Report a cura di Giacomo Slongo
Foto cortesia di Pyrex Webdesign & Photography e Metalshots
Superato il traguardo della decima edizione, l’olandese Neurotic Deathfest è da considerarsi ormai un appuntamento fisso nell’agenda di molti death metaller. Meno vario di un Maryland Deathfest e privo di quell’aria “di culto” che aleggia su eventi come il Kill-Town o il Nuclear War Now!, il festival si rivolge alla frangia tutto sommato più “mainstream” del genere, ma in fondo non vediamo quale sia il problema. Un’organizzazione perfetta, un bill che si conferma ogni anno encomiabile – alternando autentici colossi, nomi medio/grossi e piccole realtà underground – e la possibilità di occupare uno dei migliori locali per concerti al mondo, lo 013 di Tilburg, rendono questa tre giorni un paradiso in cui abbuffarsi fino allo sfinimento di musica estrema di altissima qualità, immersi in un’atmosfera rilassata e gioviale. Qui tutto è a portata d’uomo: tre palchi, oltre quaranta gruppi e pochissime sovrapposizioni, in maniera tale da permettere a chiunque di godersi al 100% l’esperienza. Se a questo aggiungete un pubblico esagitato e variopinto, con centinaia di fan venuti appositamente da tutti e quattro i continenti, una vasta scelta di merchandise e dei suoni che viaggiano tra il molto buono e l’eccellente, be’… gli ingredienti per una ricetta esplosiva ci sono tutti: enjoy the massacre!
ABORTED
Sistemate le valigie in albergo e presa confidenza con le pittoresche vie di Tilburg, ci rechiamo allo 013 dove, dopo le discrete esibizioni di Deceased e Antropomorphia, vanno in scena i macellai belgi Aborted. Con un nuovo disco da promuovere – l’ottimo “The Necrotic Manifesto” – e soltanto mezz’ora di tempo a disposizione, il quintetto non va troppo per il sottile, caricando a testa bassa la platea e snocciolando in rapida successione tutti i propri cavalli di battaglia, da “The Origin Of Disease” a “Sanguine Verses (…Of Extirpation)”, inframezzandoli con alcuni episodi del recente full-length. I Nostri sono reduci da un lungo tour americano in compagnia dei Kataklysm e si vede: il livello di coesione è spaventoso e si traduce in una carneficina sopra e sotto il palco, scandita – oltre che dalle vocals del leader maximo Sven de Caluwé – da un circle pit costante e violentissimo. Le fondamenta della sala grande tremano e gli Aborted, dal canto loro, insistono nel volerle radere al suolo, prendendosi pochissime pause e suonando i brani a gruppi di due o tre per volta, in un gioco al massacro che lascia tutti senza fiato sino alla conclusiva “The Saw And The Carnage Done”. Alla luce di una simile performance, la palma di miglior gruppo della serata spetta indiscutibilmente a loro.
MASSACRE
Sebbene il loro comeback discografico sia stato fondamentalmente una mezza delusione, si respira una certa aria d’attesa attorno alla performance degli statunitensi Massacre. D’altronde parliamo di un gruppo che assieme a pochi altri ha gettato le basi dell’intero movimento death metal e la voglia di ascoltare dal vivo i brani del mitico “From Beyond”, pietra miliare targata 1991, è tanta per tutti. Diciamo quindi che, dopo stasera, parte delle critiche piovute sulla band di Rick Rozz andranno ridimensionate: il quartetto dimostra di avere ancora un suo perchè on stage, suonando con discreto piglio e concentrandosi per ovvie ragioni sul materiale degli esordi. Poco, pochissimo spazio è riservato all’ultimo full-length, mentre imperversano in tutta la loro belluina ferocia le varie “Dawn Of Eternity” e “Succubus”, innescando ovunque focolai di headbanging e pogo. Un po’ a sorpresa, promossi!
KRAANIUM
Ignorantissima e senza troppe pretese, la musica dei Kraanium è il pane quotidiano di molti avventori del Neurotic Deathfest. A dirla tutta, i norvegesi non sono mai stati – né saranno mai – dei geni, collocandosi ai piani bassi della frangia groovy/slam death metal mondiale, ma l’elementarità dei loro riff è tale da strappare sempre qualche sorriso, per lo meno dal vivo. La storia si ripete anche all’interno della sala media, dove decine di persone sembrano divertirsi un mondo sulle note dei brani (assolutamente indistinguibili gli uni dagli altri) vomitati dal quartetto, in un circle pit di proporzioni cataclismiche. Tra pig squeals, ritmiche da cavernicoli e parti che avremmo l’ardire di definire “ballabili”, ci godiamo lo show dall’alto della balconata, staccando la spina per qualche minuto prima di tornare a fare sul serio. In definitiva, un piacevole divertissement.
