Report di Andrea Intacchi
Succulenta accoppiata thrash, quella che si è riversata mercoledì 4 giugno sul palco del bergamasco Druso: da una parte la grezza e poderosa tradizione degli Onslaught, dall’altra la verve più tecnica e moderna dei Cryptosis.
Gli inglesi si accingono a celebrare il quarantesimo anniversario del loro primo album pubblicato: era infatti il 1985 quando lo svalvolato “Power From Hell” uscì sugli scaffali metallici, dando così l’opportunità alla band di Nige Rockett di salire a bordo di quel treno thrash guidato da altre realtà europee quali Sodom, Destruction e Kreator.
Gli olandesi invece, sono impegnati con la promozione di “Celestial Death”, secondo lavoro in studio rilasciato lo scorso marzo.
Un viaggio nel tempo che – magari un po’ forzatamente, viste anche le diverse modalità di approccio al genere – potrebbe anche prendere le forme di un passaggio di testimone tra passato e futuro del thrash metal, perennemente messo sotto la lente d’ingrandimento per la sua incapacità di rinnovarsi.
Il dato certo è stato che in quel di Ranica la gente, non tantissima (doveroso ammetterlo), è rimasta pienamente soddisfatta di quanto visto e, soprattutto, ascoltato, con il terzetto italiano, composto da Karon, Ashen Fields e Darkhold, il compito di preparare il campo del Druso a Cryptosis ed Onslaught.
Entriamo nel locale e i sentori che sarebbe stata una serata non felicissima dal punto di vista numerico si manifestano in breve tempo: vuoi la giornata lavorativa, vuoi l’orario non agevole per muoversi con agilità nel traffico bergamasco, sta di fatto che i KARON si sono esibiti di fronte ad un numero davvero sparuto di persone.
Un peccato perchè, vista la qualità della proposta, il gruppo siculo avrebbe meritato miglior sorte. E’ un prog death quello propinato dalla band di Lascari, tecnico sì ma adeguatamente modellato su linee melodiche dai tratti arabeggianti, alleggerendo così l’impeto generale.
Daniele Russo a scandire le liriche in tonalità che strizzano leggermente l’orecchio alla rocaggine di zio Phil Anselmo, Andrea Lagana ad imbastire le trame arzigogolate tramite una otto corde artigianale, realizzata dallo stesso Russo: mezz’ora a disposizione, giocata sul continuo cambio di ritmo, rimanendo in equilibrio tra passaggi più vorticosi, senza comunque mai pigiare troppo sull’acceleratore, e stacchi più virtuosi, dando così la possibilità a Lagana di dare sfoggio delle proprie abilità.
Tra gli altri, spiccano gli ultimi due brani proposti, “Karon Dimonio” e “Oblivion”, in cui la componente melodica si è fa largo con prepotenza, ammorbidendo l’incedere sovrano della sezione ritmica. Premiati giustamente dal pubblico, nel mentre in leggero aumento, i Karon hanno degnamente sollevato il sipario del Druso, oggi dalle tinte più estreme.
Cambio di palco rapido, giusto il tempo per prendere una boccata di aria fresca nella zona esterna del locale, risciacquarsi le fauci, ed è la volta degli ASHEN FIELDS. Storie tetre, quelle raccontate dal giovane gruppo di Genova, devoto ad un death metal melodico, dai forti rimandi alla matrice svedese, con il cantante Julio Rossanigo a destreggiarsi tra i classici growl e vocalizzi più puliti.
La performance dei nostri si concentra sull’album di recente pubblicazione, “So Haggard and So Woe-Begone”, tuttavia un alone di incertezza serpeggia tra un brano e l’altro, abbassando di conseguenza il mood della serata. I volumi non perfetti (sarà l’unico caso, per la cronaca) non hanno certamente aiutato la prestazione dei cinque interpreti, i quali sono sembrati in taluni casi un po’ indecisi sul da farsi.
L’impatto uditivo è fortunatamente migliorato nel corso del show, e con esso anche il rendimento della band ligure, arrivando a marcare il risultato finale grazie a pezzi convincenti come “Seen the Wolf” e “The Darkness That I Command”.
