Introduzione di Giuseppe Caterino
Report a cura di Giuseppe Caterino e Giacomo Slongo
Era il 2019, e un virus che siamo stufi di nominare iniziava a far parlare di sé quando il Netherlands Deathfest si trovò, non di certo unico festival al mondo, a dichiarare una prima clamorosa sospensione delle attività e a rimandare il festival a tempi migliori. Abbiamo visto com’è andata, e questi due anni non si cancelleranno mai dai nostri ricordi; a maggior ragione, dunque, il ritorno ad un festival europeo di una certa grandezza è stato (per noi ma per un po’ tutti i presenti) un motivo di festa: la sensazione che si è respirata nella tiepida freschezza di Eindhoven è stata quella di un grande party interrotto solo momentaneamente e finalmente ricominciato, di amici che si ritrovano dopo troppo tempo, di chiacchiere con sconosciuti con una birra in mano, e la cosa ci è sembrata coinvolgere gli stessi artisti, magari quelli che la pandemia ha lasciato in stallo un po’ più di altri, bendisposti a fermarsi per scambiare due parole o a ritrovarsi tra le prime file ai concerti di altro gruppi, come fan prima che come musicisti. Un’atmosfera rilassata, dicevamo, che ha coinvolto tutto il centro della cittadina, pullulante di maglie metallare e sguardi truci, con qualche sguardo sorpreso dei passanti del sabato e continui cenni d’intesa tra volti incrociati più volte durante i tre giorni di festival. Festival che apre le sue porte nella storica venue dell’Effenaar, con i suoi due spazi per i concerti, una proposta spartana ma dignitosa di cibarie (ma è facilissimo uscire e andare a mangiare qualcosa nei ristorantini del centro), una scelta di birrette piuttosto generosa e, soprattutto, molti stand di dischi e magliette. C’è anche qualche nota dolente, non imputabile al festival: abbiamo notato una completa assenza di giovani adepti alla causa del metallo, dato che l’età media, a occhio, non è sotto la trentina, e anche i nomi sul palco, – quantomeno quelli più blasonati – hanno passato i propri anni d’oro. Il genere sembra vivo e vegeto, per certi aspetti, ma nella sua forma classica, non per niente ‘old-school’, sembra campare di revival, di ricordi di quando “tutto andava meglio”, come direbbero gli anziani davanti ai cantieri. Pensieri a parte, la sortita olandese ha permesso a tutti di godersi un bell’impasto di grandi nomi. Inoltre, questa quinta edizione sarà anche l’ultima sotto il format ‘Deathfest’, e un po’ ci dispiace; la precisione riscontrata nei cambi palco e inizio live, l’aria ‘easy’, un’organizzazione che ha saputo tenere botta anche durante la pandemia, hanno dimostrato una grande professionalità, e forse l’unica lamentela l’abbiamo dal punto di vista di qualche carenza in termini di suoni durante i concerti, cosa che ci ha lasciato in alcuni casi davvero sbalorditi; ma in generale l’esperienza si è rivelata più che piacevole, una fuga dalla routine dedicata al metallo è sempre gradita, soprattutto se prima dell’estate e dei ‘soliti’ festival estivi, e sono moltissimi quelli che hanno preso l’aereo e raggiunto i Paesi Bassi per un’immersione – e un ritorno – tra le braccia della musica della morte. Che dire: tre giorni di metallo incandescente, con qualche conferma e qualche sorpresa, e almeno una delusione, orecchie che fischiano, fiumi di birre: vediamo allora com’è andata!
