto, autografi e strette di mano mi dirigo, lasciando spazio agli altri fan, alla ricerca di uno dei più potenti vocalist in circolazione, Mark “Barney” Greenway. Lo trovo alle prese con il gruppo di supporto, gli italiani Mothercare, in una prova on stage! In un’arena praticamente ancora deserta faccio segno di gradimento e seguo le sue indicazioni come se fossi uno dei Mother, e dopo un po’ eccolo venirmi incontro per omaggiarmi di una stretta di mano e di qualche foto come se ci fossimo da sempre conosciuti. Un’abbraccio caloroso e via, ancora alla ricerca di Mitch Harris, che incontro soltanto qualche minuto prima dell’inizio dei Mothercare. Non sto qui ora a descrivere l’attitudine dei Napalm Death: basti soltanto dire che non si sono mai assentati dalla vista, rimanendo sempre lì tra noi, come se fosse stata una vera festa di compleanno. Se Shane e Danny hanno preferito comunque restare allo stand, Barney è invece molto più attivo, continuamente in giro a sistemare palco e gruppo di supporto! Nessuna sicurezza, ma anche nessuna incertezza. Sono qui per deliziarci, e allo stesso tempo per farci del male! Uno dei gruppi più estremi di sempre…. eccolo infine on stage, dopo una comunque non lunga esibizione dei Mothercare, caratterizzata da un sound  molto aggressivo e da due pezzi suonati con la partecipazione di Barney. Tra buon batterista (peccato per l’assenza della doppia cassa), percussionista, ottimi riff e qualche meritato applauso, mi dirigo sotto l’amplificatore personale di Shane. Qualche minuto di attesa, e via. Eccoli! Si parte alla grande con pezzi del calibro di “Taste The Poison”, “Next On The List”, per poi passare alle perle dell’ultimo lavoro, in primis la molto profonda “Continuing War On Stupidity”. Viene aperta a questo punto una parentesi dal sapore fortemente politico, durante la quale il gran Barney si concede al pubblico per buona parte del concerto, discutendo di certi mali quali il fascismo e la famiglia reale; molto trascinante la mitica e inseparabile cover dei Dead Kennedys “NAZI PUNK FUCK OFF”, proposta nel finale del concerto! Un’ora e venti minuti circa di massacro fisico e sonoro allo stato puro. Pogo, sangue (ottimo l’autolesionismo di un fan che si prende a pugni lacerandosi il setto nasale), e continui tuffi dallo stage da parte del pubblico e del sottoscritto. Ma poi via, ci si concentra perché arrivano le perle del passato: “Suffer The Children”, “Scum”, “Life?”, “From Enslavement to Obliteration” e brani appartenenti allo stesso periodo ci piovono addosso, insieme alla trascinantissima “Breed To Breathe”, per passare poi alla potente sessione ritmica di “Can’t Play, Won’t Pay”, per poi tornare a godere di un pogo costante e molto artistico, grazie alla presenza di un buon numero di original old punk, che hanno deliziato lo show con salti mortali e tuffi da manuale. Impossibile non lasciarsi trascinare dalla incoverizzabile “The Icing On The Hate”, capolavoro estratto dall’ultima fatica “Order Of The Leech”, caratterizzata da quei tetri cori sempre presenti di un Mitch Harris sempre in forma. Non c’è che dire: impossibile, almeno per me che seguo il gruppo dai tempi di “Diatribes”, distinguere in una setlist completa e varia quegli estratti di 3-4 secondi degli album d’esordio, di “Scum” e “From Enslavement To Obliteration”, che spesso i Grinders includevano  nel finale di una canzone. Piccole incomprensioni,  subito spiegate dallo stesso Barney che sorridendo ci richiamava all’attenzione, facendoci capire ciò che era stato fatto.. Immensi, dunque, con quella particolare nota di merito che va a Danny Herrera e Shane Embury. Quanto al primo, mi chiedo se esista un altro batterista altrettanto veloce, a parità di tecnica e creatività (N°1?), e riguardo  al secondo, poi, credo che una domanda del genere sia superflua, in quanto egli è mente, perno e compositore principe del gruppo. Ma non è finita qui…manca l’epilogo!
Si chiude così uno dei concerti più spettacolari e significanti della mia stagione musicale personale, un concerto reso ancora più gratificante dall’esiguo numero di fan presenti (pochi ma buoni). Esco dal Mamamia in preda al più totale vuoto dell’anima. Nessun pensiero riesce a trovare posto nella mente. Con senso di soddisfazione l’occhio ricade su quel biglietto ticket da cinema… e sorridendo ancora una volta mi rendo conto di aver appreso la lezione. Ciò che abbiamo visto è un film-documentario la cui essenza è la sintesi delle atrocità del music business, fatto di biglietti ipertecnologici e infalsificabili; di pubblicità e gadget che ti riempiono la testa di merda, di artisti (Manson? Limp? Link? Total artist?) che salgono sul palco, ti gasano con una parola detta a caso e il cui significato è lontano dall’essere tale; un music business di “artisti” dalle copertine mozzafiato e dai siti web dal caricamento secolare, che scompaiono nel vuoto come se niente fosse stato, che ti danno informazioni su come essere umani, senza conoscerne l’aspetto più vero, ossia la fisicità dell’esserlo (vedere Shane vender magliette a buon prezzo ti fa sentire più al mercatino che a quei centri commerciali messi su ai festival, ormai dai Napalm abbandonati da tempo). I Napalm Death costano poco. Rifiutano le regole del music business e per questo rifiutano anche il successo, nella convinzione di essere superiori a certa immondizia, dimostrando con praticità e dedizione maniacale ciò che predicano, e tutto funziona alla grande. Nessun uomo dalla stazza imponente è lì a proteggerli, la loro fama e il rispetto che il pubblico nutre per loro nasce da sentimenti le cui radici affondano appunto nell’umiltà. Ma non è questo il punto… il punto è che i Napalm Death spaccano per davvero, mandano a casa una buona dose di “artisti” sotto ogni profilo. Dal vivo riescono a velocizzare ancor di più ciò che è l’estremo (ed essere estremi a volte significa anche rifiutare, ma sicuramente non la tecnica e la professionalità). Colui che insegna qualcosa, è spesso disposto a perdere. Ma non perde nulla, perché questo è il guadagno morale: essere in vetta in piena onestà. Ripongo il biglietto e, sorridendo ancora una volta, mi allontano dal locale, carico di dolori, sicuramente non sfociati in ernia grazie all’assenza (ahimè) di Jesse Pintado. Se si dà vera importanza alla musica come componente della vita, i risultati non possono essere che questi!
“A Necessary Evil”!
Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è!

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