Report a cura di Giovanni Mascherpa
Arriva alla sua edizione numero tre il festival ideato e organizzato dai Caronte, band stoner/doom nostrana che, oltre ad averci già regalato un ep e due album di alto profilo, si è ritagliata in questi anni un ruolo molto importante nel supporto e nella promozione dell’underground metal italiano e internazionale. Di tutta le attività in cui il quartetto capitanato da Dorian Bones è impegnato, il Navajo Calling rappresenta la manifestazione più importante, e quest’anno in modo particolare il festival ha compiuto un grosso salto di qualità. A fine agosto, giovando anche di temperature nuovamente bollenti dopo qualche settimana di tregua, è andato in scena un happening musicale maiuscolo sia per i contenuti – venti band spalmate su due giornate – che per il contorno ambientale. Il Navajo Calling è infatti andato in scena nell’agriturismo Fattoria Rio dell’Acqua, posto tra le dolci colline nei dintorni di Parma, in un contesto campagnolo simile a quello di un festival teutonico, lontano da tutto e da tutti e con la possibilità di godersi le esibizioni come di rilassarsi a bordo della piccola piscina di fianco all’area concerti, oppure cazzeggiare beatamente in aperta campagna vicino al laghetto o nei suoi dintorni senza disturbare anima viva. A livello strettamente musicale, la scelta è stata davvero ampia, con un occhio di riguardo a band che, per un motivo o per l’altro, si occupano di tematiche esoteriche e ritualistiche, con declinazioni percettibilmente differenti una dall’altra. Ce n’è stato comunque per tutti i gusti, dal doom metal tetragono dei Black Oath, all’heavy/black metal dei Mortuary Drape, allo stoner/doom dei padroni di casa Caronte, Satori Junk, Kröwnn, Saturnalia Temple, all’heavy metal classico dei leggendari Sabotage, fino al death metal di Malthusian, Profanal, Kaptivity. Non siamo stati in grado, ahinoi, di essere presenti in entrambe le giornate e abbiamo vissuto pienamente soltanto il sabato. Il nostro resoconto è quindi parziale, speriamo basti per farvi venire un po’ di sana acquolina in bocca e indurvi a presenziare all’edizione 2016 di questa manifestazione.
SATORI JUNK
Riparati dal solleone sotto l’accogliente tendone del Temple 2, inghirlandato da filari di viti, coi grappoli penzoloni a evocare scenari finanche lussuriosi, iniziamo la maratona sonora con lo stoner/doom dei Satori Junk. Dovessimo definire con un solo aggettivo la performance dei quattro milanesi, useremmo quello di ‘vintage’. Dall’hammond al chitarrismo fra l’occulto e il desertico, ai ritmi mai troppo baldanzosi, alla voce catatonica, tutto congiura nell’omaggiare prima di tutto gli Electric Wizard e poi, a ruota, il beneamato doom dei Seventies in tutte le sue derivazioni. La band proprio quest’anno ha esordito con il full-length omonimo, nelle movenze un po’ contratte traspare come i musicisti debbano ancora trovare un loro modo di dialogare col pubblico e siano per ora poco smaliziati nel proporsi agli astanti. Dal punto di vista sonoro, riscontriamo una buona padronanza della materia trattata, apprezziamo in particolare i segmenti dove l’hammond prende il controllo e funge da pifferaio magico, trascinando dietro di sé tutti gli altri strumenti, fra cui comunque risalta per enfasi la grumosa sei corde. Il dinamismo non è esattamente il punto forte della formazione, che tende a fermarsi in pericolose secche creative, da cui esce appunto con l’entrata in campo di suoni organistici e riff e assoli che, per quanto derivativi, sono affrontati con la dovuta passionalità. Prestazione discreta in ogni caso, la personalità per ritagliarsi uno spazio più ampio sulla scena arriverà.
