THE OCEAN
E appunto: a causa dell’anticipato inizio dei tedeschi The Ocean, arriviamo alla venue giusto in tempo per assistere agli ultimi due brani dell’ottimo collettivo post-core. Esibitisi in veste di quintetto, senza telone rappresentativo ma con due pannelli laterali come segnale di riconoscimento, i ragazzi sembra proprio abbiano fornito una prestazione più che notevole, sciorinando tutta la loro fluttuante potenza in una mezzora breve ma intensa. Suoni vibranti e già perfetti hanno dimostrato ancora una volta come l’acustica dei palazzetti sia poco influente sul risultato sonoro finale di una resa live; conta molto di più la bravura e l’orecchio di tecnici e fonici. Ed in effetti ci tocca affermare che poche volte abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare così nitidamente un gruppo d’apertura. “The City In The Sea” dal penultimo “Aeolian” ha chiuso uno spettacolo che rimpiangiamo amaramente di esserci persi per almeno il 50%. Ci rifaremo alla prossima calata, promesso! Band superlativa e da seguire a prescindere.
CYNIC
Ed eccoci ai Cynic, anche loro sicuramente attesissimi da un nutrito manipolo di fan che – a dirla tutta – avrebbe preferito vederli suonare da headliner o, perlomeno, per il doppio del tempo. Solo quarantacinque minuti per gli storici prog-deathsters, durante i quali Masvidal, Reinert, Malone ed il nuovo acquisto Kruidenier hanno letteralmente rapito l’audience tramite i loro arzigogolati brani, eseguiti in maniera perfetta, con una precisione, una semplicità ed un’umiltà da lasciare sbalorditi. Introdotta da “Nunc Fluens”, “The Space For This” ha aperto le danze, chiarendo subito a tutti che i Cynic sono tutt’oggi un gruppo con i controfiocchi. Il pulito dell’affabile Paul Masvidal ed il growl di Tymon Kruidenier si sono incrociati con buoni risultati, ovviamente sovrastati però dalla performance agli strumenti, baciata anche da suoni praticamente perfetti, forse solo un po’ sacrificanti la durezza delle chitarre; Sean Reinert, con il suo drumkit posizionato tutto di lato, e Sean Malone formano una coppia ritmica che semplicemente chiunque può invidiare. Pochi pezzi dal masterpiece “Focus”, praticamente doppiati da quelli tratti dal nuovo “Traced In Air”: segno evidente che i ragazzi contano molto sul presente, nel tentativo forse di non farsi schiacciare dal loro leggendario passato. “Veil Of Maya”, “Celestial Voyage” e “How Could I” (dedicata fra l’altro a Trevor dei Sadist, presente nel pit) hanno soddisfatto a metà la sete di “Focus” dei tanti presenti accorsi all’Alcatraz solo per vedere i Cynic, magari un po’ stufi di sorbirsi di nuovo gli Opeth, ultimamente un po’ inflazionati nella Penisola. Una band, quella americana, che sembra quindi davvero rinata, forte della giusta esperienza e della grande passione che possono davvero contribuire a creare un ritorno di fiamma in piena regola. Giusto per non aspettare altri quindici anni…
OPETH
Accolti tra l’entusiasmo generale di un Alcatraz gremito, seppur nella versione dimezzata del locale, gli Opeth, dopo una breve introduzione musicale che li accompagna sul palco fra i boati della gente, attaccano con “Heir Apparent”, tratta dall’ultimo gioiellino della band, quel “Watershed” che dovrebbe rappresentare il motivo portante della serata. La band scandinava dimostra sin dalle prime note una forma smagliante che durerà per l’intera esibizione, nonché una compattezza invidiabile considerando l’ingresso relativamente recente di Martin Axenrot alla batteria e soprattutto quello di Fredrik Akesson alla chitarra. Il secondo brano proposto nella gelida serata milanese è una poderosa versione di “The Grand Conjuration”, il cui indiscutibile appeal scatena un ‘gran movimento’ (stiamo pur sempre parlando degli Opeth e non degli Slayer) sotto il palco. Applausi a scena aperta, in particolare dalle mani degli affezionati di vecchia data, per una splendida esecuzione di “Godhead’s Lament”, perla dell’indimenticato “Still Life”, mentre la successiva “The Lotus Eater” si conferma anche in sede live come uno dei pezzi più avvincenti dell’ultimo già citato album. A questo punto un loquace Akerfeldt concede momenti di grande suggestione emotiva nell’esecuzione dell’ammaliante “Hope Leaves”, prima di ripartire di gran carriera con una “Deliverance” che non lascia scampo nel celebratissimo finale sincopato. Prima della pausa c’è tempo per un classico della band come “Demon Of The Fall”, definito dallo stesso leader la “Iron Maiden” o la “Seek And Destroy” degli Opeth, tanto per capirci. Dopo le consuete suppliche del pubblico, il quintetto originario di Stoccolma ritorna in scena per eseguire però un solo bis: si tratta della bellissima “The Drapery Falls”, divenuta anch’essa classico della band a furor di popolo. Gli Opeth ringraziano e dopo un’ora e mezza circa di spettacolo salutano la partecipe cornice milanese. Forse ci si poteva aspettare uno o due brani in più nella setlist, ma tutto sommato non ci si può proprio lamentare alla luce di una performance tanto calda e precisa da parte di tutta la band. L’ottima resa sonora ed un Akerfeldt sempre più a suo agio e simpatico nel ruolo di frontman (si è anche concesso uno spassoso siparietto con battute a sfondo sessuale con tanto di citazione per Rocco Siffredi) sono stati il valore aggiunto di una prova scintillante.