GOD MACABRE
Forse a molti nostri lettori il nome God Macabre non dirà nulla, ma chi vive di pane e swedish death metal non potrà che avere a cuore l’operato dei cinque di Vålberg, autori nel lontano 1993 di quella piccola perla di marciume e suggestioni invernali che risponde al nome di “The Winterlong…”. Tornata sulle scene lo scorso anno – incentivata probabilmente dalla fama di cui godono oggi certe sonorità – la formazione scandinava impiega un po’ a carburare, quasi fosse intimorita dalla folla di fan e semplici curiosi che riempie la sala media, ma una volta presa confidenza con il palco non si risparmia, eseguendo senza sbavature i brani del succitato full-length e dell’EP “Consumed By Darkness” (registrato a nome Macabre End nel 1991). Certo, on stage i Nostri assumono un po’ le sembianze di cariatidi – al punto da non muovere un passo per l’intera durata della performance – ma la cosa passa tranquillamente in secondo piano vista la bontà del loro repertorio, ruvidissimo ed impreziosito dalle malinconiche punteggiature chitarristiche di Jonas Stålhammar. Un brano come “In Grief”, a questo proposito, assurge a manifesto programmatico dello show, convincendo anche i più scettici e scatenando un sano pogo vecchio stampo in prossimità delle prime file. Non male per dei semplici vecchietti!
TERRORIZER
C’era una volta un gruppo chiamato Terrorizer… e con questo crediamo di aver già detto tutto sullo stato di salute della formazione americana, chiamata a raccolta dall’organizzazione del festival come headliner della prima giornata. Nonostante la prematura scomparsa di Jesse Pintado, il terzetto è ancora in pista e questa sera si prepara a celebrare i venticinque anni dell’uscita di “World Downfall” – uno dei dischi più belli e seminali nella storia del metal estremo – riproponendolo nella sua interezza al pubblico accorso. Qualcosa però, fin dalle primissime battute di “After World Obliteration”, non torna: la chitarra suona inspiegabilmente esile, la batteria ultra-triggerata di Sandoval predomina su tutto e la band appare goffa, impacciata, come se non si fosse preparata a sufficienza per l’appuntamento di questa sera. Non è un caso, quindi, che i brani vengano disseminati di sbavature (eclatante il lapsus del vocalist su “Enslaved By Propaganda”), per un risultato finale approssimativo e mediocre, che getta ulteriori ombre sull’effettiva utilità dei Terrorizer al giorno d’oggi. A tratti è stato come assistere allo spettacolo di una cover band, una vera tristezza per i nostri occhi e le nostre orecchie.
ABNORMALITY
Dal Massachusetts con furore, gli Abnormality regalano agli avventori del Neurotic Deathfest una delle performance più feroci e coinvolgenti dell’intera manifestazione, prendendo d’assalto la sala piccola e trasformandola in una bolgia infernale a base di pogo e circle pit. Il gruppo americano si trova in Europa da settimane e non sorprende vederlo affiatato e pronto a lasciare il segno, ribadendo on stage le ottime impressioni suscitate dal debut album “Contaminating The Hive Mind”. Cervellotica senza per questo risultare indigesta, la proposta del quintetto si destreggia fra Decapitated (periodo “Organic Hallucinosis”) e Suffocation, potendo peraltro vantare la presenza di un’ottima frontgirl come Mallika Sundaramurthy. La Nostra fa il bello e il cattivo tempo, aizzando la folla e sfoggiando un growl veramente niente male, accompagnata dal riffing convulso delle chitarre e dal pulsare schizofrenico del basso, in un fiume di violenza che non sembra lasciare scampo a nessuno. A fine concerto gli applausi si sprecano e – a giudicare dalla coda al banchetto del merchandise – l’obiettivo degli Abnormality può dirsi centrato con successo. Prima, vera sorpresa del festival!
