Report a cura di Giovanni Mascherpa
Il Lo-Fi, purtroppo prossimo alla chiusura definitiva, spara gli ultimi colpi di un’annata al solito indimenticabile, ricca di grandi concerti, con la prima calata italiana di sempre degli Oathbreaker. La compagine post-metal belga, agli sconvolgimenti rimembranti i Converge e lo screamo più venefico già in repertorio, ha aggiunto quest’anno una drammaticità bucolico-cantautorale inedita, facendo leva sull’elasticità vocale della bravissima cantante Caro Tanghe. “Rheia”, tramite le sue magiche elegie e stacchi violentissimi blanditi da essenze floreali, si è posto quale magistrale crocevia fra post-core, blackgaze e poesia cantata e ha introdotto i giovani ragazzi di Gand a una fetta di pubblico finora inesplorata. Assieme a loro c’è il progetto elettronico dell’ex-Altar Of Plagues James Kelly, Wife, un accostamento musicale che ai più potrebbe sembrare azzardato e poco consono, e che alla prova sul campo risulterà invece gradito alla maggioranza dei presenti. In apertura, un prodotto del florido sottobosco crust/black metal/sludge nazionale, i Calvario, quartetto capitanato dalla terrificante urlatrice Federica ‘Rika’ Dal Bo, che può godere di un numero di presenti già accettabile quando viene il loro turno di salire sul palco.
CALVARIO
Nel formulario apocalittico a firma Calvario non c’è spazio per l’indulgenza e la facile melodia. Il campionario disponibile verte esclusivamente su tonalità grigio-nere, che nell’ultimo anno sono state elargite ovunque fosse possibile, tramite un’attività live mirata. I quattro attecchiscono nell’immaginario belligerante del meticciato fra punk e extreme metal, annoverando al proprio interno una fitta serie di clichè consolidati. Detto questo, la band sta dando prova di non essere una mera copia carbone di altri fomentatori d’odio e malessere oggi in circolazione. Infatti, l’affascinante corredo visivo a sfondo biblico ha una sua diretta corrispondenza in forma sonora, grazie al tiro secco e rumoroso, avvampante in fiamme nerastre, dell’impasto di chitarra e basso e dell’essenzialità mitragliante della batteria. Non si tratta di suonare diversi o più fantasiosi di altri, piuttosto di metterci una convinzione più famelica, creando densità persecutoria laddove, altrove, si fa largo un patetico manierismo. Nell’esiguo spazio di tempo disponibile, Federica ‘Rika’ Dal Bo e compagni piazzano le tracce più concise in apertura, tanto per creare familiarità con le proprie idee. L’effetto distruttivo è garantito, aumentato dalla singolarità di sentire sbraitare con tale agghiacciante cattiveria una ragazza dall’apparenza tutto sommato quieta. Il meglio però – e per conto nostro accade quasi sempre con gruppi di questa tipologia – arriva verso la fine, quando alla dilatazione dei tempi si accompagna una caduta libera verso uno sludge funereo e pestilenziale. Lo stillicidio di feedback e la catramosità vocale allora assurgono a un altro livello di pericolo, allargando in sala un alone di malvagità prima più contenuto. Qualche ricamo più fantasioso nel dissertare di oppressioni e rovine sarebbe gradito, per ora ci accontentiamo volentieri di quanto i Calvario sanno proporre.
