Introduzione a cura di Giuseppe Caterino
Report a cura di Giuseppe Caterino e Giacomo Slongo
Giunto ormai al suo secondo anno di vita e in ogni caso sorto dalle ceneri del Neurotic Deathfest, il Netherlands Deathfest si sta costruendo una reputazione di tutto rispetto tra gli appassionati di musica estrema d’Europa, e il gran numero di astanti accorso quest’anno sembra confermarlo. Il festival segue, come per l’edizione precedente e sulla scia del patronizzante Maryland Deathfest, un taglio piuttosto eterogeneo all’interno del proprio bill, e sebbene la parte estrema (con tutto quello che ne consegue) vada per la maggiore, non mancano proposte che fuoriescono dai ranghi ordinari di death e sottogeneri; salta all’occhio, difatti, che proprio le esibizioni dei gruppi ‘meno death’ siano quelle che abbiano goduto di affluenze maggiori (su tutti Demolition Hammer, Candlemass o Abbath), il che non significa, però, che vi sia stato un solo show senza un pubblico degno di nota, anzi: l’audience del festival si è dimostrata sempre attenta e rispettosa, nonché piuttosto allegra e amichevole. Molti hanno notato come non siano stati spesi nomi troppo altisonanti come headliner della tre giorni, mentre per contro si sia preferito puntare su realtà di contorno decisamente interessanti e, in alcuni casi, da ‘usato sicuro’ – scelta che può essere oggetto di discussione ma che non sembra aver lasciato scontento nessuno. Dal punto di vista tecnico, la graziosa Tilburg si conferma una location di prim’ordine, laddove il suo 013 ha saputo gestire un’orda di lungo criniti con professionalità e una preparazione che conferma le attese da grande happening, e anche la cittadina stessa sembrava divertita e per nulla intimorita dallo scuro pubblico che affollava pub e bar. L’organizzazione nel locale è stata perfetta, la gestione dei pagamenti mediante coins non sembra aver spaventato nessuno, lo staff sempre presente ed istruito e tecnicamente lo 013 è una venue eccellente: un main stage da cui potersi godere lo show dignitosamente in qualsiasi punto ci si voglia posizionare, e un second stage più stipato per vivere l’esperienza in maniera più hardcore sono stati i nostri compagni per tre giorni di martellante metallo; allo stesso modo si è rivelato un piccolo gioiellino il locale di fronte (sempre parte del festival), il Patronaat, una vera e propria chiesetta sconsacrata dedicata alla parte più blasfema dell’evento, forse con qualche problema di acustica vista la propria natura, ma di certo incredibilmente suggestiva. Il Netherlands Deathfest ci ha regalato, dunque, un’esperienza stremante da una parte, ma incredibilmente soddisfacente per la puntualità e la padronanza dei propri mezzi dall’altra, non lasciando adito a dubbi sulla bontà di una proposta destinata a crescere nel tempo. Buona lettura!
GIORNO 1 – 03/03/2017
EXHUMED
Quello degli Exhumed può tranquillamente definirsi il primo vero big show del festival: introdotti dalla straniante “Thriller” di Michael Jackson, i californiani irrompono sul palco sulle note di “All Guts, No Glory”, che permette ai ragazzi sotto il palco di dedicarsi finalmente alla nobile arte del roteare come pazzi all’interno di un pogo selvaggio, che prosegue durante altri brani estratti dal medesimo disco. Il death vecchia scuola del quartetto non ammette eccezioni se non quando si estremizza esso stesso, soprattutto grazie ai pezzi estrapolati dal violentissimo “Gore Metal”, quali “Limb From Limb” e “Casketkrusher”, e i fan lo sanno bene, tributando, sia dal pit che dalle ottime gradinate dello 013 – che permettono di potersi godere i concerti, volendo, anche seduti in santa pace – una band che tra vari cambi di line up è ancora in ottima forma anche di fronte a siparietti iconici e storici quanto si vuole, ma forse un po’ pacchiani, come l’ingresso on stage del serial killer con la motosega (prima della citata “Limb From Limb”). Suoni un po’ ovattati per la prima parte, ma la vecchia scuola è sempre una garanzia.
(Giuseppe Caterino)
DISCHARGE
Lo show dei Discharge è il classico concerto di vecchie glorie che mette d’accordo tempi e generi, e i molti punk che si aggirano per i palchi nella giornata di venerdì sono qua a dimostrarlo. I Discharge sono da sempre punto di riferimento per centinaia di band che hanno scritto la storia di death e black metal, e l’enorme numero di convenuti si trova a tributare giustamente un gruppo che non si tira indietro nemmeno per un istante. La performance è indefessa e il più recente innesto, JJ, sa come tenere a bada un pubblico che è lì per un nome storico; e quando con brani come “Hear Nothing, See Nothing, Say Nothing”, album che fa la parte del leone, o “Fight Back” o ancora “A Hell On Earth” attaccano la platea, lo fanno con la sapienza e l’arroganza tipica di chi ha scritto un pezzo di storia. L’attenzione del pubblico è alle stelle, si iniziano a vedere i primi stage diving (di fatto vietati da diversi cartelli piazzati all’interno del locale) e i Discharge non arretrano di un passo, chiudendo dopo quasi un’oretta di sfrontatissimo punk un concerto ghiotto per i fan di vecchia data, con giusto qualche momento dedicato alle cose più recenti (due i brani tratti dal recente “End Of Days”, ascoltati con più attenzione che non trasporto). Inarrestabili.
