Report a cura di Edoardo De Nardi
É letteralmente un carrozzone dalle mille attrattive quello che sbarca a fine ottobre al fiorentino Cycle Club, un ensemble di nomi di primo livello appartenenti, con le dovute ragioni, alla fascia più conosciuta del così detto tech death metal ed osannati da file di ammiratori non rimasti indifferenti rispetto alla qualità eccelsa che molte di queste band hanno espresso sia con le loro più recenti, sia con le più datate prove in studio di registrazione. La curiosità quindi di vedere riproposte su palco le prodezze di questi virtuosi musicisti era molta ed ha combaciato infatti con una affluenza piuttosto copiosa, soprattutto per quanto riguarda i più giovani, estasiati di fronte alle performance dei loro beniamini. Constatare infatti la presenza di molti ragazzi al limite della maggiore età conferma un interesse vivido verso alcune correnti del metal estremo ed un ricambio generazionale quanto meno auspicato, sicuramente meno marcato in altri circuiti ed ambienti. Poche chiacchiere e molta sostanza hanno comunque caratterizzato la serata, della quale andiamo a parlarvi più specificatamente addentrandoci nel live report…
UNISON THEORY
I laziali Unison Theory sono l’unico gruppo estraneo al pacchetto del tour europeo di cui fanno parte i restanti nomi del cartellone, eppure dimostrano da subito una condizione ed un piglio assolutamente professionali. Ogni elemento della band calibra con misura una giusta mistura tra estro personale e resa complessiva, evitando di eccedere in eccessivi capricci tecnici e compattando invece le fila nei momenti più diretti. Nonostante la baritonale prova della chitarra rimanga un punto di riferimento sempre imprescindibile per tutti, anche basso e batteria si ritagliano la loro parte nell’insieme, mentre il growl poco profondo ma discretamente espressivo di Alex Starsev, buon mattatore del pubblico sotto palco, riesce a movimentare il tutto con delle azzeccate linee vocali dalla cadenza spesso non scontata. Rispetto a quel che verrà, gli Unison Theory concentrano i loro sforzi su un death metal molto –core e poco progressive, ricorrendo spesso e volentieri al breakdown ed a tempi medio-veloci su cui però sembrano muoversi con più che sufficiente carattere personale e mostrando capacità compositive piuttosto inquadrate, ma vincenti nelle scelte e coinvolgenti in sede live. Degli headliner di prestigio, stasera e non solo, stanno accompagnando il percorso live di questi ragazzi e la cosa non può far altro che irrobustire una proposta già in partenza ponderata e conscia dei propri mezzi.
RIVERS OF NIHIL
I Rivers Of Nihil vengono da Reading, Pennsylvania, e non fanno assolutamente nulla per nascondere le loro evidenti origini a stelle e strisce. Quello che meglio riesce fare al quintetto, infatti, è mischiare con successo le varie correnti che il death metal ha esplorato ed evoluto in America, utilizzando quale collante un faraonico impianto orchestrale tanto pretenzioso a parole quanto inaspettatamente coinvolgente in questa loro calata in terra italiana. Non manca di certo la robustezza del classico death metal a là Malevolent Creation o Suffocation, una tecnica eccelsa mista ad un grande senso melodico di chiara scuola Death ed un approccio più moderno e massiccio che non disdegna, pur non abbracciandone mai completamente gli stilemi, il deathcore più aggressivo di Carnifex o Whitechapel. Ad ogni modo, l’impatto dei ragazzi è fenomenale, ulteriormente esaltato nei momenti più epici dove le canzoni prendono una piega più solenne e si cerca di raggiungere l’apice del climax operosamente intessuto nei minuti precedenti. Qualche sbavatura di troppo accompagna la prestazione del batterista, ma ci pensa una chitarra solista stellare ed un bassista/cantante letteralmente tuttofare a catalizzare l’attenzione e spingerci verso un giudizio più che positivo nei confronti dei Rivers Of Nihil: “Monarchy”, “Perpetual Growth Machine” ed il singolone “Sand Baptism” sono brani che mostrano contemporaneamente muscoli, cuore e testa, una grande dedizione ed una determinazione che sta facendo riscuotere grandi consensi durante le serate a cui partecipano questi americani. Lancia spezzata a loro favore senza riserve.
BEYOND CREATION
Se “The Aura” aveva permesso ai Beyond Creation di attirare l’attenzione di tutti gli addetti del settore, in merito al death metal più cerebrale e progressivo presente in circolazione, “Earthborn Evolution” ha finalmente esaltato gli onori della band anche per il grande pubblico, rappresentando a conti fatti un exploit clamoroso difficilmente prevedibile persino per la Season Of Mist, loro etichetta, e per gli stessi quattro canadesi autori di questa imperdibile gemma di tecnica, melodia ed aggressività. Giusto il tempo di settare strumenti e volumi, che i Beyond Creation hanno già conquistato il palco con una sicumera da subito invidiabile, accompagnati dai boati entusiastici dei diversi presenti accorsi prevalentemente per assistere a questo spettacolo piuttosto che ai successivi. Pur concedendo spazio agli elementi più dinamici e trascinanti dell’album di debutto, è il secondo uscito dalla penna di Simon Girard e compagni a venir saccheggiato dei suoi momenti più ispirati ed avvolgenti, piccole suite perfettamente orchestrate che risaltano questa sera in tutto il loro splendore. Pur possedendo partiture death metal forsennate, incastri progressive stupefacenti e complessi intrecci melodici tra i vari strumenti, si percepisce in maniera palpabile la grande naturalezza con cui i ragazzi si approcciano alla loro musica, una sincera empatia generale che fonde l’entusiasmo di gruppo e pubblico in un’unica, grande emozione generale. Menzione di merito spetta al nuovo e giovanissimo entrato alle quattro corde, destinato a ricoprire l’ingrato ruolo del defezionario Dominic “Forest” Lapointe, ovvero uno degli elementi più rilevanti nel successo planetario raggiunto dai canadesi in questi ultimi anni. “Fundamental Process” chiude in maniera grandiosa uno spettacolo da fuoriclasse regalato con passione dai Beyond Creation al fedele pubblico del Cycle.
