A cura di Maurizio Borghi,
foto di Barbara Francone – Roadrunner Records (www.roadrunnerrecords.it)
23 gennaio 2006, Rolling Stone di Milano: gran bel concerto per gli appassionati degli Obituary, che vengono accompagnati da realtà diverse ma interessanti e importanti come Samael e dalle nuove leve dell’hardcore metallizzato europeo, quei Maroon che in questo 2005 hanno saputo sfruttare i riflettori sul genere per mettersi in luce. Com’è ovvio il pubblico raggiunge il locale milanese solo ed esclusivamente per l’esibizione dei re del death metal, eterogeneo sia per età che per estetica: tra capelloni e bestie borchiate anche qualche thrasher old school con pantalone strettissimo e Nike giganti, chissà che il 2005 non segni il ritorno del thrash! Anche se il concerto inizia alle 19:30 l’affluenza fa presagire un discreto numero di partecipanti per la serata…
MAROON
Aprono le danze, aiutati dall’atmosfera elettrica dei molti presenti al Rolling Stone di Milano, i tedeschi Maroon, capaci autori di un hardcore metallizzato che sembra quasi irrinunciabile in un bill oggi come oggi, dato il momento magico per il filone. I vegan sotto il comando del singer Andre Moraweck non si risparmiano anche se il pubblico, più tradizionalista, pare un po’ distratto: il risultato è una mezz’ora (molto) stiracchiata di death metal core assassino e brutale, un po’ prevedibile ma onestissimo, perfetto per dare un calcio alla festa. Niente moshpit devastante come avrebbero voluto questi allstar del metalcore europeo, ma già l’approvazione dei presenti può esser giudicata come un ottimo inizio. Endorsed by hate!
SAMAEL
Palcoscenico agli svizzeri Samael, molto attesi dal pubblico che già inizia a riempire la sala (c’è da dire che sono solo le 20:00 e moltissimi sono impossibilitati a raggiungere il locale per quest’ora). La scaletta del gruppo è tratta quasi esclusivamente da “Passage”, “The eternal” e dall’ultimo “Reign of light”. La band attacca con “Heliopolis”, sfoggiando tutto l’impegno possibile, ma da subito, forse per l’atmosfera troppo tesa agli headliner e a un pubblico non troppo dedicato, si percepisce che la prova della serata non sarà delle migliori. I pezzi si susseguono uno dopo l’altro con poca incisività, tendendo alla lunga ad annoiare i presenti. Il sound freddino dei sinth è reso più debole dai volumi troppo bassi di inizio concerto, che hanno danneggiato anche l’impatto con un gruppo che se da un lato cresceva nei suoni e nell’impegno prograssivamente perdeva l’appeal con gli spettatori fortuiti in sala. Tra una “Jupiterian Vibe” e una “On Earth” infatti parte anche qualche sbadiglio e l’attesa per gli headliner si fa spasmodica, fino alla conclusiva “My Saviour”, che, purtroppo per Xy, Vorph e compagnia, risulta quasi liberatoria. Non la loro serata.
OBITUARY
Gli Obituary sono ancora un nome grosso. Pochi gruppi riescono infatti dopo anni ad avere il supporto di tanti fan senza snaturarsi minimamente né concedersi all’industria. A fine serata il Rolling è pieno e nervoso nell’attesa (breve) di vedere gli headliner, che non si fanno attendere entrando in scena sulle note della strumentale “Redneck Stomp”. Certo l’età si nota sui corpi dei musicisti (eccezion fatta per John Tardy, che ha preso solo qualche inevitabile chilo), ma a giudicare dall’iniziale “On The Floor” il gruppo ventennale non ha tanta voglia di scherzare: quanti gruppetti di ragazzini uscirebbero con le ossa rotte in un confronto diretto! I suoni fortunatamente rendono giustizia alla potenza delle song, esaltando sia l’inconfondibile voce del frontman che le ritmiche della coppia Peres/West. Chi li ha trovati appena sufficienti al GOM 2005 non smette di esaltare la prova della serata, supportata da un pubblico davvero caldo e partecipe, oltre che attento nel sottolineare ogni passaggio con il suo incitamento. La scaletta sembra aver accontentato davvero tutti pescando dal repertorio come promuovendo l’ultimo “Frozen in Time”: da “World Demise” vengono pescate “Solid State” e “Stand Alone”, da “Back From The Dead” “Threatening Skies” e “By The Light”, e saltando avanti e indietro nel tempo il gruppo non fa una sbavatura. Sulla tre quarti, dopo le bordate da “World Demise”, il gruppo ne approfitta per un breve riposo sull’assolo di batteria, pratica che lascia sempre abbastanza perplesso chi scrive ma che evidentemente risulta simpatica al pubblico, che dimostra di apprezzare anche questo momento individuale senza chissà quale prodezza tecnica sfoggiata. Ancora un paio di canzoni e il Rolling è pronto per la eccezionale e conclusiva “Slowly We Rot”, vera e propria finisher di una setlist davvero apprezzabile che ha annichilito davvero tutti i presenti. Impressionanti.