(Giuseppe Caterino)
GORGASM
Chiamati appositamente dagli Stati Uniti per impartire una severa lezione al pubblico europeo, i Gorgasm si rendono protagonisti di una performance devastante in termini di ferocia e perizia esecutiva. Che il gruppo americano avesse a cuore l’impatto e la tecnica già lo sapevamo, memori del contenuto di dischi come “Orgy of Murder” e “Destined to Violate”, ma onestamente non ci saremmo mai aspettati una carneficina come quella che ha avuto luogo sul palco secondario dello 013. Il quartetto di Lafayette, Indiana, parte subito a razzo, senza praticamente il bisogno di scaldarsi o carburare, come se suonare certa musica fosse l’operazione più naturale e disinvolta del mondo, e nel giro di pochi minuti si ritrova la strada spianata verso il più comodo dei successi, seguito da un pubblico che non sa se rompersi le ossa nel pogo o se rimanere basito di fronte a tanta brutalità e compattezza. Damian ‘Tom’ Leski e Anthony Voight (rispettivamente chitarra e basso) si alternano dietro al microfono con risultati eccelsi, inscenando una serie di duetti in growling da spezzare letteralmente le gambe e il fiato, e la cosa finisce per trasformare le varie “Coprophiliac”, “Deadfuck” e “Funeral Gangbang” (la sobrietà non è mai stata il punto forte dei Nostri) in autentici tritacarne, manifesti di un certo modo di intendere le frange più gutturali e intransigenti del genere. Se si parla di puro US death metal, i Gorgasm vincono a mani basse il titolo di band del festival.
(Giacomo Slongo)
REPULSION
Quando gruppi più o meno storici riprendono in mano gli strumenti dopo anni di scioglimento, quello che può venire fuori è sempre un punto di domanda, e nel caso dei Repulsion non possiamo che confermare di trovarci di fronte a un nome leggendario. Gruppo di nicchia della prima ondata di quel death grind che piace a noi, i californiani si presentano sorridenti e con alle proprie spalle l’unico full length della loro carriera, quell’inossidabile “Horrified” che viene qui smembrato e gettato in pasto alla folla inferocita, lasciando giusto lo spazio per un paio di omaggi (“Schizo” dei Venom e “Death Dealer” degli Slaughter). Quello dei Repulsion è uno show violento, folle, sanguinario: in tre, la band riesce a scatenare un muro di suono impressionante, un inferno sopra e sotto il palco che ci lascia basiti di fronte all’efferatezza con la quale brani come “Radiation Sickness”, “Crematorium” o l’ineffabile “Maggots In Your Coffin” (eseguita con Joacin Carlsson dei General Surgery) riescano a suonare chirurgici e stremanti. La band non perde colpi e tra un brano e l’altro sembra non tirare fiato nemmeno un momento, scagliando saette e creando un muro di suono che ci lascia di stucco, complice anche l’ottima gestione dei suoni dello 013. Di certo tra i top act della prima giornata.
(Giuseppe Caterino)
TERRORIZER
Altro nome che deve la propria fama a praticamente un solo disco (quel “World Downfall” che qui al Netherlands Deathfest verrà eseguito per intero, come ampiamente pubblicizzato in locandina), ma che ha comunque assunto uno status di gruppo cult per tutti i bravi ascoltatori di grind e death là fuori. Iniziato il concerto con un discreto ritardo (l’unico consistente all’interno della tre giorni e apparentemente dovuto ad un Pete Sandoval non soddisfatto dei propri suoni) e penalizzati per almeno i primi tre brani proprio da una batteria che praticamente copriva qualsiasi cosa fino all’inossidabile “Fear Of Napalm”, anche i Terrorizer approfittano della grande occasione e lanciano alla folla il loro masterpiece con foga e rigore, benché talvolta la sensazione che i Nostri stiano semplicemente eseguendo il compitino si fa sentire, soprattutto verso metà concerto, cosa che evidentemente il pubblico non deve aver notato quanto il sottoscritto, visto che il carnaio nel moshpit non ha accennato a interrompersi fino alla fine, quando la doppietta “Dead Shall Arise” (durante la quale una chitarra smette di funzionare) e title track dell’album qui in celebrazione vengono eseguite con precisione e tiro. Non possiamo dire nulla di male dello show degli americani, ma ci si poteva aspettare un’esibizione appena un po’ più genuina.
(Giuseppe Caterino)
WORMROT
Da Singapore con furore, i Wormrot concludono la loro breve tournée europea sul palco (secondario) del Netherlands Deathfest, dando conferma di essere una delle grindcore band migliori del decennio. Gli anni di pausa non hanno minimamente scalfito la verve del nucleo storico composto da Rasyid e Arif che, trovato in Vijesh un validissimo sostituto dietro alle pelli, riescono a replicare senza alcuna difficoltà le frenetiche trame del loro materiale, schegge impazzite su cui la platea (composta anche da punkabbestia giunti allo 013 appositamente per Discharge e Martyrdöd) non può fare a meno di sfogare tutta la sua energia, raggiungendo vette di violenza che non saranno mai più eguagliate nel corso della manifestazione. Il pit è un autentico tripudio di corpi e calci volanti, le invasioni di palco da parte dei fan più esagitati aumentano con il passare dei minuti – mettendo peraltro a serio rischio la pedaliera di Rasyid – e l’adrenalina arriva a tagliarsi a fette, mentre il terzetto macina a mille all’ora la sua personale miscela di grind e thrash, figlia sia della lezione dei cosiddetti padri fondatori (Repulsion, Napalm Death, Brutal Truth) che di realtà più moderne e ‘muscolari’ come Pig Destroyer, Insect Warfare e Discordance Axis. Ciò che ne consegue è un set serratissimo, in cui impatto e vaghi accenni di orecchiabilità si incastrano ad una resa strumentale chirurgica, per trenta minuti complessivi che non esitiamo a definire i più intensi e viscerali del festival. La lunga attesa per riuscire a vederli non è trascorsa invano, grandissimi Wormrot.