WIFE
Il cambio di registro non potrebbe essere più drastico. Kelly si installa a centro palco attorniato dalla sua strumentazione, solo, circondato da una fila di fari, mentre il resto del locale rimane completamente in penombra. L’avvio è talmente sommesso da farci dubitare che un tale tipo di musica possa avere una sua valenza riportata dal vivo. Suoni digitali appena percettibili, movimenti calibrati per economizzare lo sforzo, luminosità quasi assente: il minimalismo sembra quasi arrogante. Quando la tensione superficiale si rompe, allora iniziamo a comprendere. E ad ammirare. Wife rappresenta il tentativo di conciliare deumanizzazione di macchinari fantascientifici e purezza naturalistica, l’elettronica di Kelly poggia su strati setosi che si fratturano in mille cocci pur cercando la gentilezza, affondando nella conflittualità per riprendersi un attimo dopo come se nulla fosse successo. Lo sbocciare potente dei synth si accompagna a un conseguente innalzamento delle luci, che per come sono posizionate trasformano il musicista irlandese in una torcia ora verde, ora fucsia, ora blu. Attimi di sospensione estatica, così flebili da mozzare il respiro, si intervallano a scoppi tremendi, milioni di vetri in frantumi in contemporanea, con cesure, intervalli, stacchi incongrui che feriscono la musica e le tolgono continuità. Kelly passa in rassegna il materiale dell’ep “Standard Nature” da poco edito per Profound Lore, cavandosela egregiamente anche alla voce, robotica lamentosità che arriva direttamente dalle parti meno accessibili dell’anima. Alle nostre iniziali perplessità si sostituisce un vibrante apprezzamento, siamo rammaricati che il concerto finisca abbastanza in fretta, dando l’idea che nel corso dell’esibizione dei Wife il normale scorrimento temporale si sia fermato, lasciandoci galleggiare nel brodo primordiale di un’altra dimensione in attesa di evoluzione. Emozionante.
OATHBREAKER
Caro Tanghe immobile, abbozzolata nel suo vasto scialle delle dimensioni di un lenzuolo, declamante a cappella il testo di “10:56”, è una scena inconsueta per uno spettacolo che ci si aspetterebbe vibrante, ridondante di isterica adrenalina, figlia dell’hardcore più carico di follia. Eppure questo è il modo, veramente scenografico e spiazzante, scelto dagli Oathbreaker per presentarsi ai convenuti al Lo-Fi. Per l’ora di inizio dell’ultimo gruppo in programma la sala è piena per tre quarti, ed è evidente dal parlottare (fastidioso) di qualcuno che c’è un pizzico di disorientamento nel modo di approcciare il concerto da parte dei belgi. A rassicurare ci pensa l’assalto irresistibile di “Second Son Of R.”, che come su disco è chiamata a interrompere la quiete e scatenare il caos. Se nei suoi primi minuti pare riportare a un contesto più familiare, appare presto evidente che l’oretta scarsa in compagnia della band sarà un’esperienza unica, quasi un incantesimo gettato su di noi, che confonde e illumina. Che ci sia da picchiare duro, oppure ci si rintani idealmente in un luogo lontano da tutti quando la rarefazione e la quiete ritornano a prendere spazio, gli Oathbreaker viaggiano su una strada tutta loro. Ci possono essere rimandi, suggestioni care a certo post-core ‘emotivo’, però il sound dei belgi sa sempre colpire con armi solo vagamente note. Gli stacchi più dirompenti assumono forme strane, perché al livore esagitato fanno da contraltare, sullo sfondo, nenie graziose, che non scompaiono neanche sotto l’affondar di lama dello screaming di Caro. Il talento di questa ragazza, la padronanza della voce, la capacità di estraniarsi in un mondo tutto suo mentre canta, sono un patrimonio raro, che i Nostri sanno di avere in dote e sfruttano magnificamente, usandolo quale polo d’attrazione di uno stile già ricco nel solo comparto strumentale. La scaletta rimane sbilanciata sull’ultima fatica in studio (restano fuori di “Rheia” le song più pacate, ovvero “Stay Here/Accroche Moi”, “I’m Sorry, This Is”, “Begeerte”), toccando gradi di emozionalità che vagano fra lo sconcerto, la sorpresa, il completo rapimento. Il tambureggiare nella calma della parte centrale di “Immortals”, con Caro a sussurrare perfettamente nel microfono come fosse in studio di registrazione, è la fotografia di una manifestazione d’intenti personalissima e riuscita nel mischiare rabbia, candore, fragilità, psicosi. La ruvidezza sregolata torna, graditissima, nell’encore di “Glimpse Of The Unseen”, che provoca qualche breve mischia in prossimità del palco. Un’esibizione eccellente, insomma, il cui unico torto è il non essere stata lievemente più lunga. Ma si tratta davvero di un dettaglio di poco conto a fronte di cotanta classe.