Report a cura di Carlo Paleari
Molti aspettavano al varco gli Opeth in sede live, dopo la pubblicazione dell’ennesimo album controverso, che ha diviso la platea metallica tra coloro che sognano ancora un ritorno alla musica estrema e chi, invece, ha accettato e anche apprezzato il nuovo corso intrapreso dalla band svedese. A maggior ragione dopo le affermazioni rilasciate proprio ai microfoni di Metalitalia.com, in cui Mikael Åkerfeldt ammetteva candidamente di essere abbastanza annoiato all’idea di suonare i vecchi pezzi e di apprezzarli solo per l’energia riflessa dal pubblico durante l’esecuzione di questi cavalli da battaglia. C’era quindi la curiosità di vedere come tutto ciò si sarebbe tradotto nel nuovo tour che, con queste premesse, avrebbe potuto sancire il totale e definitivo distacco col passato della band. Fortunatamente non è stato così e gli Opeth hanno regalato al nutrito pubblico dell’Alcatraz una serata memorabile, con una scaletta ai limiti della perfezione, bilanciata al meglio tra passato e presente. A rendere ancora più appetibile il tutto, i norvegesi Sahg, forti di un ottimo album e autori di una performance di alto livello.
SAHG
Sulle note di “(Praise The) Electric Sun” salgono sul palco i Sahg, che aprono le danze con “Hollow Mountain” scaldando l’atmosfera nel locale milanese. Il quartetto, che ha lentamente superato le sue origini stoner, ci ha regalato quest’anno un lavoro estremamante interessante, e anche sul palco la band si rivela compatta e potente. La sezione ritmica non perde un colpo e la coppia di chitarristi macina riff senza sosta, con Olav Iversen a guidare il tutto con la sua voce potente. Ampio spazio viene ovviamente lasciato al nuovo “Memento Mori”, da cui vengono tratte “Sanctimony”, “Black Unicorn” e la conclusiva “Blood Of Oceans”, e il pubblico segue con entusiasmo la prova del gruppo, nonostante il suono un po’ impastato che penalizza leggermente la performance. Uno dei momenti più coinvolgenti è senza dubbio l’esecuzione della vecchia “Pyromancer”, che conferma ulteriormente le doti del gruppo anche in sede live e soddisfa tutti i presenti. Al termine del set di una quarantina di minuti, il gruppo si congeda tra gli applausi e sicuramente più di un ascoltatore ha lasciato il locale al termine della serata con in mano il CD dei Sahg e il desiderio di rivederli, magari come attrazione principale.
OPETH
Calano le luci e finalmente tocca agli Opeth salire sul palco, con Joakim Svalberg e Martin Méndez ad introdurre la title-track del nuovo album, per poi lasciare spazio a Martin Axenrot, Fredrik Åkesson e naturalmente a ‘lui’, Mikael Åkerfeldt. I suoni sono ineccepibili e la canzone, non c’è che dire, funziona benissimo dal vivo, con il suo riff potente e profondo. Il palco è ricco, con un ottimo impianto luci e una serie di schermi quadrati che saranno la componente scenografica portante dell’intero show. Al termine del brano, il cantante comunica al pubblico che la serata percorrerà quasi tutta la carriera, ormai venticinquennale, del gruppo e coloro che temevano un concerto sottotono o troppo leggero vengono immediatamente smentiti dall’esecuzione di “Ghost Of Perdition”, seguita subito dopo dalla leggendaria “Demon Of The Fall”. Il pubblico è chiaramente in visibilio e la band procede spedita senza sbagliare una nota: si vede che la serata è buona, i musicisti sono in forma e quando arriva il secondo estratto da “Sorceress”, “The Wilde Flowers”, gli Opeth si concedono di dargli un’accelerata ulteriore, per allinearlo al mood energico della serata. Åkerfeldt, come al solito, non ci risparmia il suo umorismo inglese, citando l’onnipresente Eros Ramazzotti tra le ispirazioni del nuovo album, assieme a band come Museo Rosenbach, Il Paese Dei Balocchi e Goblin. Il concerto continua ad evolversi ed appare evidente come il gruppo sia riuscito, nella scelta delle canzoni, a creare una scaletta estremamente variegata, che abbraccia quasi tutta la propria carriera, ma allo stesso tempo coerente con sé stessa. “Still Life” viene omaggiato con l’eccelsa “Face Of Melinda”; da “Damnation”, primo tassello della futura evoluzione progressive, viene proposta la commovente “In My Time Of Need”; mentre “The Drapery Falls” sconquassa tutti i presenti, riportandoci a quel “Blackwater Park” che tanto ha significato per la formazione svedese. Curiosamente, il presente dei Nostri, composto dalla trilogia progressive, rimane sullo sfondo, appena accennato: con l’esclusione dei due, doverosi, brani estratti da “Sorceress”, l’unica altra concessione è “Cusp Of Eternity”, dal penultimo “Pale Communion”, mentre il finale è ancora un pugno nello stomaco con la maestosa “Heir Apparent” e “The Grand Conjuration”. Arriva così il momento di abbandonare il palco, prima del classico bis, quella “Deliverance” che chiude tra gli applausi un concerto che, ne siamo sicuri, non ha scontentato davvero nessuno. Certo, a voler essere proprio puntigliosi, un estratto da “Morningrise” l’avremmo ascoltato volentieri, ma abbiamo assistito ad uno show praticamente ineccepibile e, con composizioni così lunghe, è comprensibile dover fare delle scelte. Al riaccendersi delle luci, dopo aver tributato la giusta ovazione alla band, un piccolo manipolo di redattori di Metalitalia.com si ritrova a tirare le somme di quanto visto in questa serata e il giudizio è unanime: uno dei migliori concerti degli Opeth sul suolo italico. Punto.