(Giacomo Slongo)
BLOODBATH
Headliner della prima giornata di festival, i Bloodbath richiamano a sé tutta quella frangia di pubblico in astinenza di old school death metal dopo ore incentrate perlopiù su grind e affini. Difficile trovare parole nuove per descrivere l’operato del combo svedese (con frontman britannico al seguito): dall’uscita del pluri-acclamato “Grand Morbid Funeral”, forse l’apice della sua discografia, il quintetto ha insistito molto sull’attività live, suonando a pressoché tutti i grandi happening del Vecchio Continente e cementando molto le dinamiche dei vari show, al punto che se si escludono lievi accorgimenti di setlist (vedi “Outnumbering the Day” in apertura anziché la dismemberiana “Let the Stillborn Come to Me”) sappiamo già dove i Nostri andranno a parare nel corso della performance. E infatti così è, in un tripudio di chitarre distorte fino a sembrare motoseghe, ritmiche abrasive e growling vocals prese di peso dagli albori del genere, per gentile concessione di un Nick Holmes ormai calato appieno nella parte di frontman death metal… almeno dal punto di vista vocale. Già, perchè se i membri di Opeth e Katatonia sembrano in tutto e per tutto ‘dentro’ lo show, il leader dei Paradise Lost dimostra di non ricordarsi mezza parola dei testi, leggendo in continuazione da un piccolo gobbo elettronico e fugando un po’ di quell’atmosfera insalubre e novantiana che episodi come “Mental Abortion”, “Cancer of the Soul” e “Like Fire” si portano da sempre appresso. Una pecca di poco conto, certo, che nulla toglie all’effettiva qualità del concerto proposto dalla band, ma al tempo stesso evitabile, sintomo di un coinvolgimento non del tutto trasparente e sincero.
(Giacomo Slongo)
MARTYRDÖD
Avere a disposizione nello stesso giorno suoni guerriglieri come quelli di Discharge, Wormrot e Martyrdöd deve aver fatto gola a diversi punk e amanti del crust, ma anche a noi semplici metallari la band di Gothenburg interessa quanto basta per essere ammirata in quella bolgia dantesca che è il second stage. Tra sudore e temperature ormai salite a dismisura, gli svedesi mettono in moto una macchina da concerto perfetta, e tra stralci tratti prepotentemente da “List”, la cui title-track ha creato un’atmosfera ineccepibile, “Elddop” e “Paranoia”, creano un vortice di pogo non stop corroborato da una base sonora estremamente godibile, tutto sommato, anche a braccia conserte e da semplici spettatori della mattanza. Complici dei bei suoni e un mood della band tutt’altro che ostentatamente aggressivo (anzi, sa essere un vero piacere a volte essere sopraffatti da delle mazzate sonore da gente che sul palco sorride), quella degli svedesi è una ciliegina sulla torta tra le esibizioni della prima giornata di festival. Imperdibili quando possibile.
(Giuseppe Caterino)
SVARTIDAUDI
La nostra prima visita al palco del Patronaat avviene in concomitanza dello show degli Svartidauði, chiamati a chiudere la tranche di concerti del venerdì. L’hype creatosi intorno a certe sonorità black metal, di cui la formazione islandese può ritenersi capostipite, avendo spianato la strada ai vari Misþyrming, Sinmara e Zhrine, ci appare tangibile non appena raggiungiamo il piano adibito a concerti dell’edificio, occupato da una vasta schiera di spettatori in attesa dell’inizio del cerimoniale. Tempo pochi minuti e si comincia, con il quartetto immerso in una luce rossastra e disturbante che ben si presta a fare da cornice allo show, il cui contenuto può essere descritto come una versione ancora più ostica e ipnotica dei Deathspell Omega del periodo “Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice”/“Fas – Ite, Maledicti, in Ignem Aeternum”. Persi per strada i cappucci à la Mgla, gli Svartidauði hanno insomma preservato tutta la loro assurda gravità, investendoci con una colata di sonorità stridenti che sembrano catapultarci in un universo parallelo a base di ritmiche sconnesse e riff paranoici, dove la melodia è sostituita dalla dissonanza e la linearità dal caos apparente. Dal pubblico, nei circa sessanta minuti di performance, non si levano né applausi né grida di incoraggiamento, ma non per una qualche forma di protesta. La platea è un tutt’uno con la musica vomitata dagli amplificatori e l’impressione è che nessuno abbia da ridire a fronte delle assurde trame di una “Impotent Solar Phallus” o di una “Flesh Cathedral”, lunghissimi inni alla fine dei nostri giorni. Andiamo a letto con l’emicrania, ma decisamente soddisfatti.
(Giacomo Slongo)
GIORNO 2 – 04/03/2017
DEAD CONGREGATION
Lo show dei Dead Congregation era piuttosto atteso, come testimonia anche la grande affluenza di pubblico in un orario che avrebbe potuto rischiare di penalizzarli (poco prima delle tre del pomeriggio), e la band di Atene non si fa pregare per ripagare il gran numero di spettatori presenti. Lo spettacolo è intenso e serrato e abbraccia tanto “Promulgation Of The Fall” quanto “Graves Of The Archangel”, passando anche per la furente “Wind’s Bane”, estratta dal recente EP “Sombre Doom”. Il tiro dei greci è invidiabile e anche se alcune scelte sonore non ci convincono appieno lo spettacolo è godibile sotto molti aspetti, primo fra tutti l’intensità che sembra generarsi dal palco (ribadiamo che l’orario non era esattamente dei migliori, forse anche per quello che i greci stanno rappresentando oggigiorno nel panorama estremo), che viene trasmessa sotto forma di vibrazioni sonore e mattanza musicale, culminanti con una doppietta finale da lasciar tramortiti: “Promulgation Of The Fall” e “Serpentskin” infatti ci danno una sberla finale di proporzioni bibliche e ci cacciano dal main stage attoniti quando sono solo le quattro del pomeriggio. Ottimi.