KAPTIVITY
Mentre cerchiamo di abituarci all’improvvida calura scoppiata di colpo a inizio giornata, andiamo a visionare sul Temple 1 i Kaptivity. Onesta old-school death metal band dalle poche pretese e dal garbo di un carro armato in fase di invasione, i quattro omaggiano il più brutale death americano senza perdersi in convenevoli e assestano i primi scossoni alla placida audience del Navajo. Mentre un congruo numero di metaller se ne sta ancora adagiato in piscina, oppure se ne esce di tanto in tanto in costume per andare a dare un’occhiata a chi sta suonando, e altri se ne stanno placidamente seduti a dosare le forze, consapevoli di quanto sia lunga la giornata, i musicisti di Parma buttano anima e attributi sul palco per non fare brutta figura. I suoni solo discreti, perfettibili sulla nitidezza delle chitarre, non danno un meritevole slancio agli spartiti truculenti gettatici in pasto: tuttavia il gruppo sa il fatto suo e non ha certo intenzione di farsi scoraggiare da qualche piccola difficoltà tecnica. Ne ha ben donde, perché se i brani non avranno le qualità per entrare nella storia del death metal, la generosità degli strumentisti avvince gli spettatori, che pur non palesando vero rapimento seguono con sufficiente attenzione quanto i Kaptivity hanno da offrire. Forti anche del bestiale timbro vocale di Franz, gli autori del recente “Across The Abyss Of Death”, uscito a giugno, portano a casa una performance onesta e di sostanza, buon antipasto delle realtà più eclettiche e blasonate che andranno a presentarsi in orario più avanzato.
KRÖWNN
Il trio per due terzi al femminile dei Kröwnn prosegue sul palco del Navajo Calling la sua opera di proselitismo all’interno dell’ala tradizionalista del doom. Musica calda e crepuscolare la loro, intorpidita e intorbidata da una schiera di influenze che contemplano in prima battuta Black Sabbath, Pentagram e Saint Vitus, dei quali i ragazzi veneziani danno un rendiconto brillante, sennonché ancora poco propenso a smottamenti verso minime innovazioni/personalizzazioni. Limiti in ogni caso ridotti dall’ottima conoscenza del genere e dalla capacità di pigiare i tasti corretti ad aprire la mente e lasciarla galleggiare in un indefinito deserto sensoriale. La branca dello stoner più coeso e meno effettato viene abbondantemente frequentata dalla chitarra di Michele Carnielli, impegnato anche alle nasali vocals, mentre la sezione ritmica tutta al femminile si avvolge su se stessa in un incedere controllato e prettamente settantiano. La partecipazione dei presenti non è di quelle propriamente appassionate, siamo ancora in fase di rodaggio per i partecipanti, che giustamente centellinano le forze per arrivare a fine giornata senza crollare. Da parte sua, il combo veneto si rende protagonista di una prestazione di sostanza, in tutto e per tutto all’altezza di quanto fattoci percepire poco meno di un anno fa nella data milanese di supporto agli Yob. Allora, la venue raccolta e il buio ne avevano facilitato il compito di intrattenimento: al Navajo Calling si è un po’ persa la magia lisergica assaporata in quella circostanza, ma non si può parlare per i Krownn di un’esibizione poco riuscita.
TRIUMPHANT
Prima band straniera in arrivo, con la quale andiamo a tastare quanto sia stato vigile l’occhio sull’underground internazionale nella composizione del bill. I Triumphant sono un manipolo di giovanotti austriaci, uscitosene nel corso del 2014 con il primo full-length “Herald The Unsung”. Dando un’occhiata a qualche recensione in giro per il web – il sottoscritto non ne aveva mai sentito parlare – sembrava ci fosse del buono nel loro esordio e la prestazione del Navajo ha confermato questa nomea. Per quanto debbano ancora prendere un po’ di dimestichezza con la dimensione live e necessitino di una regolata nel modo di stare sul palco, soprattutto in termini di spavalderia, immancabile in una proposta estremista come la loro, i Triumphant ben impressionano sia per l’impatto che per il controllo esercitato sui propri strumenti. Colate di thrash e black metal ci investono sulle ali di velocità sfrenate, l’esagitazione la fa da padrone anche se nulla viene lasciato al caso per dare un minimo di spessore e dinamismo alle singole canzoni. Cambi di tempo secchi e ritmiche taglienti non rifuggono atmosfere sulfuree e demoniache, anche se per il momento queste sono abbastanza convenzionali e poco caratteristiche; il gruppo tirolese sembra già sulla buona strada per architettare musica composita e che non si limiti a percuotere selvaggiamente gli ascoltatori. Alcune parti sono ancora un po’ monotone e quadrate, ma per una band così giovane ciò costituisce un peccato veniale. Più grave ci è parso il comportamento di uno dei due chitarristi, completamente sfasato rispetto ai compagni in alcuni attacchi e dedito ad atteggiamenti quantomeno bizzarri sullo stage. A vedere le facce sorprese degli altri musicisti, c’era davvero qualcosa che non andava nel suo modo di fare, neanche gli altri membri si aspettavano certe sue uscite!