VENERDÌ 29 APRILE
L’edizione di commiato del Netherlands Deathfest si apre (giustamente) all’insegna dell’ignoranza e del marciume. Davanti ad una sala principale che inizia ad accogliere i primi avventori della kermesse, i CADAVERIC INCUBATOR riportano infatti le lancette dell’orologio indietro di almeno tre decenni, ai tempi d’oro di Autopsy, Carcass, Repulsion e dei connazionali Xysma, confermando nell’arco di un set intenso e deragliante tutte le buone parole spese sul loro conto in questi ultimi anni. Non si reinventa la ruota (anzi, a tratti l’impressione è che i cavernicoli finlandesi non abbiano ancora scoperto questo strumento), ma il death/grind primordiale che fuoriesce dalle casse – dopo una fase iniziale di assestamento dei suoni – non tarda a manifestarsi in tutta la sua efficacia e spontaneità, avanzando tra carneficine di breve durata ed episodi leggermente più articolati (pescati soprattutto dall’ultimo full-length “Nightmare Necropolis”) verso una più che meritata promozione. Anche in sede live, l’esperienza di questi vecchi volponi dell’underground non ha insomma deluso le aspettative. (Giacomo Slongo)
Tocca agli svizzeri CARNAL DECAY proseguire la scia di violenza sonora ormai innescata, e lo fanno con il loro death metal d’impatto, che ci ricorda nelle intenzioni nomi come Dying Fetus o Suffocation, quanto meno nella proposta live, pur con una dose di ignoranza davvero clamorosa. Il quartetto infiamma il second stage con uno show spaccaossa che il pubblico sembra gradire con trasporto, merito anche di uno spettacolo, sebbene essenziale e diretto, davvero professionale, e in poco più di mezz’ora escono vittoriosi tra gli applausi dei presenti. Uno show onesto, senza grossi picchi, ma di solidità. (Giuseppe Caterino) Per molti i BENEDICTION, preso atto della scomparsa dei Bolt Thrower, delle prove altalenanti degli ‘eredi’ Memoriam e dell’ispirazione non certo esaltante dei Carcass di “Torn Arteries”, sono ormai i veri signori inglesi del death metal vecchio stampo. “Scriptures”, pubblicato sfortunatamente in piena pandemia, ci aveva riconsegnato la band di Birmingham ‘in palla’ come non accadeva da tempo immemore, complice forse il ritorno all’ovile dello storico frontman Dave Ingram, e la performance di questa sera – tenutasi in una sala principale gremita – non fa altro che confermare il buon momento di forma del quintetto. I Nostri non sono mai stati dei geni della musica, ma la loro proposta, basata su un metallo della morte ‘working class’ in cui è il riff l’unico dio, difficilmente lascia indifferenti se interpretata con tanta veemenza e autorevolezza: la premiata ditta Darren Brookes/Peter Rew non sbaglia infatti un colpo, la sezione ritmica composta da Dan Bate al basso e da Giovanni Durst alla batteria funge da perfetto accompagnamento al bulldozer delle chitarre, mentre Ingram dimostra ancora una volta la sua stoffa di mattatore, sia a livello di tenuta vocale, sia per quanto concerne la presenza scenica, tenendo in pugno la folla con le sue movenze e il suo growling viscerale. “Divine Ultimatum”, “Nightfear” e “Jumping at Shadows” gli apici di un concerto a dir poco solido e massiccio. (Giacomo Slongo)
Torniamo nel second stage per lo show dei DEITUS, band attiva da ormai quasi un ventennio ma con pochi album alle spalle, tra cui il secondo, e sinora ultimo, “Via Dolorosa”, che era piaciuto su queste pagine. Uno show abbastanza breve per i black metaller inglesi, che attingono cinque brani dai propri lavori in una serie di sferzate certamente molto improntante sul riffing e su di un impatto quasi puramente heavy metal (anche nella proposta meramente scenica, asettica ma pelle e borchie come piace a noi). Richiamano un po’ meno gente, e il second stage, solitamente un carnaio, è abbastanza vivibile: dal canto loro i Deitus svolgono il loro live con capacità e suonando molto bene i loro pezzi, e anche i suoni (molto più consistenti in questo palco ‘minore’ rispetto al main) fanno il loro, tuttavia al di là del compito svolto bene ai Deitus è sembrata mancare una marcia in più per fare davvero breccia e lasciare un segno ancora più indelebile del proprio passaggio. (Giuseppe Caterino)
