30/04/2010 - NEUROTIC DEATHFEST 2010 @ 013 - Tilburg (Olanda)

Pubblicato il 11/05/2010 da

Live report a cura di Claudio Giuliani

Gli inglesi hanno inventato il tennis, il calcio e diremmo anche il death metal. Il Neurotic Deathfest 2010, festival olandese, vedeva come headliner Carcass e Bolt Thrower: può un qualsiasi fan del death metal desiderare di meglio? Aspettate. C’erano anche Napalm Death e Benediction, che insieme ai due headliner hanno formato negli anni ’90 il quartetto di band che ha dominato la scena, disegnando i confini stilistici del genere in tutte le sue possibilità. Sede del concerto è il “Popcentrum” noto anche come “013”, una sorta di auditorium sito nel bel centro di Tillburg, cittadina olandese molto ben curata popolata da un paio di centinaia di migliaia di abitanti. Tre gli stage che hanno ospitato i concerti: la hall principale, dotata di platea e balcone con un’acustica meravigliosa; il Middle Stage, una sorta di sala non molto grande, e il Batcave Stage, una sorta di minipub dentro la struttura. Tutto è perfettamente organizzato in quello che viene definito il “miglior festival death indoor d’Europa”: non ci sono infatti file da fare in nessun luogo, pensate, neanche nel bagno dove, con la birra venduta a soli due euro, può capitare di trovare affollamento! Come se non bastasse già il casino dei metallari che hanno invaso il centro di Tillburg, la due giorni si è svolta in concomitanza con la festa della Regina olandese, un evento molto sentito da queste parti e che ha creato ancora più scompiglio nella città. Ma a parte ciò, il Neurotic 2010 ha convogliato una miriade di band di spessore per un’edizione che alla fine può essere considerata la migliore degli ultimi anni. Metalitalia.com c’era, nemmeno a dirlo, e questo è il reportage!

 

BENEDICTION

Entriamo nella sala principale dello 013 mentre partono le note di “Grey Man” (ci siamo persi – ahinoi – per ritardo dell’aereo le prove di Hour Of Penance, Aborted e Dew-Scented) , opener dell’ultimo album “Killing Music”. Varchiamo la soglia della porta che parte già il primo stacco, dove i riff pesanti delle chitarre stanno già coinvolgendo la folla con quel groove di cui i Benediction sono padroni. Le prime file del pubblico si scatenano, i suoni sono ottimi così come l’esecuzione dei brani. Arriva subito “Controlopolis”, dominata da quel ritmo andante. Alla batteria siede Nick Barker, ed è impressionante (oltre che per la stazza ovviamente) ammirare come picchia delicatamente sulle pelli. Avrà modo di rifarsi in seguito con i Lock Up. Il cantante Dave Hunt dimostra di essere in ottima forma e tiene il palco da padrone durante il repertorio del gruppo che spazia su tutta la discografia. A chiudere uno show infuocato, dopo l’ottima “Grind Bastard” estratta dall’omonimo album, è una splendida “Magnificat”, dominata da un giro di doppia cassa che ha veramente coinvolto tutta la folla. Quaranta minuti sono troppo pochi per dei mostri sacri quali sono i Benediction, autori di un ottimo e apprezzato show.

BELPHEGOR

Ma può bastare veramente ribaltare un paio di croci, spruzzarsi in viso un po’ di sangue finto e infilzare una porchetta di fronte al palco per vendere dischi? Pare di sì ad ascoltare i Belphegor, combo austriaco oramai navigato e che ha trovato nel black metal veloce e d’impatto una bella forma di lavoro. I nostri hanno preso il posto dei The Red Chord (impossibilitati a viaggiare per via della nube vulcanica, sembra), quindi: tanta scena durante i loro brani, tanti quelli recenti, ma coinvolgimento minimo per un’audience nettamente devota al metallo della morte e non a quello nero. I brani estratti dai primi album del gruppo sono quelli che risultano più coinvolgenti, forse anche perché all’inizio della loro carriera i nostri suonavano un death metal nero. Mezz’ora o poco più per i Belphegor, un passatempo in attesa di band capaci di rivitalizzare l’atmosfera al festival.