FIDES INVERSA
L’appartenenza al pregiato roster della World Terror Committee la dice lunga sul profilo che stanno assumendo i Fides Inversa nel panorama black metal internazionale. I quattro romani in soli due album hanno catturato numerosi consensi nei piani nobili dell’underground e hanno già affrontato tour accanto ad importanti nomi del black metal europeo, come Varathron e Horna ad esempio. Un gruppo come il loro, fortemente maligno secondo una grammatica sonora piuttosto raffinata e portatrice di una profonda attitudine occulta, non ha per forza bisogno di una totale oscurità per veicolare il proprio messaggio; i performer di razza possono frantumare certi supposti limiti ambientali e dare spettacolo anche quando le condizioni non sono ideali. Così, mentre il globo rossastro va comunque un poco per volta spegnendosi in questa giornata di fine estate, il quartetto pittato e incappucciato affronta con anfitrionica malevolenza ecclesiastica l’audience, nel frattempo leggermente aumentata nel numero di unità. Il bravissimo batterista-cantante Omega A.D. è il fulcro delle operazioni, abile nel vivacizzare una proposta cattivissima tramite pattern che vanno dal classico blast-beat a momenti ragionati, tappeto ritmico perfetto per consentire alle chitarre di allungare su di noi splendide melodie quasi classic metal; la relativa agilità dei singoli brani ricorda quella degli Acherontas e degli ultimi Watain, materiale di valore sul quale i Fides Inversa sanno imprimere il proprio marchio con ammirevole risolutezza. Ci si rende conto di non trovarsi di fronte a una band di picchiatori che oltre alla navigata devozione per il black metal ha poco da offrire, quanto a una band dalle ottime idee e dalla capacità di tramutarle in canzoni di impatto killer, chitarristicamente coinvolgenti e complesse senza strafare. Il resto lo aggiungono con una tenuta di palco sicura e orgiastica, che provoca i primi headbanging sradica-vertebre della giornata. Eccellenti.
ALBEZ DUZ
Da parte del sottoscritto c’era molta attesa per la prima data italiana degli Albez Duz, assurti a un minimo di notorietà con l’ottimo secondo album “The Coming Of Mictlan”, originale concentrato di dark/doom metal dalle spiccate intrusioni gothic rock, secondo coordinate accostabili in diversi punti all’operato dei Type O Negative. Impurus, batterista e mente pensante del progetto, solo a fine 2014 si è deciso a portare la sua creatura dal vivo, annettendo alla scarna line-up formata da lui e dal cantante Alfonso Brito Lopez altri due musicisti (chitarrista e bassista). Nell’intervista rilasciataci quest’anno, Impurus si dichiarava contento dei nuovi innesti e desideroso di far vedere tutto il potenziale della band: in effetti, ora gli Albez Duz hanno tutto per passare da realtà di nicchia a entità di un certo profilo, conquistando nuovi adepti proprio con le live performance. Non sarebbe male inserire anche un tastierista, l’hammond (non rimpiazzato da basi dal vivo) gioca un ruolo importante nel delineare il caldo sound occulto dei tedeschi, ma a parte questo ci sembra che le due new entry siano ben dotate sia sotto il profilo tecnico che, soprattutto, da quello dell’enfasi, del tocco rapito necessario a conferire passionalità a quanto suonato. Privati delle tastiere, canzoni come “Fire Wings”, “Mictlan”, “Servants Of Light” mutano lievemente i connotati, si riduce parzialmente l’alone di magia e ne guadagna l’impatto, con la chitarra a diventare un martello implacabile e Brito Lopez a farci vibrare con i suoi baritonali. La presenza scenica del cantante di origine messicana è ammaliante, catalizza sguardi e menti con il suo fare ieratico ma umanissimo, a metà strada fra le movenze del santone e quelle di dio del rock. La foschia del doom classico e gli ammiccamenti del gothic rock dialogano svelti, illuminati da una classe manifesta anche su questo piccolo palco inondato da luci di un rosso intensissimo. Le insidie del concerto sono superate alla perfezione da Impurus e compagni, avanti così verso nuovi traguardi: gli Albez Duz hanno tutto per divenire la next big thing in arrivo dall’underground!
