Introduzione a cura di Matteo Cereda
Report a cura di Marco Gallarati e Matteo Cereda
Foto a cura di Francesco Castaldo
Grande attesa e sold-out giustificato all’Alcatraz milanese per la tappa italiana degli Opeth, reduci da una svolta ancor più progressiva con l’ultimo disco “Heritage”, che non ha mancato di dividere fan e critica. Saggiare le nuove composizioni dal vivo resta la nota più intrigante della serata, anche se, dando uno sguardo al pubblico in sala, non mancano gli irriducibili che sperano in una scaletta zeppa di classici e sorprese dal passato. I Pain Of Salvation rappresentano invece la classica ciliegina sulla torta in una serata che si preannuncia tra le più interessanti dell’intera stagione in ambito progressive metal/rock.
PAIN OF SALVATION
Con leggero anticipo sulla tabella di marcia, entrano in scena i Pain Of Salvation sulle note di “Road Salt Theme”, intro registrato dell’ultimo “Road Salt Two”, subito incalzato dall’opener “Softly She Cries”. La coreografia evidenzia egocentriche immagini del leader Daniel Gildenlow ad affiancare un primo piano di Audrey Hepburn al centro del palco. La band svedese appare concentrata e molto compatta, nonostante siano certi a fine tour gli addii del tastierista Fredrik Hermansson e del chitarrista Johan Hellgren. Proprio quest’ultimo si dimostra come sempre carismatico dal punto di vista prettamente visivo e sarà elemento di difficilissima sostituzione, dal momento che doppia costantemente le linee vocali tessute dal leader Gildenlow. Il nuovo bassista Daniel Karlsson si rivela perfettamente integrato nel contesto, così come piace la performance del batterista di origine francese Lèo Margarit, autore di una prova impeccabile dietro le pelli e anch’esso protagonista di alcune parti corali, vero punto di forza di questa band. Lo spettacolo prosegue alternando classici del calibro di “Ashes” e “Diffidentia” a pezzi di estrazione recente quali “Conditioned” e “1979”. La nuova vena ’70 che ha colpito la band da qualche anno a questa parte dal vivo si fa apprezzare grazie ad un groove notevole che, condito da un sound potente, conferisce un impatto maggiore rispetto a quello riscontrato con la produzione volutamente vintage degli ultimi due dischi in studio. Dopo tre quarti d’ora di ottima fattura, i Pain Of Salvation salutano il pubblico con “No Way”: le imminenti partenze dei succitati tastierista e chitarrista lasciano più di un dubbio, qualche rammarico e un po’ di tristezza, ma gli Opeth attendono e non c’è tempo per i cattivi pensieri.
(Matteo Cereda)
OPETH
Il concerto degli Opeth, per chi scrive, è obiettivamente il più difficile da reportare di questo 2011. Abbiamo aspettato qualche giorno nel redigerlo, volontariamente, in quanto i pareri raccolti durante e dopo la performance della band svedese in quel dell’Alcatraz – peraltro sì sold-out, ma non troppo – sono stati vari e contrastanti. E quindi, restando questo articolo un parere personale prima di tutto, ci piace dividere il racconto in due parti: la musica in sé e l’intrattenimento di contorno. Come si sa, Mikael Akerfeldt e compagni hanno decisamente virato verso i Seventies con l’ultimo “Heritage”, e l’unica questione ancora pendente era constatare coi propri occhi e le proprie orecchie se l’abbraccio alle sonorità progressive-rock fosse completo anche on stage. Ebbene…la risposta è sì. Abbiamo assistito infatti ad un buon concerto di rock progressivo, con una scaletta studiata ad hoc per far sì che neanche un accenno di voce growl fosse udibile e che le ritmiche e i rumori di un generico appuntamento metal venissero smorzati e ovattati dal più pacato e tranquillizzante approccio che permea anche “Heritage”. Gli Opeth, sebbene forse non ancora completamente e certamente senza poter usufruire dello spessore artistico dei gruppi storici del genere, possiedono un discreto spirito interpretativo e un appeal progressivo che può crescere col tempo e portare su livelli migliori il già buon risultato fin qui ottenuto. La proposizione dei brani è stata positiva, senza grosse sbavature e con suoni giusti: hanno spiccato i pezzi del recente passato – come ad esempio “Porcelain Heart”, “A Fair Judgement” oppure “Hex Omega” – mentre le nuove canzoni hanno avuto accoglienze alterne, ottime l’iniziale “The Devil’s Orchard” e “Slither”, il tributo scritto in ricordo di Ronnie James Dio, mentre più tiepida è corsa via la jazzata “Nepenthe”. Discorso a parte per “Folklore”, invece, che è stato l’unico bis messo in campo, giunto ormai quando anche il pubblico più attento aveva con tutta probabilità una gran voglia di tornare a casa. Sì, perché è qui che entra in ballo il fattore intrattenimento di contorno: alcune scelte, peraltro implicite al modo di porsi degli Opeth e di Akerfeldt soprattutto, sono infatti risultate troppo stucchevoli e rutilanti, in una parola noiose. I siparietti dall’umorismo surreale e british del leader Opethiano; il prolungato solo di batteria di Martin Axenrot, che ha diviso in due “Porcelain Heart” (qui però lasciateci spezzare una lancia in favore della band, rimasta per tutto il tempo nell’ombra del palco non illuminato per gustarsi l’assolo, a differenza della maggior parte dei colleghi, che spariscono dietro le quinte a rinfrescarsi; questo è stile); il pesantissimo rientro sul palco, dopo la pausa, con Akerfeldt e il nuovo tastierista Joakim Svalberg – peraltro eccezionale! – impegnati a mostrare tutto il campionario di tastiere, organini e organetti recuperati dai Seventies per più di dieci minuti: ecco, questi sbrodolamenti eccessivi hanno tediato alquanto il naturale e fluido proseguimento di uno show più che accettabile, in parte rovinato – questo bisogna dirlo – anche dalla poca preparazione dell’audience in prevalenza metallara ad una performance così soffusa. Battimani nei momenti più impensati, continuo e disinteressato chiacchiericcio di fondo sulle sezioni più acustiche e d’atmosfera, un’incapacità diffusa di sostenere in silenzio anche solo una manciata di minuti di musica (la spettacolare “Credence”, ad esempio). Per cui, sommando queste ponderate considerazioni, ci verrebbe da concludere dicendo che gli Opeth sono arrivati ad un gravoso e pericoloso bivio, non solo in studio. Non scommettiamo di certo, infatti, che al prossimo giro siano in grado di fare sold-out.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Intro (Through Pain To Heaven – Popol Vuh)
The Devil’s Orchard
I Feel The Dark
Face Of Melinda
Porcelain Heart (con assolo di batteria)
Nepenthe
The Throat Of Winter
Credence
Closure
Slither
A Fair Judgement
Hex Omega
Encore:
Folklore