(Giuseppe Caterino)
TSJUDER
Il main stage è rovente quando gli Tsjuder fanno il loro ingresso sul palco con la chiara intenzione di non fare nulla per raffreddarlo. I norvegesi, tra gli alfieri del black metal inteso nella sua concezione più ‘true’ – pur con qualche commistione thrash insita nell’approccio – sono in stato di grazia e ci regalano un concerto impareggiabile, pieno di schegge impazzite, con una pletora iniziale di brani al fulmicotone (“Slakt”, “Helvete”, l’imperterrita “Ghouls”) e un’attitudine puramente punk, e di conseguenza, in qualche modo, puramente black metal. Gli Tsjuder sanno come comportarsi sopra un palco e così, anche quando il basso di Nag decide di smettere di funzionare, senza troppi pensieri si decide di proseguire il concerto con voce, chitarra e batteria, a creare un effetto ancora più minimale e certamente ancora più malefico, con momenti a volte stranianti ma pregni di un impatto ancora intatto nella sua primigenia forma di nefanda musica nera. Da segnalare la cover di “Sacrifice” dei Bathory. Pure fucking evil.
(Giuseppe Caterino)
IMPALED NAZARENE
Classico concerto ‘da festival’ che riesce ad abbracciare quanto più variatamente possibile la discografia dei finlandesi, a partire da una feroce “Condemned To Hell” che mette immediatamente in chiaro quanto gli Impaled Nazarene siano in forma smagliante, pronti a mettere a ferro e fuoco lo 013 durante un’oretta di show folle e compresso. La carica sovversiva e anarchica della band e di un Mika Luttinen mattatore come non mai si presenta sotto forma di brani che spaziano dall’efferatezza di un “Suomi Finland Perkele” a momenti di pura goliardia tributante, come in “Motorpenis”, passando per qualcosa di più moderno come “Vigorous And Liberating Death”, sino a “Morbid Fate”, tratto dal secondo demo. Questo a significare, con ancora più convinzione, quanto gli Impaled Nazarene siano un gruppo a sé stante e non catalogabile, un proiettile impazzito lanciato a velocità folle su di un pubblico festante, che incita senza sosta i propri beniamini, che chiudono una prestazione eclatante con il doppio schiaffo di “Sadhu Satana” e “Total War”, oramai in piena atmosfera di festa. La band che ha spremuto ogni goccia di sudore, la platea soddisfatta e stremata, tutti sembrano appagati: che cos’altro dovremmo chiedere?
(Giuseppe Caterino)
DEFEATED SANITY
Quello in programma al Netherlands Deathfest non è il solito concerto firmato Defeated Sanity. Per l’occasione, infatti, il quintetto ha deciso di riproporre integralmente il ‘lato’ techno-death della sua ultima prova sulla lunga distanza, accantonando per un momento le derive opprimenti e gutturali che da sempre lo contraddistinguono – basti pensare ai vari “Chapters of Repugnance” e “Passages into Deformity” – per abbracciare un sound raffinato e cerebrale, figlio della lezione impartita anni or sono da Atheist, Cynic e Death. Cambiano i punti di riferimento, certo, ma non il quoziente tecnico messo in campo, se possibile ancora più esoso e sfacciato: “Dharmata” prende vita davanti ai nostri occhi in un’orgia di soluzioni ritmiche impossibili, riff acuminati e parentesi jazz/fusion strabordanti di eleganza e raffinatezza, al punto da lasciarci completamente ammutoliti. Potremmo decantare per ore il lavoro di Lille Gruber alla batteria o quello di Jacob Schmidt al basso, ma va detto che è l’intera band – cui si aggiunge il frontman statunitense Max Phelps, responsabile delle voci anche su disco – a convincere per l’incredibile naturalezza con cui sciorina i brani, dall’opener “The Mezmerizing Light” agli otto minuti della conclusiva “Return to Samsara”, catapultandoci per qualche decina di minuti in un passato musicale troppo spesso dimenticato. Esperimento pienamente riuscito.
(Giacomo Slongo)
NIFELHEIM
E’ un salto nel tempo quello che gli svedesi ci fanno fare con la loro esibizione, un tuffo negli anni ’80 più grezzi e funesti, quelli che avevano partorito Venom e Bathory, quelli in cui un thrash metal estremizzato in ritmi e liriche fu poi riconosciuto come prima ondata di black metal. I Nifelheim restano fedeli al proprio sound sin dalla loro più lontana esibizione e così fanno in questo sabato pomeriggio olandese. Inviperiti e incapaci di stare fermi sul palco, benché qualche problema di suoni ne azzoppi l’inizio dell’esibizione, i tre, borchiati come da rigorosa tradizione, si lanciano in smargiassate e atti che sono solo un contorno ad una scaletta che racchiude quanto di più malvagio partorito dalle menti dei Nostri. Il pubblico attendeva questa esibizione con particolare bramosia, a giudicare dal supporto inarrestabile riservato ai fratelli Gustavsson e dalla baldanza con cui, dal palco, la risposta arriva forte e chiara. I Nifelheim ci credono ancora un sacco e chiudono con “The Bestial Avenger” un concerto sporco, ignorante, spaccone e ovviamente irresistibile.
(Giuseppe Caterino)
SINISTER
I Sinister non saranno certo la band più simpatica e dinamica sulla piazza, ma se si parla di solidità applicata ad una performance death metal il loro nome non potrà che essere preso ad esempio. Freschi reduci dalla pubblicazione del loro dodicesimo disco in studio, i Nostri salgono sul palco con la sicurezza di chi sa di giocare in casa, di fronte ad un pubblico di connazionali che non vede l’ora di incrinarsi qualche vertebra, assumendosi il rischio di una setlist priva di classici e composta quasi esclusivamente da estratti di “Syncretism”, “The Post-Apocalyptic Servant” e “The Carnage Ending”. Una scelta che avrà sicuramente scontentato qualcuno, specie i fan maggiormente legati alla vecchia scuola, ma che tutto sommato ci dà prova di una formazione convintissima delle potenzialità del suo repertorio recente, lungi dall’adagiarsi sugli allori come certi colleghi americani (Deicide? Obituary?). Si parte con “Transylvania (City of the Damned)” e si finisce con la titletrack del suddetto disco del 2012, quindi, con la sola “Sadistic Intent” a fungere da baluardo del passato, mentre i vari membri del quintetto – fermi sulle loro postazioni quasi avessero i piedi inchiodati a terra – macinano riff e ritmiche a mo’ di battaglione panzer, incalzati dal growling immutabile di Aad Kloosterwaard. Detto che sono proprio le linee vocali del frontman a penalizzare in minima parte lo show, risultando oltremodo piatte e gorgoglianti, non possiamo che alzare un pollice in direzione dei Sinister, ancora una volta sinonimo di concretezza, potenza e professionalità.