Ashen Fields dal doppio volto quindi: sicuramente meglio nella seconda parte, a fronte di una prima metà poco coesa e coinvolgente.
Nella pausa, diamo uno sguardo alla zona merch dove abbiamo trovato, oltre alle t-shirt celebrative del tour, anche l’ultimo lavoro partorito in casa Onslaught, quel “Origins Of Aggression” che va a ripassare la carriera della band inglese, focalizzandosi principalmente sui primi tre album rilasciati.
Tempo anche per una rapida sosta luppolosa ed ecco apparire il leggio dei DARKHOLD.
Esperienza sui palchi quanto basta, una buona dose di old-school, heavy/groove e via andare: questa la ricetta dei lombardi, i quali non impiegano molto tempo per acchiappare l’hype della folla, ora giunta ad una dimensione quantomeno dignitosa.
A vestire i panni del cerimoniere di questa liturgia sudorifera ci ha pensato Claudio Facheris, bergamasco doc, il cui tono di voce si è particolarmente schiarito in questa nuova avventura rispetto al suo storico growl alla Chuck Billy.
E’ “String On Me” ad aprire i battenti, mettendo subito in chiaro le intenzioni della band: zero pause e assalto continuo. “Stasera, se non lo sapete, vi beccate due band della madonna….per cui siate selvaggi” ha annunciato lo stesso Facheris introducendo un’altra mina dalla presa immediata, “Savage”. I riff distribuiti in modalità trivellatrice alzano la temperatura del Druso, sostenuti dal poderoso lavoro dietro le pelli da parte di Jacopo Casadio, per un set breve ma intenso, con tanto di accenno di pogo a centro pit: da questo punto di vista, “Howlings” è arrivata a puntino, per ispessire ulteriormente il tasso di groove.
Il tempo stringe e, dopo aver annunciato il ‘funerale’ dei propri capelli, Facheris e compagni salutano i presenti con l’ultima “Hypnotized By Evil”.
Poco prima dell’esibizione dei Darkhold, avevamo intercettato i CRYPTOSIS intenti a recuperare dal proprio furgone il vestiario di scena, imbattendoci inoltre in uno stanchissimo Frank te Riet (bassista e autista della band) reduce dal viaggio che li aveva portati a Bergamo da Digione, in terra francese, dove si erano esibiti il giorno precedente.
Eravamo curiosi di rivedere la band olandese in azione, dopo l’appuntamento dello scorso anno in quel di Ambria; in quell’occasione l’intero set era stato dedicato a “Bionic Swarm”, album d’esordio rilasciato nel 2021, mentre qui al Druso l’occasione è propizia per ascoltare qualche brano tratto dal nuovo “Celestial Death”.
In sintesi, i Cryptosis hanno semplicemente confermato le buonissime impressioni di dodici mesi fa – anzi, le hanno ampiamente migliorate: autentiche macchine chirurgiche, comandati dal batterista Marco Prij, i tre di Enschede hanno catturato sguardi ed orecchie del pubblico grazie ad una prestazione maiuscola.
Tecnica e attitudine accompagnano l’intera esibizione suddivisa, come c’era da aspettarselo, tra vecchi e nuovi brani. Sono dunque le note introduttive di “Celestial Death” ad accendere la miccia, precedendo la successiva esplosione a firma di “Faceless Matter”, seguita a ruota da altri due pezzi presi dall’ultimo lavoro in studio; prima “Static Horizon”, poi “The Silent Call”, hanno quindi sentenziato come dal vivo le nuove canzoni acquistino ancora più mordente. ‘Trascinante’ – ci sembra l’aggettivo più azzeccato – è la prova del leader Laurens Houvast, con tanto di abito da sera, intento a dare libero sfogo alla propria chitarra, tirando dritto lungo i ritmi forsennati tenuti da Frank e Marco.