BRUTAL TRUTH
Anche le storie più belle finiscono. Come risaputo, infatti, entro la fine dell’anno i Brutal Truth appenderanno definitivamente gli strumenti al muro, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore di migliaia di grindfreak sparsi per il globo. Potevamo noi di Metalitalia.com, da fan sfegatati di Dan Lilker e soci, perderci la loro ultima esibizione sul suolo olandese? Assolutamente no! Quando partono le note di “Birth Of Ignorance” siamo già in prima fila, pronti a tributare un ultimo saluto a questa grandissima band, incuranti del pogo selvaggio alle nostre spalle. Kevin Sharp – ormai prossimo ai cinquant’anni – ci tiene a non sfigurare di fronte alla platea dello 013 e sfodera una performance maiuscola, alternando come se nulla fosse growling marcissimi e screaming laceranti, mentre Richard Hoak alla batteria e Lilker al basso imbastiscono la solita sezione ritmica da capogiro. Non è da meno, ovviamente, Dan O’Hare alla chitarra (in prestito dai Total Fucking Destruction) e questa comunione di intenti si traduce in un set più indiavolato e corrosivo del solito, la cui unica pecca è quella di concentrarsi troppo sugli ultimi dischi e troppo poco sui lavori degli anni ’90. Ad ogni modo, nonostante avremmo preferito ascoltare una “I See Red” al posto di una comunque ottima “Evolution Through Revolution”, il concerto dei Brutal Truth non può che essere annoverato tra i più sentiti e coinvolgenti della giornata. Arrivederci ragazzi, e grazie di tutto.
DESPISED ICON
Uno dei momenti più attesi di questo Neurotic Deathfest, almeno per chi scrive, era senza dubbio lo show dei Despised Icon. Il combo canadese, riunitosi per una breve serie di date europee, richiama a sè una grossa fetta di pubblico e nel giro di pochi secondi scatena il putiferio all’interno della sala principale, tra pogo, stage diving e mosse da karate kid nel pit. Non ci sarebbe da meravigliarsi, visto che la miscela di death metal e hardcore dei Nostri è sempre stata pensata per la sfera live, ma l’impatto è così devastante che risulta impossibile stare fermi e non rispondere agli anthem scagliati da Alexandre Erian e Steve Marois, tra i frontman più carismatici del festival grazie al loro duplice assalto vocale. Nel corso della setlist, la parte da leone è ovviamente affidata ai brani del celeberrimo “The Ills Of Modern Man” (spettacolare la resa di “In The Arms Of Perdition”), ma non mancano estratti da “The Healing Poison” e dall’ultimo “Day Of Mourning”, per un risultato finale assolutamente sopra le righe, che non delude le aspettative dei numerosi death-corer in sala. Alla fine ne usciamo con le ossa rotte, ma decisamente soddisfatti.
ANTROPOFAGUS
Dopo la massacrante performance degli Hour Of Penance, il testimone del metallo nostrano passa nelle mani degli Antropofagus, ultimo gruppo della giornata a salire sul palco piccolo. Dall’uscita di “Architecture Of Lust” – vecchio ormai di due anni – il quartetto ligure ha suonato live con una certa frequenza e questa sera si affida a tutta la sua esperienza per lasciare un ricordo positivo tra gli astanti, sfoderando un set selvaggio e serratissimo, incentrato sui brani dell’ultimo full-length ma non per questo privo di incursioni nei territori del sanguinario “No Waste Of Flesh”. Ecco quindi susseguirsi le varie “Sanguinis Bestiae Solis”, il cui stacco groovy fa partire diverse teste in sala, “Thick Putrefaction Stink” e “The Lament Configuration”, a dimostrazione del fatto che è ancora possibile suonare musica brutale e complessa senza sacrificare nulla in termini di orecchiabilità. Sulle prove dei singoli è inutile dilungarsi: Davide Billa si conferma uno dei batteristi più preparati sulla piazza, mentre Meatgrinder alla chitarra e Jacopo Rossi al basso elargiscono la solita prestazione senza tentennamenti, con Tya impegnato a ruggire e a coinvolgere il pubblico per tutti e quaranta i minuti a disposizione della band. Tra i tanti esponenti del cosiddetto filone “brutal” presenti a questo Neurotic Deathfest, gli Antropofagus sono stati senza dubbio i migliori.