(Giacomo Slongo)
CANDLEMASS
La presenza dei Candlemass all’interno della kermesse potrebbe suonare bizzarra, volendo accostarla agli assalti death–black sinora offerti, eppure la gran folla che si fa spazio durante l’allestimento del palco fa ben capire quanto gli svedesi siano stati fondamentali nella costruzione di gran parte delle band che hanno il loro nome in cartellone. Di fatto l’occasione è più che ghiotta, visto che il gruppo si trova alla prima data del tour che propone l’intero “Nightfall”, e la sensazione è che i Candlemass siano una di quelle poche band che trascendono il sottogenere preferito e che abbiano, dunque, l’opportunità di giocare ‘fuori campionato’. Le luci si abbassano quando parte “Gothic Stone” ad introdurre sul palco la formazione capitanata da quell’animale che è Mats Léven, e con “Well Of Souls” si decolla ufficialmente con quello che sarà un concerto meraviglioso, suonato egregiamente con suoni all’altezza. I brani, estratti in ordine di scaletta, vengono salmodiati dai presenti e la prova sul palco è davvero encomiabile, senza cali e con una presenza scenica del singer che, teatrale e qualitativamente ineccepibile, riesce a non far rimpiangere il comunque sempre ingombrante nome di Messiah Marcolin e il lavoro incredibile che fece sullo storico disco che viene qui riproposto. Il tempo sembra volare durante la performance dei Candlemass, e ci ritroviamo di colpo ad aver scandito con la band l’iconica “Bewitched”, ad un passo dalla fine, quando viene annunciata, a mo’ di encore, la chiusura per mezzo di “Born In A Tank” dall’eponimo album del 2005. Finita la musica riatterriamo, spaesati, sul pianeta Terra, non senza una vertigine. Concerto eccezionale così come la band che si è esibita, decisamente fuori gara rispetto a tanti altri contendenti.
(Giuseppe Caterino)
GHOUL
Da che mondo è mondo, il concetto di festa non va molto d’accordo con quello di metal estremo, specie se si parla di death, grind e affini. Esistono però delle eccezioni, e i Ghoul, dalle sudice lande della Creepsylvania, ne sono forse la prova più irresistibile e travolgente, in grado di miscelare humor nero, demenzialità e atmosfere da party con l’effettiva pericolosità di certa musica. I Nostri sono a tutti gli effetti una ‘all star band’ composta da membri di Exhumed e Impaled, e sul palco secondario dello 013 inscenano un’accurata rappresentazione del loro immaginario da film di serie Z, con tanto di comparse in abiti scenici (pseudo-gerarchi nazisti, sciamani vudù, mostri pelosi e chi più ne ha più ne metta) e sangue finto scagliato in continuazione sul pubblico, per quello che non esitiamo a definire uno spettacolo nello spettacolo. E la musica? Fate finta che Carcass e Repulsion si prendano a pugni in un vicolo con D.R.I. e Suicidal Tendencies, shakerate il tutto con un fusto di birra a buon mercato ed otterrete un concentrato di crossover/death/grind/thrash molto simile a quello proposto dai quattro mascherati, sorretto da ritmiche incontenibili e da riff a dir poco energici e scoppiettanti. Impossibile non lasciarsi prendere dalla frenesia, impossibile rimanere fermi: l’intera sala è un brulichio di corpi che si scontrano e si dimenano, di parentesi mosh alternate a blast beat putridissimi, e non è un caso che la performance finisca per diventare uno degli apici del festival, con le varie “Off with Their Heads”, “Wall of Death” e “Dungeon Bastards” a decretare il definitivo trionfo dei Ghoul. Invasati e divertentissimi, non possiamo fare altro che applaudirli.
(Giacomo Slongo)
GORGOROTH
Lo show dei Gorgoroth è una celebrazione per i venticinque anni di esistenza della band, ma di fatto, per Infernus, potrebbe trattarsi di un’autocelebrazione della creatura di cui è padre e padrone (pur con tutta la faccenda legata alle controversie con Gaahl e King Ov Hell). Un baffutissimo Infernus, dicevamo, che si piazzerà alla sinistra del palco e per tutto il tempo starà con gli occhi puntati alla sua chitarra, incurante tanto del pubblico quanto dell’ubriachissimo Hoest che gli ronza attorno o che discute con il roadie che gli fa sparire le bottiglie o che, ancora, lancia il microfono a caso sulle prime file. Di fatto, a parte la prestazione sopra le righe dell’anima dei Taake, quello che colpisce è una sorta di asettica assenza che permea la performance dei Gorgoroth, scevra da qualsiasi orpello scenico ad eccezione del tipico vestiario black metal, e che confermerà poi anche la sensazione da ‘timbratura del cartellino’ del successivo concerto a San Donà di Piave, riportato sulle nostre pagine. Nonostante il senso di distacco, comunque, l’esibizione a livello musicale è godibile e con suoni decenti – tralasciando le ipertriggerate casse e alcuni cali qua e là – non memorabile forse, e colpisce, come da attese, soprattutto quando va a prendere dai dischi più datati (“Bergtrollets Hevn”, “Katharinas Bortgang”, rispettivamente da “Antichrist” e “Pentagram”, per non parlare dei momenti di “Under The Sign Of Hell”, come la sempre eccellente “Revelations Of Doom”). Come anticipato, gran parte dell’intrattenimento lo dobbiamo al buon Hoest, che ha fatto sudare non poche camicie tanto alla sicurezza, per le sue passeggiate giù dal palco, quanto allo staff tutto, mentre il resto della band si è limitato a sbrigare il proprio compito senza nessun passo più del dovuto, cosa che se da una parte ha ricalcato perfettamente il concetto di black metal, dall’altra ha reso l’esibizione un po’ svogliata e scarna.