I DEMOLITION HAMMER sono ormai una sicurezza e una garanzia. Al di là di un’attitudine genuina e coi piedi per terra, gli americani, giunti in Olanda per questa data secca e di ritorno a New York già l’indomani, come ci raccontano loro stessi, irrompono sul palco con una ferocia e una violenza da lasciare stupefatti. Presi in considerazione unicamente “Epidemic Of Violence” e “Tortured Existence”, i Nostri all’ingresso sul palco sparano immediatamente sulla folla una “Skull Fractured Nightmare” che genera un pogo immediato, coinvolgente gran parte del pit, per poi proseguire in maniera serrata, con giusto un paio di parole tra una canzone e l’altra, per altri classiconi di tortura sonora, da “.44 Caliber Brain Surgery” alla conclusione ad opera di “Aborticide”, per una quarantina di minuti buona di puro thrash death alla newyorchese. La prova dei Nostri è maiuscola, certamente tra le più entusiasmanti della giornata e forse del festival, benché i suoni, all’altezza del pit, a quel punto siano piuttosto confusionari, lasciandoci l’impressione che se non avessimo conosciuto i brani non avremmo capito granché del concerto. Un piccolo neo, che purtroppo si ripeterà in altre esibizioni, e che sembra interessare perlomeno la zona mixer del main stage. (Giuseppe Caterino)
La presenza in cartellone degli ABYSSAL rappresenta indubbiamente una delle ‘chicche’ di questa quinta edizione del Netherlands Deathfest. Ancor più schivo di misantropi del calibro di Portal e Mitochondrion, il progetto inglese – di fatto una one-man band dal cantante/polistrumentista G.D.C., scortato per i live da alcuni turnisti – si presenta sul secondo palco dell’Effenaar incappucciato come da copione (con il leader avvolto da capo a piedi da un velo nero, per un effetto Nazgul notevole) e nel giro di pochi istanti scaraventa i presenti in un gorgo di follia e death-black/doom alienante e sperimentale. Occorrono sicuramente nervi saldi e una certa conoscenza del repertorio, rappresentato perlopiù dai brani degli ultimi “Antikatastaseis” e “A Beacon in the Husk”, per entrare in sintonia con quanto sprigionato dai musicisti sullo stage, ma lo show, tenendo anche conto delle sparutissime apparizioni live del gruppo, si può dire che centri decorosamente l’obiettivo, andando a crescere con il passare dei minuti e trovando nella conclusiva “The Last King” il proprio apice. (Giacomo Slongo)
Tra i nomi più attesi c’era quello dei SACRAMENTUM, con la promessa di uno show interamente incentrato sullo storico “Far Away From The Sun”, cosa che ovviamente ha attirato la quasi totalità dei presenti all’Effenaar ad assieparsi presso le fila dei main stage. Una scenografia imponente ad ornare il palco, ovviamente richiamante il disco del 1996, e l’atmosfera tipica delle grandi occasioni. Peccato, però, che lo show sarà forse il peggiore di tutto il festival. A partire dai suoni, davvero mal calibrati, che cambieranno d’intensità per tutto lo show e anche all’interno della stessa canzone, con volumi altalenanti e sensazioni di compressione che non permettono di distinguere praticamente nulla delle soluzioni di chitarra che tanto impreziosiscono l’album in studio da cui è tratto il concerto; ma va detto che i Sacramentum ci mettono del loro: la prova sembra stantia, e quel poco che ci sembra di riuscire a capire sembra suonato da una band impreparata o comunque intenta soprattutto ad apparire dura e pura come in tempi migliori piuttosto che suonare magari più dimessa ma professionale. Peccato. Perché i brani sono dei capolavori di black metal melodico, di quella scuola svedese da recuperare a tutti i costi, e almeno da parte nostra restiamo davvero delusi, e non sembriamo gli unici, sebbene una parte dei presenti sembri comunque apprezzare la confusione generata sul palco. Alla prossima volta, ci verrebbe da dire, ma a questo punto rimettiamo “Far Away From The Sun” nel lettore e ci godiamo i Sacramentum nel loro splendore, evitandoci altri imbarazzi del genere. (Giuseppe Caterino) Archiviata la figuraccia degli headliner svedesi, ci spostiamo nei pressi del secondo palco per assistere al concerto dei sempre graditi e divertenti BLOOD RED THRONE. Da anni la band norvegese è lontana dai vertici della scena death metal, tuttavia, come dimostrato anche dalla pubblicazione dell’ultimo “Imperial Congregation” via Nuclear Blast, si ritrova oggi a vivere un periodo particolarmente felice e fortunato della sua carriera, cosa che traspare appieno dallo show di questa sera. Il mix di groove e tecnicismi della band guidata dal caro vecchio Daniel ‘Død’ Olaisen (ex Satyricon), posto idealmente al crocevia fra Cannibal Corpse, Gorguts d’annata e Pantera, trova nella dimensione live la propria ragione di esistere, e pezzi recenti come “InStructed InSanity”, “Homicidal Ecstasy” e “Transparent Existence” lo dimostrano sull’onda di un coinvolgimento sempre maggiore da parte dell’audience, la quale sembra come rapita da un impulso di headbanging collettivo. È però con “Mephitication”, dall’eccellente ( ormai vecchio) “Altered Genesis”, che il quintetto fa letteralmente piazza pulita della sala, rispolverando le arie diaboliche con cui era solito condire i primi dischi e mandandoci a letto con l’adrenalina al massimo in vista dell’indomani. Buonanotte e sogni d’oro a tutti quanti. (Giacomo Slongo)
