AMPLIFIER
Buona prova, quella fornita da Sel Balamir, Neil Mahony e Matt Brobin, i tre Amplifier. Forti di un buon disco uscito da poco, “Insider”, recentemente transitato fra gli Hot Album di queste stesse pagine web, la band britannica ha avuto poco più di mezz’oretta a disposizione per presentare la sua proposta, un prog-rock psichedelico e slabbrato, allungato da concessioni al credo Sabbathiano e da un’attitudine tra lo sludge e lo stoner, quest’ultima donante al gruppo un bel sapore desertico e fumoso. I suoni, partiti un po’ in stato confusionale, sono andati crescendo nel corso dell’esibizione, trasformandosi da impastati a pastosi, densi ed ipnotici. I pezzi, tutti di medio-lunga durata, non hanno certo spaventato il pubblico degli Opeth, abituato ad ascoltare ben altri monumenti sonori: ottimo il groove, soprattutto quando gli Amplifier si sono lasciati andare in prolungati ed ondeggianti rituali, tramite un riffing corposo e trascinante. Applausi non esagerati – ma comunque applausi! – hanno accompagnato la conclusione dell’esibizione, facendo salire rapida la febbre d’attesa per gli osannati headliner…
OPETH
Alla terza esibizione nel giro di un anno, dagli Opeth forse ci si aspettava qualche sorpresa in più, soprattutto a livello di setlist: è chiaramente molto difficile per la band svedese scegliere la scaletta dei propri concerti, in quanto, in ben due ore di esibizione (!!), le canzoni proposte sono state solo nove; da qui, la necessità quasi obbligata, per Akerfeldt, Lindgren e compari, di pescare sempre i brani da un lotto composto da quindici-sedici composizioni, da alternare più o meno regolarmente. Questa volta è toccato presenziare, in ordine sparso, a “Face Of Melinda” da “Still Life”, “When” da “My Arms, Your Hearse”, “Bleak” e “Blackwater Park” da “Blackwater Park”, “The Night And The Silent Water” da “Morningrise”, a rappresentare il passato più primordiale del gruppo, “Deliverance” (il classico bis) e “Windowpane” per l’accoppiata “Deliverance”/”Damnation”, ed infine le obbligate “Ghost Of Perdition” e “The Grand Conjuration”, a rendere omaggio all’ormai glorificato “Ghost Reveries”. Forse – soprattutto per gli estimatori di vecchissima data – sarebbe stato bello riproporre almeno un altro paio di brani più longevi, trascurando magari una canzone decisamente pesante e poco adatta alla presa live qual è “Blackwater Park”. Ma lungi da noi criticare troppo gli Opeth, la cui non accessibilità per tutti dal vivo è ormai assoldata: certo è che la band rende dieci volte tanto al chiuso di un locale, rispetto alla cornice spensierata e caciarona di un festival open-air. Prestazione comunque meritoria, tirando le somme di ciò che conta, per tutti e cinque i componenti, con un Mikael Akerfeldt sempre più a suo agio nel ruolo di comico surreale e ‘very british’; i siparietti che ogni tanto tira fuori – ad esempio, quello di far fare headbanging al pubblico senza musica, oppure la breve schitarrata punk improvvisata per festeggiare il compleanno di uno storico roadie – sono molto divertenti nella loro stupidità. Il movimento on stage, come al solito, è stato minimo, se si esclude una sortita di Lindgren dal lato opposto del palco e due passi del frontman davanti al microfono, mosse talmente imprevedibili che hanno causato – a quanto dicono gli esperti – un paio di incidenti sulla Milano-Venezia transitante appena fuori il capannone del locale. A parte la classica ‘cacofonia da primo brano’, i suoni sono parsi accettabili e la voce di Akerfeldt discretamente in palla; per il resto, uno show fisicamente e psicologicamente sfiancante, ma che non ha scalfito di una virgola il successo che gli Opeth godono qui da noi, del resto ampiamente meritato e conquistato. E ora attendiamo il nuovo album…