OUR SURVIVAL DEPENDS ON US
Vedi arrivare un furgoncino nel pomeriggio, dal quale sono trasportati fuori ceppi di legno di strana foggia e altri oggetti abbastanza curiosi: ci si chiede a chi possano appartenere. In serata, i nostri interrogativi hanno una risposta, quando mancano pochi minuti all’entrata in scena degli Our Survival Depends On Us. Nell’attesa, un ragazzo soffia incenso nell’aria da una torcia: una fragranza pungente, che ristagnerà nell’aria per tutto il concerto della formazione austriaca. Un collettivo del quale sapevamo poco o nulla, fermo discograficamente al 2009 con il secondo album “Painful Stories Told With A Passion For Life” e dal quale non sapevamo assolutamente cosa attenderci. I cinque vanno subito a immedesimarsi completamente con la propria musica, ne divengono una traslitterazione in movimento degli ondeggiamenti strumentali sinuosi e immaginifici. Le pose e i gesti convergono in una specie di cerimoniosità pagana che sembra accordarsi, insieme al flusso di note di ardua classificazione, a un processo di ricerca dell’estasi e della comunione con la natura. Chitarre e tastiere ci guidano in vallate di mutevoli proporzioni, dove forme e colori assumono connotazioni sbilenche, per un attimo convergono su qualcosa di simile a quanto a noi già noto, e l’istante successivo sfuggono completamente alla nostra comprensione e trasmutano in elementi immateriali indefinibili. Ci si guarda attorno per cogliere anche negli altri spettatori lo stesso nostro grado di smarrimento ed effettivamente scorgiamo un certo positivo disagio, quello vissuto quando si è faccia a faccia con qualcosa di incomprensibile ma maledettamente affascinante. I pezzi sono lunghi, dilatati, non privi di una forza vitale inarrestabile, comprensivi di doom, progressive, avantgarde e sludge, dialoganti come organi comunicanti di un unico soggetto mai ammirato prima. Pochi gruppi, a un primo impatto, possono lasciare tanto di sasso per la mancanza di riferimenti concessi all’inesperto ascoltatore: ringraziamo gli Our Survival Depends On Us di quest’esperienza rara.
SABOTAGE
In questa notte di stregoni, aruspici che guardano nelle viscere dell’anima per cogliere presagi di un malessere presto sfociante in massacri indicibili, c’è anche spazio per il caro, vecchio heavy metal. I Sabotage distillano poche date all’anno, non ‘esercitano’ con grande regolarità la loro arte, sono poche le occasioni concesse ogni anno ai nostalgici amanti del sudato metallo ottantiano. Presentarsi su un palco una manciata di volte in dodici mesi è la dimensione ideale per questa band, non costretta a scendere a patti con niente e nessuno, senza vincoli che ne possano ammansire la forza d’animo e diluirne il ricordo delle passate gesta a causa di album stanchi e privi di vita. Su disco tacciono da tempo immemore, ma dal vivo, quando ci si mettono, i fratelli Caroli, Morby e la formidabile coppia d’asce Bacherini-Bronx elargiscono lezioni superbe su cosa voglia dire suonare heavy metal, impersonarlo, trasmetterlo con la stessa identica energia di tre decadi fa. Non crediamo di sbagliare affermando che il maggior tasso di adrenalina della giornata lo provochi proprio il gruppo più attempato, che si mette a pestare al massimo già sulla fulminante “Heroes Of The Grave” e non si fermerà quasi un istante fino al termine dell’esibizione. Qualcuno va un po’ oltre, un ragazzo di origine sudamericana parecchio su di giri, preso dall’entusiasmo, rischia più volte di far cascare per terra i monitor e di attentare – involontariamente, si intende – all’incolumità dei musicisti dimenandosi scompostamente. È dura tenerlo a bada, lo stesso Morby un po’ lo ammansisce e sta al gioco, un po’ lo scruta con fare circospetto, temendo che passi il segno. Al di là di questo piccolo inconveniente – un amico di questo tizio prova ogni tanto a placarlo, senza successo – fila tutto via in maniera elettrizzante. Morby ha i polmoni di un palombaro e una voce immune all’invecchiamento, personalmente non lo vedevamo in azione dal Play It Loud del 2008 e gli avremmo concesso qualche imperfezione senz’astio alcuno. Il cantante, come potete immaginare, ci ha fregato alla grandissima, raggiungendo con la consueta spregiudicatezza note altissime e gestendo ogni canzone al massimo, prendendosi poche pause tra una e l’altra. I due Caroli, a dispetto di rughe sempre più profonde a solcarne i volti, rimangono una delle migliori coppie ritmiche che l’Italia abbia potuto vantare dalla nascita dell’heavy metal ad oggi e sanno tutt’ora radere al suolo grattacieli a forza di martellate sui tamburi e plettrate di basso. L’ossessivo ritornello di “Warmachine” e la poesia di “Rumore Del Vento” sono i tuffi al cuore più forti prima di un’incredibile “Killer Della Notte”, chiusura lievemente anticipata rispetto alla scaletta preventivata, che avrebbe dovuto comprendere anche “La Musica Strana”. Un ipotetico premio per i ‘migliori in campo’ di questo Navajo Calling sarebbe andato sicuramente ai Sabotage!