SABATO 30 APRILE
Il secondo giorno di festival è inaugurato dallo show dei DEIQUISITOR, rampolli del sempre più florido circuito death metal danese. Una band che su disco sta dimostrando di vivere una fase di crescita e maturazione, e che anche in sede live – tutto sommato – si gioca bene le sue carte, sebbene la proposta in questione non sia forse la più indicata per rompere il ghiaccio della giornata. Parliamo di un metallo della morte tecnico, tortuoso e dalle spiccate velleità cosmiche, quasi un mix fra Dead Congregation e Voivod, che il terzetto interpreta con piglio severo e deciso in un gioco di incastri a base di dissonanze, parentesi più dritte e massicce e rintocchi atmosferici che (va detto) un po’ si perdono nella resa sonora non pulitissima del concerto. Il basso, in particolare, finisce spesso per coprire il lavoro dell’unica chitarra scesa in campo, rendendo più sfuggenti alcune delle stratificazioni offerte dai brani, tra i quali si è comunque distinta la notevole “Divine Molecular Transcendence” (Giacomo Slongo). Tocca agli inglesi ADORIOR a salire sul palco del main stage all’Effenaar, e lo fanno con una certa baldanza, va detto. Attivi dall’ormai distante 1994 e con alle spalle due soli full-length, i Nostri condividono peraltro la batteria con i Grave Miasma, e l’impatto è inizialmente piuttosto notevole. Un death black violento e caciarone, guidato dalle urla – a volte bizzarre – della cantante Melissa Gray, che un palco sa comunque come tenerlo. Un mix di brutalità che il pubblico, già abbastanza ampio a fronte palco, sembra apprezzare, e che sebbene francamente un po’ troppo monocorde e senza picchi, riesce a strappare un paio di momenti interessanti. I britannici sembrano qui per divertirsi, senza tanti tecnicismi, e alla fine questo è lo slot perfetto per questo tipo di attitudine. Su disco questa cosa si perde molto, ma dal vivo, senza impegno, gli Adorior stanno bene al loro posto. (Giuseppe Caterino) Per molti, Shaun LaCanne della one-man band PUTRID PILE è un mito dell’underground a stelle e strisce. Una figura semi-leggendaria che da ventidue terrorizza il mondo con il suo death metal grasso, sanguinario e sempre uguale a se stesso, non contemplando il benché minimo accorgimento stilistico (incluso quello di abbandonare la drum machine) e tirando dritto come un treno sulla propria strada di degenerazioni e nefandezze. Non stupisce quindi che, nel momento in cui ci spostiamo nei pressi del secondo palco, la ressa sia consistente e l’attesa tangibile, con lo show che impiega pochissimo ad entrare nel vivo e ad esaltare i presenti. Come anticipato, il Nostro è solo sul palco, ma bastano i riff della sua chitarra e la spaventosa alternanza di growling/screaming vocals (oltre ad un’affabilità tipicamente americana) a tenere in piedi la setlist, in un carosello brutal-core capace di accontentare qualsiasi grande fan di Devourment, Dying Fetus e Skinless. È letteralmente la fiera dell’ignoranza e del breakdown, e va benissimo così. (Giacomo Slongo)
Si alza il livello con gli UNDERGANG, e non solo per necessariamente per quanto a qualità: il suono dei danesi infatti raggiunge vette di pesantezza davvero eccezionali, schiacciando il pubblico olandese con impietosa veemenza. Accordature e suoni diventano liquidi nella loro vorace capacità di avvolgere e appiattire le membra dei presenti, e soprattutto all’inizio i suoni sono sembrati più che buoni, ma, cosa che ancora non ci spieghiamo, ballerini: le chitarre ogni tanto si abbassavano, qualcosa spariva dalle casse per poi ritornare. Poco male, perché – almeno durante la parte principale dell’esibizione – i Nostri pensano unicamente ad annichilire gli spettatori, lanciandosi con estro e girovagando per le proprie composizioni con uno dei migliori concerti della giornata. Da segnalare solo un problema alla strumentazione, che ha portato l’ultimo brano dell’esibizione a suonare un po’ strano, e il bassista Martin Leth Andersen a lanciare il basso e prendere a calci un’asta di microfono poco prima della fine del pezzo. Tuttavia la cosa non sembrava così seria, e c’era un certo chè di giocoso, e se vogliamo ha reso la faccenda ancora più arrogante. (Giuseppe Caterino)