(Giuseppe Caterino)
HORNA
Dopo l’altalenante (a nostro avviso) show dei Gorgoroth, sentiamo il bisogno di riconciliarci con la vera essenza della nera fiamma, quella lontana dalle luci dei riflettori e convintissima del messaggio diabolico di cui si fa portavoce. L’occasione ce la forniscono gli Horna, pilastri della scena finnica e da sempre sinonimo di qualità in sede live, che nella suggestiva cornice del Patronaat danno vita ad un rituale che ci rapisce nell’arco di pochi minuti, scaraventandoci dritti all’Inferno. Sarà per l’immediatezza delle trame del quintetto, ritmate e mai troppo veloci, sarà per l’inconfondibile gusto melodico di Shatraug, così ricco di pathos da far venire i brividi, sarà per dei suoni calibrati ad hoc, sta di fatto che davanti ai nostri occhi la performance assume presto i connotati di momento topico della giornata, ampliando la propria carica emotiva brano dopo brano, fino a quasi scoppiare. I musicisti sono un tutt’uno con le emanazioni luciferine della musica, la resa è sicura, priva di sbavature, e nell’insieme è soprattutto il frontman Spellgoth a spiccare per il suo screaming espressivo e le sue movenze spiritate, evitando le eccentricità (ricordiamo ancora gli spogliarelli integrali del tour con Tortorum e Fides Inversa) per non dissipare la coltre sulfurea calata come in seguito a qualche incantesimo sul palco. Circa sessanta minuti di show che tutti i presenti, black metaller e non, ricorderanno con estremo piacere, specie ripensando alla resa devastante di una “Örkkivuorilta”.
(Giacomo Slongo)
GIORNO 3 – 05/03/2017
CORPSESSED
Le ostilità del terzo e ultimo giorno di festival vengono aperte dai Corpsessed, tra le formazioni più heavy e opprimenti della ‘nuova’ scena old school death metal. Da sempre abilissimi nell’abbruttire la lezione di certi gruppi scandinavi (Abhorrence, Demigod, Grave, ecc.) per poi miscelarla alle colate bituminose dei maestri Incantation, i Nostri fanno quasi passare la performance degli amici Dead Congregation come orecchiabile, scaraventando la sala principale dello 013 in un abisso senza fondo di tenebre e peccati. Non sono in molti ad accorrere nei pressi del palco, ma chi c’è non può fare a meno di rimanere impressionato dalla pesantezza e dalla crudezza di ciò che viene vomitato dagli strumenti, paragonabile in tutto e per tutto ad un caterpillar intento a frantumare una testa al suolo. Le chitarre suonano come tornado, gravose e distorte fino all’inverosimile, basso e batteria scagliano contro la platea una serie di ritmiche monolitiche e impenetrabili, mentre alla voce Niko Matilainen si conferma un autentico Balrog, sfoggiando un growling profondissimo che polverizza le ultime difese e chiude un cerchio di rara intensità e malvagità, scandito da composizioni mostruose del calibro di “Trepanation”, “Ravening Tides” e “The Threshold” e da un inedito che immaginiamo apparirà sulla prossima fatica del quintetto. Non c’è molto altro da aggiungere, semplicemente devastanti.
(Giacomo Slongo)
EMBRYONIC DEVOURMENT
Conoscevamo gli Embryonic Devourment come una buona realtà del vasto circuito US death metal, lungi dal poter essere definita fondamentale ma al tempo stesso solida e competente, sempre pronta a divertirci con il suo mix di Malignancy, Origin e progressioni tecniche tipiche della scuola californiana. Una band di seconda fascia nell’accezione migliore del termine, di quelle che mantengono vivo il sottobosco underground del genere, che dal vivo (e questo lo scopriamo solo oggi) ha l’indubbia facoltà di trasformarsi in una piccola macchina da guerra. Guidato dal growling e dal carisma del cantante/bassista Austin Spence, che a dirla tutta sembra uscito da una comunità freakettona dei Seventies, il terzetto capitalizza al massimo il tempo a propria disposizione, sciorinando uno dopo l’altro i vari brani di “Fear of Reality Exceeds Fantasy”, “Vivid Interpretations of the Void” e “Reptilian Agenda” e dando prova di una compattezza tutt’altro che scontata, quasi come se destreggiarsi fra certe trame fosse la routine. Non si assiste ad un vero e proprio picco, un momento che si distanzi dagli altri per classe o inventiva, ma i quaranta minuti trascorsi sul palco dai Nostri scorrono che è un vero piacere, in una spirale di avvitamenti chitarristici funzionali al songwriting, mai eccessivi o sopra le righe, linee di basso in primissimo piano e deliranti versi fantascientifici sulla conquista della Terra da parte dei rettiliani, per un risultato complessivo di sicuro impatto e concretezza. Bravi Embryonic Devourment, quindi, arrivati a Tilburg in punta di piedi e responsabili di uno show di tutto rispetto.