SKINLESS
A poche ore dall’incendiaria prova dei Despised Icon, è nuovamente tempo di death-core sul palco del Neurotic Deathfest. A fornircelo sono i newyorkesi Skinless, pionieri indiscussi del genere assieme a Dying Fetus, The Red Chord e pochi altri, giunti motivatissimi dagli States per un’unica apparizione sul suolo europeo. La band si esibisce in formazione originale e non impiega molto per conquistare i favori del pubblico, con una “Foreshadowing Our Demise”, posta a tradimento in apertura, che scatena immediatamente la guerra nel pit. I suoni sono grassissimi, il wall of sound mostruoso e come se non bastasse il quintetto non sembra intenzionato a fare prigionieri, impugnando gli strumenti a mo’ di mazze da baseball per frantumare crani a destra e a manca. Accelerazione dopo accelerazione, breakdown dopo breakdown, i Nostri ripercorrono così tutti gli episodi chiave della propria carriera, trovando anche il tempo di presentare un nuovo brano, “Serpenticide”, che figurerà sul prossimo disco in uscita per Relapse. Sherwood Webber ruba a più riprese la scena ai compagni, sia per la sua ottima performance al microfono che per il modo di porsi on stage, interagendo col pubblico come ci si aspetterebbe da un frontman hardcore; ma non si può certo dire che la sezione strumentale degli Skinless sia stata da meno: l’intero concerto è un successone e all’urlo “Life sucks… and then you die!”, incipit del cavallo di battaglia “The Optimist”, le difese dello 013 crollano definitivamente, in un tripudio di corpi, urla e calci volanti. A fine serata il responso è insomma unanime: grandi, grandissimi Skinless!
GRAVE
Toh, chi si rivede! I Grave. Ennesimo concertone alle porte di questo Neurotic Deathfest? Ovviamente sì. Ola Lindgren e soci – su disco e dal vivo – sono sinonimo di qualità pressochè assoluta e anche oggi non tradiscono la propria nomea, imbrattando la sala principale con il loro massacrante death metal made in Sweden. Tre quarti d’ora a base di chitarre motosega, ritmiche spezzacollo e growling dal più profondo girone dell’Inferno: questi gli ingredienti che trasformano la performance dei Nostri nel solito, acclamatissimo successo, uniti ovviamente alla bontà della setlist. I cavalli di battaglia ci sono tutti, da “Into The Grave” a “Christi(ns)anity”, ma non mancano episodi più recenti come “Winds Of Chains” o “Morbid Ascent” (posta curiosamente in chiusura), per un assalto all’arma bianca che ridicolizza l’operato di molte band più giovani esibitesi prima di loro. Finchè si renderanno protagonisti di simili massacri, supporteremo il nome dei Grave in eterno.
MISERY INDEX
Ormai di casa al Neurotic Deathfest, i Misery Index fanno piazza pulita della concorrenza pomeridiana del terzo giorno grazie al loro spietatissimo assalto death/grind, cogliendo al volo l’occasione per presentare al pubblico alcuni brani del nuovo “The Killing Gods”, in uscita a fine mese su Season Of Mist. I Nostri, da sempre conosciuti per essere delle autentiche macchine da guerra in sede live, salgono sul palco affiatatissimi e non deludono le aspettative del proprio seguito, partendo a razzo con una “The Carrion Call” che mette subito in chiaro le cose. D’altronde, quando godi dei servigi di un batterista straordinario come Adam Jarvis, l’impatto della tua musica non potrà che essere devastante e così è stato anche oggi: l’opener esplode come una raffica di AK-47 dalle casse, falciando arti e teste tra la folla e spianando la strada al resto della setlist, con il concerto che a questo punto è già tutto in discesa per la band di Baltimora. Piace inoltre – sebbene sia sempre un piacere rompersi il collo sulle varie “You Lose” e “Traitors” – la scelta di includere nella setlist brani poco conosciuti come “Exception To The Ruled” e “Manufacturing Greed”, in un omaggio alle origini crust/hardcore di Jason Netherton e soci tanto inaspettato quanto riuscito. C’è poco da fare, quaranta minuti sono sempre troppo pochi se a suonare sono questi brutti ceffi!
