Report a cura di Davide Romagnoli
Fotografie di Enrico Dal Boni
Vero emblema di un modo di fare musica, un concerto dei Neurosis non può essere preso sotto gamba. L’esperienza percettiva e sonora della band di Oakland continua a non avere eguali sotto il profilo performativo, almeno in ambito post-metal. Difficile è infatti perdersi la succulenta unica calata italica per la band di Scott Kelly e soci, soprattutto se accompagnata da un altro monicker altrettanto emblematico come quello dei Converge, altro punto saldo della musica estrema – e pensante – di oggi. Ad arricchire l’evento, la partecipazione dei brasiliani Deaf Kids, portavoce del verbo psichedelico e distorto sudamericano, ovviamente chiamato a sè dalla Neurot Recordings. Zona Roveri più colmo dello stracolmo, clima più caldo del torrido estremo, il tutto tenuto su da sberle sonore non indifferenti, come ci si poteva aspettare.
DEAF KIDS
Da Volta Redonda, Rio de Janeiro. Ancestrali pattern D-beat convergono in un flusso quasi ininterrotto di sferzate di fuzz e delay, quasi infinite nel loro modularsi e distendersi. A supporto della psichedelia fumosa del trio si staglia l’onnipresente pattern di timpani ossessivo e tribale, che ricorda – ovviamente – i paladini brasiliani Sepultura, anche se re-inquadrandoli in un’ottica meno ancorata a canzoni distinte, bensì inserita in un unico flusso sonoro. Come veri figli bastardi del caos post-colonialista, i Deaf Kids ed il loro punk hardcore psichedelico si integrano con la tradizione specifica della loro terra e regalano una mezz’ora di tripudio distorto incessante ed ipnotico. Senza scampo.
CONVERGE
Altro giro, altro regalo per la band di Kurt Ballou. Il quartetto di Salem approfitta dei fratelli neurosisiani per inserirsi in una data – insieme a quella successiva coi Corrosion Of Conformity a Roma – che lo riporta nel nostro paese, segno che la fame per i paladini del nuovo corso del post-hardcore è ben lungi dall’esaurirsi. Una scaletta che predilige, nel corso della sua ora di show, i brani dell’ultimo “The Dusk In Us”, improntando la serata verso un certo corso d’opera, più variopinto e meno secco. Jacob Bannon, pur essendo sempre il frontman che tutte le band vorrebbero e dovrebbero avere, appare un po’ in debito di ossigeno e supera col solito cuore le striature dell’età che avanza. I Converge non sono mai e non saranno mai una delusione dal vivo e il concerto di quest’occasione non fa che confermare la potenza della band del Massachussets, la pulizia di suono di Ballou, la foga precisa di Newton e Koller, lo spirito di Bannon. Si riscoprono piacevolmente due perle di “All We Love We Leave Behind” quali “Aimless Arrow” e “Empty On The Inside”, capolavori veri di noise rock e hardcore punk, e si chiude con una ovvia – ma sempre dannatamente efficace – “Concubine”, giusto per sancire chi sono i Converge, perché son lì e che “Jane Doe” resta un must senza tempo.
NEUROSIS
Incombente come il monolite che si poteva aspettare, anche stavolta i Neurosis piantano il loro vessillo nero ed evocativo sul mondo dei fedeli al verbo post-metallico. Un concerto sicuramente innovativo per la band di Oakland, almeno per quanto riguarda la scaletta, che è sicuramente il punto più stravagante della serata. Nessun brano da “A Sun That Never Sets”, giusto un rintocco di “The Eye Of Every Storm” (la maestosa “Burn”), un finale quasi dovuto con l’unica vera hit della serata, che è “Through Silver In Blood”, e poi tutto materiale che prende dagli altri scorsi della discografia della band. Se i tre album più conosciuti della band restano fuori dalla serata, è anche vero che si riscoprono due pezzoni da “Times Of Grace” (“End Of The Harvest” e “The One You’ll Know”) e una iniziale ebollizione di riff e rallentamenti doom/sludge che è la title-track di “Given To The Rising”. Anche quando i Neurosis fanno un concerto di mestiere, è sempre un mestiere che vale la pena assorbire in tutto e per tutto: Kelly e Von Till restano tra le voci migliori in ambito sludge, sempre reminescenti del folk americano e del vecchio blues impolverato, le loro chitarre sono colme come betoniere, le loro movenze ricordano ancora che questa musica o si fa col cuore o è meglio che si pensi ad altro. Mentre proprio recentemente si era prediletta la ripresa (anche in occasione del trentennale della band di Oakland) del vecchio materiale, più vicino a certo punk hardcore delle origini, la serata di stasera è invece sintomatica per sancire l’importanza della band in ambito dell’evocatività, del pattern post-metal al servizio di altre soluzioni che recuperano post-rock e tradizione statunitense, in un blend di una potenza e miscela devastanti, capace di emozionare e distruggere al tempo stesso. Un vero peccato che siano in molti a chiacchierare sonoramente mentre Von Till sussurra al microfono, accompagnato dal perfetto Dave Edwardson ai synth, rompendo un po’ l’atmosfera che brani come “Burn” possono veramente suggerire. Siamo ancora vittima in questo paese di una certa mancanza di rispetto per la musica, così come una certa ignoranza per l’ascolto: il locale gronda sudore, oltre che colate di distorsione, e un certo disappunto per le condizioni è percepibile palpabilmente nell’aria, già scossa dal wall of sound. Vista da un’altra prospettiva, però, arrivare fino alla provincia di Bologna in così tanti è ancora un bene, quando si va ad assistere a triadi così potenti di musica vera, che parte dal cuore, passa dai polmoni e arriva a scuotere aria e atmosfera.