Report a cura di Davide Romagnoli
Fotografie di Francesco Castaldo
Data superlusso per celebrare il ritorno della formazione del caro vecchio Reznor, ancora dietro monicker Nine Inch Nails. Data resa ancora più succulenta dalla superchicca di spalla: i Tomahawk di tal Mike Patton. Impellenti di scoprire cosa la creatura di mastro Reznor abbia tenuto in serbo per i fedelissimi fan per quanto riguarda setlist, impianti scenici, luci e quant’altro, le folle di fedeli si accalcano al forum meneghino par exellence, a mò di pellegrinaggio sacrale, pronti a genuflettersi quasi incondizionatamente a due dei più sorprendenti artisti da palcoscenico musicale dell’ ultimo ventennio. Accoppiata rovente di fine agosto. Appuntamento assolutamente imperdibile.
TOMAHAWK
Rendiamo grazie a Mike Patton per esistere. Questo è il motto di ogni ascoltatore che si è scontrato con qualunque degli innumerevoli progetti del californiano più italiano che ci sia. Questa volta lo ritroviamo dietro il microfono (e il mixer) di uno dei suoi progetti sicuramente più riusciti, insieme ai compagni Trevor Dunn, Duane Denison dei Jesus Lizard, John Stainer degli Helmet, sotto il nome di Tomahawk. All’uscita recente della quarta fatica, il quartetto ripropone fedelmente molti dei grandi pezzi di repertorio, come l’introduttiva “God Hates A Coward”, “Flashback”, “POP 1”, “Point And Click” dal primo disco omonimo, la superba “Mayday”, “Birdsong” e “Rape This Day” dal secondo “Mit Gas”, e solo la title-track dell’ultimo “Oddfellows”, tralasciando completamente il dubbioso “Anonymous”. La qualità sonora è ottima, il gruppo è in gran forma e suona impeccabilmente. Il buon Patton sforna, come al solito, un’ottima prestazione, senza però esagerare nella follia che lo ha sempre contraddistinto. Certo, non mancano gli insulti all’italiana e un simpatico “Non male come accoglienza per un gruppo di spalla” di risposta agli applausi che lo vedono sempre meritevole. Altrettanto certo è che da Mike uno si aspetta sempre un gesto inconsulto, uno sfaso improvviso, una virata, un colpo di coda, un ribaltamento. Questo è un Patton composto -per quanto possibile- equilibrato, sobrio. Altalenandosi tra blues, psichedelia, botte noise ed elettronica, il concerto scorre senza intoppi e tra gli applausi compiaciuti anche di quelli che di Tomahawk avran sentito parlare sì e no in qualche Tex.
Setlist:
God Hates A Coward
Mayday
Oddfellows
POP 1
Rape This Day
Flashback
Birdsong
Point And Click
NINE INCH NAILS
Virgilianamente, in medias res, ecco spuntare sul palco mr. Reznor, quasi di soppiatto, e, afferrato il suo fidato synthpad, iniziare le danze con “Copy Of A”, tratta dal nuovo e imminente “Hesitation Marks”. Pian piano ecco entrare ad uno a uno anche gli altri fidati compari di questa sessione duemilatredici di ritorno sulle scene dopo quattro anni di scioglimento: l’immenso compagno d’avventure Robin Finck, il talentuoso e fidato Alessandro Cortini, Ilan Rubin dietro le pelli e il neo entrato John Eustis, ovviamente eclettico polistrumentista dal palato tanto raffinato da riuscire ad integrarsi appieno alla direzione del maestro Reznor. L’impianto luci e la produzione sono da genuflessione perpetua per l’intera durata dello show, così minimali eppur così caleidoscopici e riflessivi, offrono una potenza visiva capace di far risaltare qualunque tipo di esibizione sonora. Se poi la performance e i brani sono quelli targati NIN, allora la combo diventa spaventosamente potente. Non esistono dubbi sulla qualità live del progetto Nine Inch Nails. Non ce ne sono mai stati e probabilmente mai ce ne saranno. Ma ancora una volta il buon Reznor non sbaglia un tassello e riesce ad integrare vecchio e nuovo, post-rock da colonna sonora e industrial, noise ed emotività pianistica, piallate sulle gengive e tocco raffinato sugli innumerevoli strumenti che appaiono sul palco ad ogni canzone. Anche i pezzi del disco nuovo “Hesitation Marks” presentati in setlist sembrano avere un altro piglio, rispetto a quello che si è sentito nelle anteprime. “Came Back Haunted” è di un groove spaventoso, così come anche “1 000 000” da “The Slip”. Si susseguono cavalli di battaglia sempre presenti e sempre inequivocabilmente capolavori come “Closer”, “March Of The Pigs”, “The Wretched”, “Piggy”, le chicche tirate fuori dal cilindro come “I’m Afraid Of Americans” o la magnifica “What If We Could?” tratta dall’album di Reznor con Atticus Ross per la colonna sonora di “The Girl With The Dragon Tattoo”. Momenti più scuri si intarsiano come un mosaico a momenti più riflessivi, sogni si mischiano ad incubi, singoloni ad episodi più intricati. “Wish” che riapre le danze dopo “The Way Out Is Through” è da cardiopalma, “The Good Soldier” e “Survivalism” non son mai suonate così perfette, “Hurt” è semplicemente una delle chiuse più poetiche che un concerto possa vantare. Ancora una volta Reznor ha soddisfatto la sua platea di fedeli in tutti i sensi, facendo felici un po’ tutti, dagli amanti del giovane decadente perverso dei Nineties, al moderno programmatore di musica per Mac. Non è tempo ancora di parlare di disco nuovo. Nessuno vuole violare l’emozione della serata e neanche i più restii alla genuflessione potranno incrinare l’intonso curriculum di live act che il monicker NIN ha assunto durante tutti questi anni.
Setlist:
Copy Of A
Sanctified
Came Back Haunted
1,000,000
March Of The Pigs
Piggy
The Frail
The Wretched
Terrible Lie
I’m Afraid Of Americans
Closer
Gave Up
Help Me I Am in Hell
Me, I’m Not
Find My Way
The Warning
What If We Could?
The Way Out Is Through
Wish
Survivalism
The Good Soldier
Only
The Hand That Feeds
Head Like A Hole
Hurt