(Giacomo Slongo)
PSEUDOGOD
Dalle tenebre dell’underground russo, ecco sbarcare sul palco del Netherlands Deathfest una delle formazioni più crude e spaventose dell’attuale panorama black/death. Forti di una discografia composta perlopiù da EP e split, con l’esordio “Deathwomb Catechesis” vecchio ormai di cinque anni, gli Pseudogod sono il classico gruppo in grado di mandare in estasi gli autentici cultori del genere e terrorizzare chi, per un motivo o per l’altro, non è mai entrato in contatto con la loro musica, sorella degenere delle proposte di Grave Miasma, Lvcifyre e Teitanblood. Musicisti poco propensi a comunicare con il pubblico, quindi, completamente asserviti alla causa diabolica sottintesa in brani come “Malignant Spears” e “The Antichrist Victory”, in grado di evocare immagini infernali con il solo riecheggiare di un riff o di una scarica di blast beat. A differenza di tanti fenomeni ricoperti di borchie, cartuccere e toppe dei Blasphemy, i Nostri sono poi abilissimi nel conferire un senso di logicità e concretezza alle varie composizioni, tenendosi a debita distanza dal puro caos per abbracciare un’idea di songwriting che non disdegna affatto parentesi ritmate e un uso maggiormente comprensibile delle chitarre, le quali – sotto la consueta dose di distorsioni scabrose – possono arrivare a ricordare l’operato di Angelcorpse e primi Morbid Angel. Non una parola, non un segno di umanità da parte del quintetto, con il frontman I.S.K.H. a dominare la scena standosene appeso all’asta del microfono e da subito cardine di una setlist tanto barbara quanto magnetica, che ci dà la definitiva conferma di una band da tenere sotto stretta sorveglianza.
(Giacomo Slongo)
REGARD LES HOMMES TOMBER
Mentre la pioggia scende fitta su Tilburg, la terza giornata di festival ci propone una line-up di tutto rispetto, che decidiamo di far partire dai post black metaller francesi, che appestano di incenso il Patronaat e sciorinano brani tratti dai loro due dischi all’attivo, tra contaminazioni sludge piuttosto marcate e una bella risposta da parte dei presenti. Il pubblico é piuttosto folto, benché lo spazio non venga riempito del tutto, ma alle quattro del pomeriggio la cosa può rendere più che soddisfatti i ragazzi di Nantes, che dal canto loro propongono uno show da grande occasione, giocando sapientemente con luci, effetti scenici e con una certa eterogeneità della proposta che lascia soddisfatti tutti i presenti per intensità ed efficienza. Da seguire certamente.
(Giuseppe Caterino)
CANCER
Altro nome che evoca spettri di passata grandezza per ogni appassionato di death metal della vecchia scuola, e mai come in questo caso (come con Repulsion o Exhumed) parliamo di chi, quella scuola, ha effettivamente contribuito a crearla. Un main stage affollato ma non troppo dà il benvenuto alla band inglese che, giustamente, si fa trovare pronta con un set oculato e tagliente come un rasoio; partendo da un’apertura forsennata ad opera di “C.F.C.”, “Witch Hunt” e “Death Shall Rise” e giusto qualche pausa tra un pezzo e l’altro per rifiatare, i primi due dischi della band hanno ovviamente il ruolo del leone all’interno di uno show potentissimo che riprende, fra l’altro, “Blood Bath”, la devastante “Burning Casket” e lascia i presenti a sgolarsi e ad agitarsi per tutta la durata del concerto. Una lezione di death-thrash metal semplice e feroce che, pur all’interno di qualsiasi evoluzione temporale, avrà sempre il suo perché.
(Giuseppe Caterino)
DEMOLITION HAMMER
A giudicare dal grande numero di magliette che inneggiavano ai Demolition Hammer non eravamo gli unici ad attendere trepidanti la band di New York, sinonimo di una certa incontrovertibile purezza e qualità, che pare star vivendo una nuova giovinezza, lasciando dietro ad ogni show solo consensi e ossa rotte, come accaduto anche al Metalitalia.com Festival dello scorso anno. Un semplice telone nero con impresso il logo della band, luci basse e l’apertura ad opera di “Skull Fracturing Nightmare” permettono al pubblico – foltissimo ora – di esplodere in scoppi di pogo e stage diving (incitati per tutta la durata del concerto da un carichissimo Steve Reynolds), che proseguiranno inarrestabili per tutta la durata del live. Bastano solo nove brani, ai Demolition Hammer, per mettere a ferro e fuoco lo 013 e per farci mettere la crocetta su una delle band più incredibili viste durante il festival. Tra “Epidemic Of Violence”, “Carnivorous Obsession” o “Aborticide”, non sapremmo dire quale sia stato il momento migliore di un’esibizione stellare che non ha visto cali di tensione, bensì solo una band tanto inviperita quanto umile (li vedremo piegare il loro stesso telone dopo l’esibizione), tanto terra-terra quanto sopra le righe quando è stato il momento di lanciare sulla folla la propria dissennata furia. Esempio perfetto di come un gruppo thrash dovrebbe invecchiare e inarrivabili per molte band che hanno la metà degli anni, i Demolition Hammer lasciano il palco a testa altissima.
(Giuseppe Caterino)
TRIPTYIKON
A confermare la bontà della proposta domenicale del Netherlands Deathfest ci pensa il cambio di palco sul main stage, che ancora sta tremando dopo lo spettacolo offerto dai Demolition Hammer: l’enorme copertina di “To Mega Therion” prende posto sullo sfondo, croci rovesciate indicano le posizioni dei membri della band e due stendardi con le copertine dei due dischi dell’attuale band di Tom G. Warrior vengono messe ai lati del palco. Un po’ di attesa e sulle eteree sensazioni generate da “Crucifixus” i Celtic Frost irrompono immediatamente on stage. Già, i Celtic Frost, perché l’apertura, senza fronzoli, è dedicata a una plumbea, pesante “Procreation (Of The Wicked)”, nientemeno che da “Morbid Tales”, e per tutta la durata dello show i pezzi delle due band di mr. Fischer si alterneranno senza sfigurare né far calare la tensione di uno show che, anzi, va in crescendo e si colloca sul personalissimo podio del sottoscritto. Se vero è che i Tryptikon sono una realtà autosufficiente e che (quasi) non fa rimpiangere la grandiosità del passato del proprio leader, vero è che non dispiace sentire anche un po’ di tal passato, e dunque godiamo quanto notiamo il continuo rimpallo tra le due anime qui presenti: da “Goetia”, che segue a ruota nella sua imperiosità, e lascia spazio a “Ain Elohim” e a sua volta a quella cosa enorme che è “Tree Of Suffocating Souls”, impeccabilmente suonata da una band rodata e precisa. Nemmeno il tempo di rifiatare, giusto una parola, e “Circle Of The Tyrants” scatena, al via del death grunt più famoso del metal, l’inferno in terra. I suoni sono calibrati e il livello emotivo è oramai alto e pronto all’arrivo di un brano come “Aurorae”, che nella dimensione live trova un vestito che le calza a pennello e che sa generare un momento trasognante ed ipnotico come il suo soffice e malevolo arpeggio. Ci portiamo verso la fine del concerto ad opera di una pesantissima rasoiata che risponde al nome di “Morbid Tales”, e che vede la band uscire padrona di sé stessa e tra gli applausi di un pubblico estasiato.