BLOODTRUTH
Fa un certo effetto vedere una band giovane e con soltanto un demo alle spalle occupare uno slot di tutto rispetto come quello in prima serata sul palco della sala piccola, soprattutto se pensiamo che questa band è italiana. A quanto pare, però, merito forse del contratto siglato recentemente con Unique Leader, i Bloodtruth sono già diventati un piccolo caso nel circuito death metal europeo e questa sera viene data loro la possibilità di esibirsi a Tilburg per confermare le buone impressioni suscitate dalla loro musica. Eventuali detrattori non avranno comunque nulla a cui aggrapparsi, visto che i quaranta minuti messi a disposizione dall’organizzazione coincidono con una performance professionale e sentita, in cui il gruppo di Perugia non risparmia un briciolo di energia per coinvolgere il pubblico. Tra richiami più o meno velati alle gesta di Antropofagus, Suffocation e primi Hour Of Penance, il quartetto non può ancora vantare una grande personalità, ma ciò che ai Nostri manca in carisma è puntualmente bilanciato dall’ottima conoscenza della materia e da brani che a conti fatti “spaccano” sul serio – vedasi “Suppurating Of Deception”, cadenzata e terrificante – per un concerto onesto e divertente. Avanti così.
GORGUTS
Uno show dei Gorguts è l’occasione perfetta per qualsiasi scribacchino musicale di elargire termini come “onirico”, “trascendentale” o “visionario”, ma in sostanza, dietro a questo linguaggio aulico e forbito, cosa si nasconde? A nostro modesto parere, l’operato di una band straordinaria, capace di smuovere le corde più profonde dell’animo umano con un semplice passaggio della propria musica, sia esso un riff, una linea vocale o un pattern ritmico, risvegliando emozioni e ricordi sopiti da tempo. Una volta tanto, insomma, ignoranza e forza bruta lasciano posto all’introspezione e l’ensemble nordamericano – capitanato come sempre dalla mente geniale di Luc Lemay – può fare il suo ingresso sul palco principale. Merito di un impianto luci soffuso e di suoni stellari (tra i migliori dell’intera edizione del festival), l’effetto catartico è immediato: “Le Toit Du Monde” esplode in tutta la sua maestosità dalle casse, risultando se possibile ancora più passionale che su disco e puntando l’attenzione sulla performance dei musicisti, rodatissimi dopo dieci giorni di concerti in giro per l’Europa. Il growl di Lemay si conferma immune allo scorrere del tempo e anche stasera dispensa brividi sulle schiene di tutta la sala, Colin Marston al basso e Kevin Hufnagel alla seconda chitarra sono i soliti mostri di tecnica e bravura, mentre Patrice Hamelin alla batteria (subentrato al dimissionario John Longstreth) non fa rimpiangere più di tanto il suo predecessore, sfoderando una prestazione tentacolare e poderosa. La band procede spedita, inanellando senza proferire parola il trittico “An Ocean Of Wisdom”/“Forgotten Arrows”/“Colored Sands” e facendo un tuffo nel passato soltanto nel finale, con “Orphans Of Sickness” e le acide “The Carnal State”/“Obscura” a siglare uno show che, senza troppi giri di parole, è valso da solo il viaggio di andata e ritorno da Tilburg. Ci aspettavamo tanto da loro, ma i Gorguts sono andati ugualmente oltre ogni nostra più rosea aspettativa: spettacolari.
CANCER
Dall’avant-garde death metal dei Gorguts all’assalto ignorante e senza fronzoli dei Cancer il passo non è certo breve, ma come resistere alla tentazione di vedere all’opera il gruppo britannico? Il reunion show del combo di Telford figura tra le chicche di questo Neurotic Deathfest e non è un caso che, allo scoccare dell’ora prestabilita, la sala media strabordi di persone, tra metallari attempati, fan più recenti e semplici curiosi. Riposti in un cassetto gli scialbi “Black Faith” e “Spirit In Flames”, il quartetto fa totale affidamento sul materiale dei primi tre dischi, e questa decisione, unita a suoni semplicemente devastanti, trasforma la performance in un highlight istantaneo, con i riff martellanti di John Walker e Barry Savage che suonano come veri inviti a pogare e seminare distruzione nel pit. In pochi (noi compresi) si aspettavano di trovare i Nostri tanto in forma, soprattutto pensando alla lunga lontananza dalle scene, invece i Cancer suonano con il piglio di chi non ha mai appeso gli strumenti al muro, travolgendo tutto e tutti in un’escalation assassina che ha quasi dell’incredibile. Piovono così dalle casse – a mo’ di badilate in pieno volto – le varie “Into The Acid”, “Tasteless Incest” e “To The Gory End”, piccole perle di death metal novantiano che non possono lasciare indifferenti gli ascoltatori più tradizionalisti, scandite dall’incazzatissimo growling di un Walker in grande spolvero dietro al microfono. Insomma, i tre quarti d’ora di performance scorrono che è una meraviglia, doverosamente siglati dalla storica “Hung, Drawn And Quartered” e sanciti da un lungo, calorosissimo applauso. Bentornati Cancer.