Al Netherlands Deathfest, con l’arrivo sul secondo palco dei ROTTEN SOUND, è finalmente tempo di grindcore nudo e crudo. Quasi superfluo rimarcare l’esperienza e l’intensità che lo show del quartetto finlandese esprime fin dalle primissime battute: una carriera monumentale, costellata di EP e full-length a dir poco pregevoli, e centinaia di date macinate ovunque nel mondo sono il biglietto da visita di una band che – nonostante il basso profilo tenuto nell’ultimo periodo – continua ad annichilire e a non sentire minimamente il peso degli anni, rendendosi protagonista di uno dei concerti migliori della giornata e del festival. I brani, come di consueto, vengono suonati a grappoli di due/tre per volta, la forte presenza di elementi (swedish) death metal rende il tutto più ordinato e digeribile, e la setlist diventa di fatto una sorta di ‘greatest hits’ (spettacolare la resa di “Sell Your Soul”, “The Effects” e “Corponation”!), salvo poi presentare una manciata di estratti dal nuovo disco (ancora senza titolo) previsto entro la fine di quest’anno. Mika, Keijo e Sami, accompagnati dal nuovo bassista Matti, hanno vinto ancora una volta. (Giacomo Slongo) Non siamo mai stati troppo attratti dalla proposta dei CEPHALIC CARNAGE, e una volta visti sul palco… Beh, tocca ricrederci! Se almeno per chi scrive gli statunitensi non avevano toccato troppo le corde giuste su disco, ecco che dal vivo la band del Colorado si dimostra tra le più divertenti del festival. Il technical death metal dei Cephalic Carnage, se suonato con perizia, risulta affascinante, e per fortuna i Nostri si dimostrano autori di una prova pulita e potente. Death grind di prima qualità suonato con precisione chirurgica, e graziato da dei suoni effettivamente perfetti; non avendo pubblicato nulla dal 2010 a oggi, la band attinge a piene mani dal proprio repertorio, comunque folto, spingendo l’acceleratore soprattutto sull’epoca “Anomalies”, del 2005. Ma guai a lasciarsi incantare dal modo di porsi simpatico e scherzoso della band: quando partono i brani, tutta la bonomia dei quattro si tramuta in pura violenza, creando sfuriate di riff violenti e intricati, arzigogoli ‘antimelodici’, costruzioni sbilenche che affascinano gli spettatorie che fanno, giustamente, uscire i Cephalic Carnage tra gli applausi più meritati dopo un brano furioso e dal titolo ineccepibile come “Black Metal Sabbath”. (Giuseppe Caterino)
Altro nome attivo da decenni e mai stato troppo sulla cresta dell’onda, i TULUS si presentano sul palco del second stage senza orpelli né proclami minacciosi o sciocchezze varie, e attaccano con il loro black metal di chiarissima seconda ondata, le cui parti più veloci vengono ben inframezzate da una serie di mid-tempos esaltanti e, soprattutto con i brani più recenti (l’ultimo “Old Old Death” è del 2020), con forte tendenze black and roll e assoli di gran pregio, anche se stranianti per quanto alla rottura atmosferica con alcune soluzioni. La sala è gremita, e la capacità del power trio norvegese di tenere il palco è rodata e sicura di sé, grazie anche a dei suoni che permettono di capire con sicurezza quello che succede sul palco. Non mancano pezzi dal piacevole e da molti misconosciuto “Pure Black Energy”, debutto del 1996, che i fan più accaniti sembrano apprezzare e accogliere con estremo favore. Ci piace il modo di tenere il palco dei Tulus, perché sembra davvero rilassato pur non cedendo per un attimo, anzi, ingrossandosi ad ogni brano e non perdendo mai un grammo di tiro. Ottima prova, con il cantante Bloodstrup che fa gli auguri alla moglie dal palco, scusandosi per suonare il giorno del suo cinquantesimo compleanno, ma poco male, visto che la signora era in mezzo al pit. Parentesi extra musicale che ha suscitato applausi piuttosto divertiti, a conferma di un’atmosfera senza tante parrucche e sciocchezze adolescenziali. Sicuramente valevoli una visione live. (Giuseppe Caterino) Inutile girarci attorno: molti (noi compresi) hanno organizzato questo weekend ad Eindhoven principalmente per loro. Fred Estby, David Blomqvist, Robert Sennebäck, Matti Kärki e Richard Cabeza, ossia quei DISMEMBER autori di alcune delle pagine più belle e intense nella storia del death metal europeo e mondiale. Una reunion tanto attesa quanto sfortunata, quella del gruppo di Stoccolma, partita ottimamente con una serie di date accolte benissimo dal pubblico e stroncata sul più bello dallo scoppio della pandemia, ma che per fortuna – almeno a giudicare dallo show di