REVOCATION
I Revocation salgono sul palco di Calenzano con la loro solita aria scanzonata e divertente, assomigliando più ad un gruppo di giovani scolari in gita di classe piuttosto che alla chirurgica macchina thrash/death che dirigono quando decidono di unire le forze e suonare tutti insieme. Grazie soprattutto ai primi lavori in studio, i quattro di Boston hanno letteralmente reinventato una certa maniera muscolosa e battagliera di intendere il thrash metal, sconfinando spesso in potenti derive death metal o in deliranti strutture vorticose che hanno reso lavori come “Existence Is Futile” o “Chaos Of Forms” dei fulmini a ciel sereno nello stantio mercato di qualche annetto fa. Il raggio espressivo poi si è fatto successivamente più ampio fino all’anno corrente, che vede l’uscita del nuovo “Great Is Our Sin” ed il tour promozionale ad esso collegato proprio in compagnia di Obscura e Beyond Creation. Ci si aspetterebbe quindi una buona quantità di estratti dal suddetto lavoro, accompagnati magari dalle numerose killer hit di cui dispongono i Nostri estrapolate dai precedenti lavori: piuttosto a sorpresa invece, “GIOS” viene omaggiato solamente con i singoli di rito e poco altro, lasciando invece grande spazio alle canzoni più imprevedibili e facenti parte della passata discografia. Scelta particolare certo, che permette ancor più, però, di assistere alla mostruosa manualità di Davidson con il proprio strumento, nonché l’infinita conoscenza teorica che ha portato il giovane shredder americano alla ribalta già da diverso tempo. È un piacere infatti godersi le sue scorribande soliste dal sapore blues/fusion/jazz su ritmiche assassine di slayeriana memoria, così come seguire le sue metriche indiavolate alternate a sweep picking e plettraggi alternati eseguiti alla velocità della luce, ma non per questo meno precisi ed efficaci. Paradossalmente, pur con un bagaglio tecnico e compositivo sbalorditivo, i Revocation sono passati stasera come il gruppo più stradaiolo ed in your face della serata, scrivendo questo senza nessuna punta di polemica sulla lingua. Una posizione del genere invece, non può far altro che giovare alla band, che espande così il suo pubblico e si presenta con curiosità in un bill altrimenti eccessivamente monotematico.
OBSCURA
Vedere gli Obscura girare l’Europa in un nuovo tour di questo livello, in veste di headliner tra l’altro, fa tirare più di un sospiro di sollievo a tutti quei fedeli follower che guardavano ormai con poca speranza al futuro di una band sull’orlo del disfacimento. Dei musicisti coinvolti nell’oramai storico “Cosmogenesis”, nonché nel successivo “Omnivium”, rimane oggi soltanto il frontman Steffen Kummerer, che dopo aver perso per strada uno dopo l’altro i nomi di spicco coinvolti nel progetto, ha trovato la forza di reagire tirando in piedi una line-up di pari livello della precedente e dando alle stampe il fresco “Akróasis”, ottimo lavoro di evoluzione all’interno della discografia degli Obscura. La resa sonora del gruppo tedesco è fedele e molto accurata, coadiuvata da un impianto audio perfetto per far risaltare in maniera cristallina i fini arabeschi che basso e chitarre intessono lungo la scaletta preparata per la serata, scandagliando in maniera equa i migliori momenti delle varie uscite discografiche fino ad oggi rilasciate. A confronto con quanto sentito fino ad ora, gli Obscura risultano forse meno potenti nei momenti più concitati, ma ciononostante il locale sembra seguire con trasporto gli svolgimenti del concerto, intonando con vigore quasi tutte le canzoni ed esplodendo letteralmente sui cavalli di battaglia corrispondenti a “Anticosmic Overlord”, “Incarnated” e “Desolate Spheres”, invogliando il gruppo a dare il massimo nonostante il clima di forte intimità che si è venuto a creare con il passare dei minuti. Anche “Ode To The Sun” e “Ten Sepiroth”, tra i migliori estratti dall’ultimo full-length, godono di una buona risposta da parte dell’audience e ci avviamo verso le ultime battute della serata con delle ottime sensazioni anche in merito all’operato dei bavaresi, tirando un bilancio ampiamente soddisfacente circa lo spettacolo a cui abbiamo assistito nel suo complesso. Nessun migliore segnale di rinascita può venire dimostrato da una band se non in ambito live, e da questo punto di vista Kummerer ha saputo scrollarsi di dosso la polvere ingaggiando musicisti di prim’ordine come il funambolico Trujillo alla chitarra solista e la presenza magnetica di Linus Klausenitzer alle cinque corde, riagguantando con vigore lo scettro lasciato vacante da Chuck Schuldiner ed i suoi Death quindici anni fa e continuando a portare avanti il proprio death progressive con inventiva ed umiltà.