SIX FEET UNDER

Con i capelli che fra un po’ toccano terra, Chris Barnes sale sul palco carico e fa trasparire subito di essere in gran forma. I suoi grugniti riscaldano subito i fan, specie quelli che ancora rimpiangono i suoi rantoli nei Cannibal Corpse. Brani come “Festing On the Blood Of The Insane”, dominato dal basso, o “Human Target”, così come “Seed Of Filth”, riescono a entusiasmare i presenti, anche grazie alle semplici strutture delle canzoni. Ascoltare Barnes alla voce è un piacere anche a dispetto di chi dice che sia “spompato”. Alla fine si aspetta una cover, il tempo c’è ed ecco che “T.N.T.” degli AC/DC arriva in tutta la sua potenza. Tutta la sala principale canta a squarciagola il ritornello sicché l’esibizione dei nostri termina in un trionfo. Potenza della cover giusta!

NAPALM DEATH

Rotten Sound o Napalm Death? Questo è il dubbio che ha accompagnato per tutta la settimana chi vi scrive, data la contemporaneità dell’esibizione dei due gruppi, un dilemma che alla fine si è sciolto in favore di Barney e soci anche perché non si ha mica una band preferita a caso! Il concerto inizia con la solita scena, qualche secondo di intro, Barney che comincia a ciondolare in attesa di cogliere l’attimo del beat imposto da Herrera. Allacciatevi le cinture, si parte per un cinquanta minuti di grind, hardcore, punk e death per una mistura devastante che ha fatto la fortuna degli inglesi. E’ “Strongarm” a settare lo show subito su coordinate veloci, nemmeno il tempo di tirare il fiato ed ecco il classico “Suffer The Children”: il delirio. Il primo dei sermoni di “padre” Greenway sul mondo che sta andando a rotoli fa da preludio al killer riff che apre “On The Brink Of Extinction”… il brano nella sua parte hardcore è assolutamente coinvolgente. Si tira un attimo il fiato con “When All Is Said and Done” prima del momento che tutti aspettano: canzoni brevi, adrenaliniche, sotto la soglia del minuto. Sì, esatto, quelle dei primi due album. Il gruppo non si fa pregare e in dieci minuti esegue i classici “The Kill”, “Deceiver”, “It’s a M.A.N.’s world” (altro sermone introduttivo), “Dead”, “Scum” e via dicendo. Se avete assistito ad un concerto dei Napalm Death saprete benissimo cosa si è scatenato nel pubblico, altrimenti vi basti pensare che c’era gente che svolazzava da tutte le parti. Eseguite anche “Silence Is Defeaning” e “Life And Limb” prima della classica predica finale che ha lasciato spazio ad una “Nazi Punk Fuck Off” più infuocata del solito. Tempo scaduto, per suonare, tempo di ricevere applausi per i Napalm, anche nel 2010 niente è cambiato e ne siamo tutti felici.

ROTTEN SOUND

C’è chi dice che le band grindcore siano tutte uguali e che il genere sia ripetitivo. Vero, verissimo (in parte), ma provate ad assistere a un concerto dei Rotten Sound e a non farvi trascinare nel marasma delle prime file se ne siete capaci. I quattro finlandesi suonano in (quasi) contemporanea con i Napalm Death (mica Ligabue) e riescono riempire la sala di mezzo del festival. I suoni sono marci, sporchi, ottimi e molto potenti, come la forma dei nostri capeggiati dal quel pazzo cantante che risponde al nome di Keijo Niinimaa, che sul palco ripropone le stesse movenze del suo connazionale Mika Luttinen degli Impaled Nazarene. Strepitoso quando si agita e si dimena urlando a più non posso sulle ritmiche impossibili del gruppo. La mezz’ora a loro disposizione scorre via veloce, nel finale del concerto (chi scrive è arrivato di corsa subito dopo la fine dell’esibizione dei Napalm) c’è stato spazio per ascoltare “The Missing Link” dal nuovo EP “Napalm”, dedicato proprio al gruppo inglese, e una granitica e ferale “Burden”. Sono gli attuali Re del grindcore.