questa sera – non ha risentito minimamente dello stop forzato degli ultimi due anni. Persino l’infortunio al fianco sinistro di Sennebäck, che preoccupava alcuni e che ha portato il chitarrista a non muoversi granché sul palco, non ha inficiato sulla riuscita dello spettacolo, incendiato – nel vero senso della parola – dalla possente “Of Fire” e da lì lanciatosi in una retrospettiva da applausi, in cui sono ovviamente spiccati i tanti cavalli di battaglia racchiusi nei capolavori “Like an Everflowing Stream” e “Indecent & Obscene”. Eccellente il lavoro del comparto strumentale, ulteriore prova di come i Nostri non abbiano sottovalutato l’impegno, ristudiando a fondo le dinamiche dei vari brani, e altrettanto ottima la prova di Matti al microfono; vista la panza sempre più imponente del frontman, temevamo una mancanza di fiato o una potenza vocale altalenante, ma il Nostro ci ha smentito tenendo botta dall’inizio alla fine, interpretando con la ferocia richiesta l’intera setlist. “Reborn in Blasphemy”, “Skin Her Alive”, “Casket Garden”, “Soon to Be Dead”… ogni canzone è stata un tuffo al cuore, racchiuso (almeno dalla nostra posizione in balconata) da suoni pieni e avvolgenti, ciliegina sulla torta di una performance coinvolgente e sentita da tutti. Interpreti in primis. (Giacomo Slongo)
DOMENICA 1 MAGGIO
Il terzo giorno inizia a far sentire una certa stanchezza e decidiamo di goderci un po’ di stand e il bel sole che fa capolino sulla città olandese, entrando un po’ in ritardo nell’area concerti. Sono circa le cinque meno un quarto quando ci adagiamo in zona main stage per goderci il live degli OBLITERATION; i death metaller norvegesi hanno attirato una buona schiera di ammiratori davanti alla zona palco, e del resto la qualità della loro proposta è decisamente in crescita, come anche le prove in studio dimostrano con una ricerca sempre più volta alla costruzione di una certa personalità, culminata con l’ultimo “Cenotaph Obscure”, di ormai un buon quattro anni fa. La titletrack del citato disco è proprio la prescelta per aprire il concerto degli Obliteration, che fanno immediatamente calare un’oscura ostilità sulla platea olandese. Una mazzata di suoni (anche qui un po’ altalenanti) annichilenti e che sprigionano un tiro totale da parte degli scandinavi, nonché un’attitudine totalmente da ‘fan’ del genere. Un susseguirsi di scariche violente, con poche concessioni a pause e chiacchiere. Tra alcune evocazioni delle passate uscite discografiche e un maggiore occhio sulla produzione recente, la band ruggisce per una buona cinquantina di minuti, anche se qualche difetto di suono, qualche problema tecnico sul palco e un paio di errori di esecuzione, rendono il live vagamente nervoso verso la fine, con una sensazione di fretta di lasciare lo stage il prima possibile. Peccato, perché almeno dal lato audience, lo show è stato assolutamente godibile, senza dare troppo peso a errorini ma lasciandosi andare al puro piacere di un concerto sudato e di estremo impatto. Del resto sarà la band stessa, che incontriamo durante la giornata, a farci capire di non essere completamente soddisfatta del risultato odierno, e alla nostra menzione di un altro festival in cui li abbiamo visti suonare ci risponderanno con “yes THAT was a great show“. Perfezionisti, che ci vogliamo fare? (Giuseppe Caterino)
Fa sempre piacere vedere dei connazionali all’estero, soprattutto sul palco; troviamo i FROSTMOON ECLIPSE, chiamati a sostituire i Chaos Invocation (il cui batterista Gionata Potenti suonerà comunque, e per l’appunto, coi Frostmoon Eclipse) immersi nelle luci blu del second stage, dove, di fronte ad un nutrito gruppo di spettatori, i liguri portano il loro black metal malinconico e atmosferico, colpendo non poco in termini di intensità e costruzione di arie malinconiche. I suoni, sempre cristallini in questo splendido secondo palco, aiutano non poco il gruppo nella gestione del proprio black metal, e sebbene la giornata sia francamente più impostata su un altro tipo di sonorità, la risposta sembra più che adeguata per un nome radicato nella storia tricolore del genere. La band sembra effettivamente rodata e padrona di sé, capace di destreggiarsi con disinvoltura tra le sfuriate più violente e le pennellate più evocative di cui i Nostri sono fautori. (Giuseppe Caterino) É davvero notevole la maturità raggiunta dagli SKELETAL REMAINS, una band che, partita sulle basi di un death metal esaltante ma comunque piuttosto facile da circoscrivere, sta diventando sempre più personale, pesante e ossessiva