(Giuseppe Caterino)
HOODED MENACE
Riusciamo a intrufolarci in un pienissimo second stage a concerto già iniziato, mentre la band finlandese è giusto all’inizio di “Elysium Of Dripping Death”, tratto dall’ultimo “Darkness Drips Forth”, con quell’apertura in cui gli intrecci delle chitarre ben rappresentano la musicalità esasperata dalle note doom e death di questa band che ha saputo raccogliere estremi consensi nel giro di un pugno di intensissimi album. Il nuovo ed enorme cantante si ritaglia un proprio spazio a fronte palco, quasi risultando fuori contesto rispetto al resto della band (forse anche a livello di atteggiamento con il concept), ma al di là dell’aspetto più power metal che non death-doom, riesce a creare una buona linea tra la funerea proposta del gruppo e la comunicazione della stessa al pubblico; audience che, dal canto suo, supporta la band con una partecipazione adeguata al tipo di proposta, ma seguendo ogni momento con religiosa attenzione. La band sta macinando esperienza e lascia il palco dopo aver regalato uno show di tutto rispetto, non vediamo l’ora di rivederli su di un palco tutto per loro.
(Giuseppe Caterino)
ABBATH
Da Abbath ci si aspetta come sempre tutto e il contrario di tutto, e non a caso il numero di spettatori che si presenta di fronte al palco per la sua band è quello maggiore (raggiunto solo dai Demolition Hammer, almeno nella giornata odierna); che sia per quello che ha rappresentato dal punto di vista storico, per l’attuale progetto o semplicemente per i lazzi che intramezzano i concerti del norvegese e della sua band, la risposta nei festival è sempre alta, mai come ora nella sua posizione di headliner. Il concerto di Abbath, dal canto suo, in questa occasione riesce ad essere più focalizzato sull’aspetto musicale che non sulle scenette a cui siamo stati abituati (che però non mancano), e sebbene in alcuni momenti l’intensità sia piuttosto alta, non possiamo non notare una sorta di stanchezza nell’esecuzione; e lo stesso Abbath ad un certo punto ci ricorda che è ‘fucking Sunday’, non sappiamo se per smuovere un po’ l’audience o per chiedere scusa per una certa staticità. La scaletta rimasta immutata nell’ultimo anno e mezzo inoltre non aiuta, e sebbene sia sempre un piacere riascoltare le varie “One By One”, “Solarfall” o “Tyrants” (dall’epoca Immortal) o i discreti brani del progetto solista, un minimo di varietà in più sarebbe stata gradita. Anche a livello tecnico l’esecuzione segue lo stesso copione, laddove abbiamo una band ora più rodata, un batterista che non appartiene a questa terra e qualche arpeggio sbagliato da parte del Nostro, che comunque, tra alti e bassi, sa sempre regalare momenti di gran gusto. Se dovessimo dare un voto all’esibizione, anche al netto di una certa staticità, un sei e mezzo ci sarebbe stato tutto, ma del resto Abbath è come uno di famiglia, e alla famiglia non si danno voti.
(Giuseppe Caterino)
SARGEIST
IL concerto black metal del Netherlands Deathfest? Senza dubbio quello dei Sargeist di Shatraug, chiamati a replicare l’ottima prova degli Horna della sera precedente. Stessa cornice e stesso slot orario (con un Patronaat che a notte fonda si accinge ad ospitare l’ultimo show della giornata), una sola differenza: gli autori dei vari “Feeding the Crawling Shadows” e “Let the Devil In” hanno letteralmente fatto il culo alla concorrenza, imponendosi grazie al loro stile diabolico, invasato e al tempo stesso ultra melodico, figlio della migliore scuola finnica e di una penna – quella del suddetto chitarrista/membro fondatore – da sempre ispiratissima e sinonimo di alta qualità. Persi per strada diversi membri importanti (basti pensare al batterista Horns e al frontman Hoath Torog, entrambi in forze ai Behexen), i Nostri hanno saputo raccogliere le forze e trovare dei sostituti all’altezza della situazione, arrivando in Olanda con il chiaro intento di testare le nuove dinamiche e cominciare un nuovo ciclo, sempre all’insegna di una proposta 100% underground e satanica. Missione oltremodo riuscita, diremmo noi, perchè basta una “Empire of Suffering” posta in apertura per entusiasmare i presenti, scalzare gli Horna dal podio e ridicolizzare gli altri blackster del festival, a partire dagli headliner Gorgoroth. La resa del brano è impeccabile, a tratti incontenibile, e da lì non si torna più indietro, con lo screaming del neo entrato Profundus (una sorta di monaco posseduto dal demonio, con tanto di saio e barba chilometrica) a perforarci i timpani accompagnato da un riffing tra i più ispirati in circolazione. Il modo migliore per concludere una tre giorni come quella di Tilburg.
(Giacomo Slongo)