BOLT THROWER

La quarta crociata, a freddo. Inizia così lo show degli headliner del venerdì, gli inglesi Bolt Thrower, in ottima forma di fronte a un pubblico gasato e pronto a contorcersi sui pesanti riff del gruppo che del death metal imperniato su tematiche di guerra ha fatto la sua storia. Un’intro di un pacchiano che neanche i Manowar sarebbero riusciti a scovare fa da preludio all’ingresso sul palco dei nostri. Lo stillicidio di fanfare e trombe sembra interminabile quando infine lo storico riff di “The IV Crusade” fa la sua comparsa scatenando le emozioni del pubblico. Suoni potenti, puliti con il basso di Jo Bench a scandire i ritmi. Il gruppo è in ottima forma, “est. 1986” recita lo striscione posto dietro la batteria, a ribadire che da ventiquattro anni i Bolt Thrower sono ancora fra noi con “Mercenary”, estratta dall’omonimo lavoro, e poi “Powder Burns”. Dall’ultima fatica degli inglesi vengono eseguite l’opener “At First Light” e l’ottima “Salvo”: sembra di essere in battaglia quando il cantante urla “there’s no shelter from the steel rain” sul finale incandescente del brano incentrato su un riff tagliente accompagnato da una doppia cassa incalzante alla batteria. I cinque sono in ottima forma, anche Karl Willets dimostra di avere una voce ancora da padrone nel campo, ma a dominare sono le chitarre, protagoniste di un’alchimia con la sezione ritmica che non ha spiegazioni rispetto al coinvolgimento di riff anche semplici e alla creazione di melodie che non sono mai fini a se stesse o semplici arrangiamenti, ma assi portanti dei brani del gruppo. Nel finale viene eseguita la storica “For Victory”, che contiene uno dei riff più belli di sempre del gruppo, prima che i nostri lascino il palco dopo neanche un’ora. I Bolt Thrower sono dei dominatori del death metal, niente altro da dire.

ORIGIN

Tanta attesa per gli Origin, una band che con l’ultimo album “Antithesis” ha lasciato a bocca aperta tutti gli amanti del death metal per la qualità e per la tecnica delle loro composizioni. Ecco la prova dal vivo. Bastano pochi secondi per lasciare il sottoscritto a bocca aperta: questa band ha un impatto come poche altre mai viste all’opera. E’ una cascata di note suonate a folle velocità quella che si abbatte nella sala principale dello 013, la sezione ritmica è di quelle sconvolgenti, di quelle che ti lasciano sbalordito e ti fanno chiedere se quello a cui stai assistendo è reale. Tutto è suonato in maniera perfetta, John Longstreth fa sembrare una piovra un essere monco al cospetto, Mike Flores è un jazzista prestato a suonare il basso nel brutal death mentre Paul Ryan non sbaglia una nota neanche se dorme. Premesso che con questi tre alle spalle qualsiasi essere alla voce non intaccherebbe di un minimo la brutalità del combo proveniente dal Kansas, va detto che il nuovo cantante, al secolo Mica Menek, si dimostra molto preparato, in grado di gestire il pubblico e con una voce affatto niente male. I brani? Ne citiamo uno per tutti: “Finite”. Im-pres-sio-nan-te!!! Il concerto finisce e la sensazione è che sarà dura per chiunque altro fare meglio di questi ragazzotti americani, a nostro giudizio i dominatori assoluti del Neurotic Deathfest 2010.

DYING FETUS

Tocca ai Dying Fetus cercare di scrollare via dal pubblico il (piacevolissimo) ricordo dell’esibizione dei conterranei Origin. E’ “Praise The Lord” ad aprire le danze, subito nella sua brutalità seguita presto dai brani estratti dal recente nuovo album, ”Conceived Into Enslavement”, “Sheperd’s Comandment” e “Your Treachery Will Die With You”. Ci vuole un po’ a gasarsi come si era fatto fino a poco prima, eppure i brani degli americani non sono mica banali, è solo che l’impatto è assolutamente fiacco se paragonato a quello degli Origin. Passa il tempo però e il terzetto comincia a tentare di ristabilire le gerarchie, non si arriva dove sono loro adesso se non si hanno gli attributi. “Eviscerated Offering” e soprattutto la granitica e corposa “One Shot One Kill” riscuotono i successi maggiori nel finale dello show. “Two minutes”, urla uno dei roadie, sguardo veloce fra John Gallagher e Sean Beasley sul pezzo da eseguire per completare il concerto: con quel poco tempo a disposizione è ovvio che sia “Kill Your Mother, Rape Your Dog” a segnare la fine del solito, adrenalinico show dei Dying Fetus. Certo che gli Origin….