nelle proprie sortite discografiche. Un’evoluzione in termini non solo sonori, ma anche di consapevolezza, che ci mostra una formazione completamente a proprio agio come nome ‘grosso’, sul main stage, tanto quanto ci parve a suo agio su palchi molto più dimessi solo pochi anni fa; la cosa ci fa un certo effetto e, diciamolo, un certo piacere. Assolutamente padroni della situazione, i californiani, guidati dal cantante chitarrista Chris Monroy, fanno fare la voce grossa all’ultimo, pachidermico, “The Entombment Of Chaos”, da cui verranno scelte la maggior parte delle tracce che prenderanno a cazzotti i presenti. Presenti che, va detto, sembrano in visibilio per gli Skeletal Remains, accolti a suon di pogo e acclamazioni. Un concerto che scorre via in un attimo, intenso e con una band in ottima forma, a dispetto di un aspetto piuttosto stanco che abbiamo potuto notare mentre i Nostri si montavano (in completa autonomia) il proprio stand per il merchandise. Attitudine vera, dentro e fuori dal palco, e gli applausi sono davvero ben meritati. (Giuseppe Caterino)
Dal Brasile con furore, i REBAELLIUN piombano sull’Effenaar con il loro death metal impetuoso e dall’inconfondibile vena sudamericana. Un suono che ci riporta subito alla mente le progressioni parossistiche e lo spirito caparbio, orgogliosamente underground, che imperversavano nella scena di fine anni Novanta/inizio anni Duemila, e che la formazione di Porto Alegre – riorganizzatasi dopo la tragica scomparsa del chitarrista/membro fondatore Fabiano Penna (R.I.P.) – interpreta da leader del filone quale effettivamente è. Evandro Passos alla chitarra raccoglie la difficile eredità con attitudine e indubbia preparazione tecnica, e dai riff ustionanti che gli passano per le mani la performance si muove assumendo presto le sembianze di una tempesta di fuoco simile a quella immortalata sulla copertina dello storico “Annihilation”. I cavalli di battaglia ovviamente non mancano, ma il trio carioca sembra puntare molto anche sul materiale più recente: “Legion” e “The Path of the Wolf”, dal comeback “The Hell’s Decrees” del 2016, vengono presentate alla stregua di una “At War”; stessa cosa dicasi per un paio di episodi che figureranno sul nuovo album (di cui si attendono solo i dettagli), per un concerto che non vive quindi di sola nostalgia. Scommessa vinta, ad ogni modo, dal momento che Lohy Fabiano e compagni vengono accolti e salutati da veri trionfatori. Anzi, conquistadores. (Giacomo Slongo) Si resta in territori ‘latini’ con l’arrivo sul palco principale degli WORMED. La mostruosa formazione iberica, ad oggi una delle massime rappresentazioni del filone tecnico e moderno del death metal, presenta oggi ufficialmente il nuovo assetto della sua line-up, implementato dall’ingresso di Daniel Valcázar alla seconda chitarra, e il risultato – come del tutto preventivabile – è da infarto. I Nostri suonano con la precisione e la letalità di un T-1000, tenendo in pugno l’audience con una proposta sì complessa e tecnicissima, eppure – incredibile a dirsi – anche fluida e in qualche misura orecchiabile, ricca di stop’n’go contagiosi e micro-parentesi atmosferiche che elevano non di poco l’insieme sopra l’offerta della concorrenza. Non un mero sfoggio di scale impossibili, quindi, in cui l’impatto del genere viene inevitabilmente a mancare, ma canzoni di senso compiuto in cui la padronanza strumentale, per quanto strabordante, è sempre messa al servizio di una scrittura concreta e poco interessata ai piri-piri, con il growling abissale e le movenze inconfondibili del frontman Phlegeton, coordinate al nanosecondo con la musica, a chiudere un cerchio di pura superiorità scenica e compositiva. Anche l’Europa, insomma, ha i suoi Origin. (Giacomo Slongo) Ne seguiamo solo una piccola parte, ma due parole sul concerto degli IMMOLATION sono sempre dovute. Da pilastri della scena death metal quali sono, Ross Dolan e soci richiamano all’interno della sala principale un pubblico non inferiore a quello visto per i Dismember la sera prima, presentando per la prima volta in terra olandese i brani del nuovo, acclamatissimo “Acts of God”. “An Act of God”, “The Age of No Light” e “Noose of Thorns” vengono in effetti accolte alla stregua dei grandi classici del repertorio, con il pubblico che arriva persino a intonarne le melodie portanti, segno – quest’ultimo – che a differenza di altri big oggi costretti a imbarcarsi in tour commemorativi per mantenere vivo l’interesse nei loro confronti, la band newyorkese può permettersi di guardare al presente alla stregua del passato. E scusateci se è poco, dopo più di trent’anni di carriera. (Giacomo Slongo)