DARK ANGEL
“We have arrived”, diceva il titolo di un loro album e di una loro canzone. Oggi finalmente, dopo anni di attese, conferme e ripensamenti dell’ultimo minuto, i Dark Angel sono a tutti gli effetti tornati fra noi, per la gioia di migliaia di fan sparsi per il mondo. Parliamo – nel caso qualcuno non lo sapesse – di una delle più grandi, originali e purtroppo sottovalutate formazioni nella storia del thrash metal, autrice nel periodo che va dalla metà degli anni ’80 all’inizio degli anni ’90 di quattro opere leggendarie: il succitato “We Have Arrived”, “Darkness Descends”, “Leave Scars” e l’inarrivabile “Time Does Not Heal”, prematuro epitaffio di una carriera che all’epoca avrebbe meritato sicuramente più successo. La sala principale è dunque gremita quando i cinque californiani salgono sul palco e, non appena partono le note di “Darkness Descends”, giustamente scelta come opener, si scatena il pandemonio: le chitarre di Erik Meyer e Jim Durkin suonano velenosissime, fendendo l’aria come tremendi rasoi, la sezione ritmica composta da Mike Gonzales e Gene Hoglan non sbaglia un colpo (e come potrebbe con una simile macchina dietro ai piatti?), mentre Ron Rinehart alla voce, nonostante abbia messo su qualche chilo di troppo, sfodera una prestazione impensabile per la sua età, riuscendo perfino a replicare gli acuti udibili su disco. La sensazione è insomma quella che i Nostri si siano preparati a dovere per questo loro attesissimo comeback, presentimento avvalorato dalla poderosa resa delle successive “We Have Arrived” e “The Burning Of Sodom”, grazie alle quali la setlist entra definitivamente nel vivo. Il pubblico poga, fa headbanging in tutta la sala e canta a squarciagola ogni singola strofa, aizzato da un Rinehart calato appieno nelle vesti di frontman, con la band intenta a ripercorrere in lungo e in largo la propria discografia. Non un solo full-length viene trascurato – sebbene la parte da leone l’abbiano fatta gli estratti di “Darkness Descends”, eseguito quasi per intero – in una sorta di “best of” che ci lascia a bocca aperta, quasi stessimo vivendo un sogno. Basterebbero i sette, devastanti minuti di “No One Answers” per mandarci a casa entusiasti come ragazzini reduci dal primo appuntamento, invece i Dark Angel si spingono oltre, finendo addirittura per suonare un quarto d’ora più del dovuto e strappando un grido di trionfo e giubilo a tutti i presenti. Doveva essere un evento e lo è stato: dritto nella top 5 di questo Neurotic Deathfest, senza dubbio!
GORETRADE
Quello dei Goretrade è l’ultimo show in assoluto del festival, motivo per cui decidiamo di raccapezzare le poche energie rimasteci e dirigerci verso la sala media, pronti a ricevere il colpo di grazia definitivo. Manco a dirlo, quando arriviamo la band colombiana sta già mettendo a dura prova il fisico dei presenti e nel giro di pochissimi istanti veniamo risucchiati anche noi all’interno della ressa, ballonzolando sulle note dell’ignorantissima musica che fuoriesce dalle casse. Il mischione a base di Devourment, Cannibal Corpse e venature death/grind à la Misery Index del terzetto – soltanto buono su disco – acquista dieci marce in più dal vivo e diventa la valvola di sfogo ideale dopo tre giorni di concerti non-stop, facendo assumere all’esibizione i connotati di un party frenetico e selvaggio. Sarà la passionalità latina di César Vera e soci, saranno i riff “ciccioni” che caratterizzano la stragrande maggioranza dei brani, sta di fatto che i tre quarti d’ora a disposizione dei Nostri coincidono con una performance divertente e trascinantissima, con una risposta da parte del pubblico semplicemente su di giri. Sotto al palco si sviluppa un circle pit gigantesco, che a tratti finisce per abbracciare l’intera sala, mentre nelle retrovie e sulla balconata è tutto un dimenarsi di pugni e chiome fluenti… insomma, un vero massacro che sancisce nel migliore dei modi questo Neurotic Deathfest, tra titoli poco confortanti come “Carnal Access” e tanti, tanti sorrisi. All’anno prossimo? Noi speriamo proprio di si!