MURDER THERAPY

Nel Batcave Stage, piccola sala dal difficile e tortuoso percorso d’accesso, il soundchek dei bolognesi Murder Therapy richiama più di qualche appassionato dalla sala principale dove si stanno esibendo gli Immolation. Fumo sul palco e si parte subito con “Asimmetry”, canzone per lo più strumentale estratta dal debutto del gruppo, l’ottimo “Simmetry Of Delirium”. Le trame intricate di chitarra e il fantasioso lavoro di batteria incuriosiscono i presenti che capiscono di avere a che fare con un gruppo che vuole dire la sua nel genere. Dopo “Asimmetry” è però tempo di dare fuoco alle polveri con “The Scourge”, brano tritaossa che calamita gli occhi dei presenti sul folle movimento delle braccia di Marco “Samu” Bolognini, diciottenne appena ma con un avvenire che non è destinato a tradire. Ritmiche folli, cambi di tempo repentini e brutalità anche dal corpulento singer che urla e vomita al microfono improperi. La folla si agita, specie quando arrivano “Extra Ordinary Perfect machine” e “Staring At The Zodiac”. I Murder Therapy però presentano anche dei nuovi brani, più articolati, fra cui una strumentale “Unvacuity” che strappa applausi alla sala che intanto si è riempita. Suoni ottimi (anche sul palco, dirà poi il gruppo) per la mezz’ora o poco più a disposizione dei bolognesi, lo show spazia quindi da parti brutali a parti più progressive sempre con il death metal alla base di tutto. Il gruppo si è poi esibito in nottata nel pub che ha ospitato l’afterparty del festival; i fan che avevano seguito il gruppo dal vivo sono tornati tutti puntuali al pub, segno che il gruppo aveva fatto breccia. Alla fine tanti complimenti con l’Italia ancora in bella mostra.

LOCK UP

In che condizioni sarà Tomas “Tompa” Lindberg? Già saggiate le condizioni di Nick Barker (con i Benediction) e di Shane Embury (con i Napalm Death), l’attesa è solo per il rosso cantante degli At The Gates. I primi brani dimostrano subito che Tompa è una buona forma, nel suo solito look dal quale elimina il cappellino dopo poco. Barker questa volta ha possibilità di sfogarsi, picchiando duro sulle pelli; il chitarrista che ha sostituito il defunto Jessie Pintado, Anton Reisenegger dei cileni Criminal, si dimostra assolutamente all’altezza. Quaranta minuti di concerto per i Lock Up, autori di una proposta leggermente monotona ma che comunque riceve il plauso del pubblico. Il top dello show è stato l’omaggio a Pintado, con gli applausi del pubblico e suggellato musicalmente con l’esecuzione del classico dei Terrorizer “Fear Of Napalm”.

CARCASS

Un sipario nero copre l’allestimento del palco per i veri headliner del festival, i redivivi Carcass, tornati chissà perché sulla scena da qualche tempo. Si apre il sipario, la scenografia è di quelle imponenti con tanto di videowall dietro la batteria. Le prime note di “Corporal Jigsore Quandary” suggellano l’entrata sul palco dei quattro per l’inizio di uno show devastante. Sembrano tutti in ottima forma anche se Jeff Walker confessa subito di essere ubriaco, sperando che lo sia anche tutto il pubblico in sala. Di certo, suona da dio. Volume ai massimi, esecuzione tecnica irreprensibile, e coinvolgimento in sala che ha raggiunto il culmine: è devastazione. Si aumenta subito il ritmo con “Reek Of Putrefaction”, tratta dall’omonimo album, così come “Empathological Necroticism”. Impressionante la compattezza del gruppo che sciorina classici del repertorio uno dopo l’altro fra l’acclamazione del pubblico, visibilmente soddisfatto. Walker intanto manifesta palesemente i sintomi di una sbronza ma la sua voce è cattiva come al solito e in fondo è questo quello che importa. “Keep On Rottin In the Free World” arriva a metà show, come non notare quanto poco si sposi con il resto dello show questo brano? Le sue tinte rock and roll, sebbene marchiate dall’asprezza dello stile Carcass, consentono al pubblico di riprendere fiato per il gran finale. Mentre il videowall rende tutti partecipi di una bella autopsia, ecco apparire “Ruptured In Purulence (ancora da “Reek Of Putrefaction”), pezzo violentissimo che nel finale sfuma direttamente senza interludio in “Heartwork”, traccia di quel capolavoro che tutti conosciamo. L’esecuzione è perfetta, non c’è altro da commentare. Il tempo finisce, la band sta per seguire un altro brano (all’appello mancherebbe il “certificato di morte”) ma forse vengono stoppati e lasciano il palco. Il pubblico rimane per cinque minuti immobile, “will they come back?” si sente ripetutamente fra la folla. “No they don’t” aggiungiamo noi quando vediamo i tecnici smontare la batteria. La verità è che non ne avremo mai abbastanza, dei Carcass.

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