Setlist:
Heroes Of The Grave
Hot Zone
Warmachine
It’s Time
Joy’n’Sorrow
Rumore Del Vento
Victim Of The World
Killer Della Notte
HELL MILITIA
Costretti al Wolf Throne di marzo a confrontarsi con pesi massimi del black e del death metal contemporaneo, gli Hell Militia si erano difesi egregiamente, pur lasciando la sensazione di essere nulla di che rispetto al fior di talenti con cui si erano trovati a dividere il palco. Al Navajo, l’esibirsi dopo band brave ma molto diverse nel genere affrontato e la collocazione da headliner permettono alla band di RSDX di sfogare con maggior agio la sua basilare formula a base di black metal novantiano, proto-thrash e caos. Non hanno cambiato pelle in questi mesi, semplicemente il contesto aiuta nel farci considerare sotto una luce diversa il gruppo. Le selvagge cavalcate della formazione stavolta sembrano offrire qualche spunto più avvincente, il riffing diventa più incisivo e tagliente e i passaggi dal blast-beat a cadenze mosh meglio implementati di quanto ci ricordassimo. Il singer riveste i panni del comandante iracondo di un manipolo di scellerati reietti, lo sguardo luciferino a fissare chissà cosa tra gli astanti e il braccio sinistro levato al cielo in un atto di suprema chiamata alle armi. I suoi compagni lo seguono con indomita partecipazione, sono tutti degli animali da palco, pericolose fiere incatenate durante la giornata che godono al massimo della valvola di sfogo concessa dal concerto. A vedere le reazioni scomposte delle prime file, gli Hell Militia erano uno degli act più attesi e verso la fine abbiamo pure il momento-rimpatriata, con altri musicisti a salire sul palco per dar man forte alle secondi voci su uno degli ultimi brani in scaletta. Un’invasione di palco festosa che si pone quale ciliegina sulla torta della missione-Navajo del gruppo francese, protagonista di un concerto entusiasta e vissuto con grande partecipazione emotiva sia dai musicisti che dal pubblico.
SATURNALIA TEMPLE
Era giusto che fosse un gruppo fortemente esoterico del calibro dei Saturnalia Temple a chiudere un festival zeppo di band a fortissima carica spirituale. I tre svedesi con “To The Other”, uscito a febbraio per Listenable, hanno valicato i confini dello stoner/doom propriamente detto, modificando in parte la propria ‘ricetta’ a favore di una musica sicuramente più movimentata, cattiva, con barlumi di black metal a scuotere i mantrici ondeggiamenti doom. Quella dei Saturnalia Temple resta musica ritualistica, perfetta colonna sonora per viaggi mentali che oltrepassino i limiti della nostra coscienza e si librino in uno stato cosmico dove il senso del limite non è contemplato. Data l’ora – l’una passata – non è semplicissimo restare concentrati su riff rombanti dal riverbero ellittico pressoché infinito, sfumanti l’uno nell’altro in un’allitterazione sfinente ma, a ben vedere, gravida di sensazioni estatiche per tutti i doom maniac rimasti. Vero è che le cadenze leggermente meno ermetiche del secondo album, da cui ci pare i Saturnalia Temple abbiano pescato per la maggiore parte delle tracce proposte, aiutano a tenere desti gli ascoltatori meno coinvolti, mentre per chi scrive è stato quasi un piccolo shock ascoltare in alcuni momenti schemi relativamente dritti e (quasi) dinamici. Il sottoscritto, difatti, si aspettava qualcosa in linea con l’ottimo “Aion Of Drakon”, quello sì un album sfidante, un concentrato degli Electric Wizard più psichedelici ulteriormente riletti a velocità moviolesche e imbottiti di acido alla maniera degli Sleep. Il concerto del Navajo Calling ha invece assunto una conformazione un filo più umana, lasciando alla sola “Aion Of Drakon” il compito di piegare le ginocchia e far vacillare la resistenza degli strenui partecipanti a quest’ultimo sabba. Non ci si poteva attendere grande comunicatività da parte dei musicisti e così è stato, il cantante/chitarrista Tommie ha assunto il ruolo di immondo cantore di attrazioni mortifere senza cedere a un rapimento chissà quanto intenso: un po’ di headbanging, qualche sguardo lievemente arcigno e poco altro. Un buon concerto, alla fine, non uno dei punti più alti del festival ma comunque una degna chiusura di una giornata eccellente sotto ogni punto di vista.