Come i Portal, ma con i riff distinguibili e delle ritmiche marziali che si abbattono sul cranio per una sensazione di stordimento palpabile. Anche dal vivo, gli ALTARAGE tengono fede al contenuto degli album pubblicati a stretti giro nel corso degli ultimi anni, dimostrando di essere sì una realtà alienante e sperimentale come da prerogativa del filone capeggiato da Horror Illogium e compagni, ma anche assai concreta quando si tratta di aggredire il proprio pubblico. Al trio di Bilbao, che peraltro vede Phlegeton dei Wormed impegnato dietro le pelli, basta poco per trascinarci in un gorgo fatto di soluzioni paranoiche e suoni saturi e soffocanti, quasi ai limiti del drone, ma sotto i cappucci, le dissonanze, gli spasmi epilettici che scandiscono l’incedere dei brani, nasconde un animo vecchia scuola simile a quello di Dead Congregation o Immolation, in cui riff enormi e cadenze intelligibili rappresentano uno dei pilastri della proposta. Senza dubbio, occorre essere ‘dentro’ certi suoni per godersi appieno lo show, ma l’esecuzione di quest’oggi non può essere messa in discussione. (Giacomo Slongo) Un concerto degli AUTOPSY è sempre un evento. A differenza di altre reunion, quella del gruppo statunitense non è mai andata incontro all’inflazione, con poche date selezionate nel corso degli anni e una brama di esibirsi, da parte di queste vecchie glorie, evidente ad ogni show, motivo per cui – anche in quel di Eindhoven – gli ingredienti per un concerto memorabile ci sono tutti. I Nostri hanno da poco salutato il bassista Joe Allen, ma Greg Wilkinson – noto soprattutto per la sua attività di produttore agli Earhammer Studios di Oakland – è quel che si dice un rimpiazzo di lusso, che peraltro dimostra di essersi già perfettamente integrato nelle dinamiche della band californiana. Sistemati ottimamente in balconata, posizione da cui i suoni si confermano essere i migliori della sala, ci godiamo quindi la lunga carrellata di classici che Chris Reifert – davvero quest’uomo ha cinquantatré anni? Incredibile, come sempre, il suo impegno simultaneo alla batteria e al microfono – presenta con humor e carisma irresistibili, fra un attacco esaltante composto da “In the Grip of Winter”/“Embalmed”/“Severed Survival”, una “Voices” da “Acts of Unspeakable” che quest’anno spegne trenta candeline e così via, fino allo slabbratissimo finale punk affidato alla cover di “Fuck You” dei Dr.Mastermind. Il pubblico si esalta, poga come non aveva mai fatto finora, pendendo letteralmente dalle trame marce e caracollanti che gli Autopsy imbastiscono con innata superiorità, e l’impressione è che lo show avrebbe potuto continuare per altre due ore senza che nessuna mano si alzasse per dire “basta”. Il tripudio è generale, e la voglia di rivederli, già dopo qualche minuto dal termine dello spettacolo, torna a farsi strada in noi. (Giacomo Slongo)
Le ultime pallottole del Netherlands Deathfest vengono invece sparate dai P.L.F., micidiale band grindcore di Houston, Texas, con l’evidente pallino per la vecchia scena thrash metal tedesca. Arriviamo di fronte al secondo palco giusto in tempo per la riproposizione del mini-classico “Devious Persecution and Wholesale Slaughter”, dall’omonimo disco del 2013, e capiamo subito che il cantante/chitarrista Dave Callier e il fenomenale batterista Bryan Fajardo hanno l’assoluto controllo della situazione, finendo subito risucchiati da un vortice di pura ignoranza e contagiosità. Se vi foste mai chiesti come suonerebbero “Pleasure to Kill” o “Terrible Certainty” al quadruplo della velocità, con scariche di blast-beat e riff dinamitardi a piovere da ogni dove, i Nostri vi fornirebbero una risposta dettagliatissima al quesito. Sotto e sopra al palco si respira l’aria di una carneficina anni Ottanta, con Callier – che fin dal nostro arrivo abbiamo visto aggirarsi per Eindhoven rigorosamente in canotta, a prescindere dalla temperatura e dall’ora del giorno o della notte – quasi posseduto mentre martoria la sua chitarra e le sue corde vocali, simbolo di una scena che difficilmente contempla la resa come soluzione. Dopo circa quaranta minuti i brani preparati sarebbero finiti, ma gli americani, per non scontentare il pubblico che ne chiede a gran voce ancora, parlottano e vomitano un altro paio di schegge dalla violenza insensata; una chiusura col botto, che suggella nel migliore dei modi un evento di cui, in Europa e non solo, si sentirà moltissimo la mancanza. (Giacomo Slongo)