Un prog thrash vivace e violento trancia l’aria con episodi come “Death Technology” e “Cryptosphere”, durante la quale le prime file, fino a quel momento non così attive, cominciano a macinare moshpit in serie. E dopo aver sciorinato quelle due/tre esclamazioni italiane conosciute in tutto il mondo, “Decypher” e “Transcendence” tirano una riga sopra uno show a dir poco eccellente.
Eccellenza, chirurgia, precisione: questi i giusti appellativi per definire quanto appena visto. Bene, cancellate tutto e sostituitelo con questo semplice concetto: ettolitri di sana euforia al servizio del thrash metal più grezzo e ignorante – nel senso buono del termine, sia chiaro.
La valanga sonora messa in piedi dagli ONSLAUGHT è ai limiti della semplicità: saliamo sul palco, spacchiamo tutto, salutiamo e ce ne andiamo.
E così è stato, nonostante tutto. Anche questa volta, infatti, il gruppo britannico ha dovuto fare i conti con gli annosi problemi di line-up, da tempo immemore loro marchio di fabbrica.
Se da una parte, abbiamo quindi accolto con enorme piacere il rientro in formazione di Nige Rockett, dall’altra abbiamo dovuto prendere atto di due defezioni avvenute nell’arco di pochissimo tempo: a metà maggio il chitarrista Wayne Dorman ha lasciato la band dopo otto anni; e, tre giorni prima della partenza del tour, anche il cantante David Garnett ha dovuto alzare bandiera bianca.
E se Dorman è stato sostituito da Lew Berl, il cantante degli iberici Dark Embrace, Oscar Rilo, è stato assoldato all’ultimo secondo per dar voce ai grandi classici del gruppo e agli otto brani estratti dal dinamitardo “Power From Hell”, vecchio di quarant’anni ma sempre attuale grazie alla sua scarica hardcore, elemento preponderante di un album dove la componente thrash era ancora in una sorta di fase embrionale. Giustificate quindi, visto il poco tempo a disposizione per memorizzare le varie canzoni, le occhiate che lo stesso Rilo ha saltuariamente lanciato verso una specie di gobbo appiccicato sulla cassa, così da avere sotto mano i testi.
Headbanging in serie, air guitar e pogo a volontà: questi i tre comandamenti che si sono sprigionati per tutta la durata del concerto. Ci posizioniamo sul lato destro del palco, proprio di fronte al leader Rockett, di ritorno come detto on stage dopo tre anni di stop a causa di seri problemi fisici che lo hanno costretto, tra le altre cose, ad una doppia operazione alla colonna vertebrale. Un intervento, come confidatoci dallo stesso Nige al termine della serata, che ha lasciato degli strascichi sul piano della mobilità, parlando in definitiva di un 75% delle forze recuperate dopo che, praticamente per un anno, aveva perso l’uso delle braccia: rivederlo in azione, pur con le sue limitazioni, ha di fatto donato un’ulteriore dose di carica ed entusiasmo allo show.
Terminate le celebrazioni del disco primogenito, gli Onslaught proseguono a martellare lanciando sotto il palco la letale “Let There Be Death” e le più ‘recenti’ “Destroyer Of Worlds” e “Killing Peace”, per la quale è salito sul palco il Facheris dei Darkhold ad accompagnare Rilo nello “spitting blood in the face of God!“.
Mancano giusto due pezzi al termine: il primo è stato dedicato ad un metallaro con indosso una maglietta raffigurante un noto warpig, anticipando l’entrata in scena del basso di Jeff Williams e l’attacco immortale di “Iron Fist” dei Motörhead; il secondo, con l’intento di dare la risolutiva spallata all’intera platea, è stato – manco a dirlo – “Metal Forces”, chiudendo così un mercoledì sera che avrebbe meritato una risposta più ampia di pubblico ma che, per chi ha presenziato, ha dato parecchia soddisfazione.
Setlist:
Onslaught (Power From Hell)
Thermonuclear Devastation
Lord of Evil
Death Metal
Angels of Death
The Devil’s Legion
Steel Meets Steel
Witch Hunt
Destroyer of Worlds
Let There Be Death
Killing Peace
Iron Fist (Motörhead cover)
Metal Forces