Report di Alessandro Bettiol
Foto di Benedetta Gaiani
Il tour degli Opeth in cui portano sulle scene “In Cauda Venenum” dopo molti rinvii giunge al termine proprio in Italia e l’ambientazione è fra le più suggestive: il teatro romano di Ostia Antica. Viste sulla carta, le date al teatro degli Arcimboldi a Milano e questa avevano fatto storcere il naso a molti spettatori più intransigenti, in quanto era quasi un paradosso l’idea di un concerto metal seduti a teatro (peraltro opzione da molti artisti sdoganata nel periodo post-lockdown). Fatto sta che la buona affluenza di pubblico sembrerebbe aver superato l’iniziale diffidenza e, non solo la data quasi del tutto esaurita a Milano, ma anche all’ingresso del sito archeologico fuori Roma sono molte le persone felici di essere presenti a questo ritrovo. Percorsi a piedi i quasi due chilometri che portano al teatro, il colpo d’occhio è veramente d’impatto: immersi tra vestigia romane, il telo nero con il logo degli Opeth fa da fronte scenico con pini marittimi a vegliare sugli astanti, un’ottantina di sedie occupano l’orchestra (o platea) e il resto dei posti liberi è quello della cavea (o gradinate). Guardandosi attorno, è bello vedere come l’età del pubblico attraversi trasversalmente il periodo 20-60 anni, con qualcuno che probabilmente sarà stato presente alla prima apparizione sul suolo italico di Mikael Åkerfeldt nel lontano 1996 e chi invece o non era ancora nato o ha scelto di venire a vedere questa data del tour per poter ascoltare principalmente il gruppo spalla, quei giovani The Vintage Caravan che per la seconda volta affiancano gli svedesi. Ma andiamo con ordine e vediamo come sono andate le prove dei due gruppi.
THE VINTAGE CARAVAN
Con un cielo minaccioso e un’allerta meteo che incombe sull’area dell’Urbe, puntuali alle 19.45 salgono sul palco i tre ragazzi islandesi, che tra i vari rimandi del tour hanno fatto uscire nel 2021 “Monuments” e questa sera scelgono di iniziare proprio dall’opener “Whispers”. Con una platea quasi vuota e le gradinate piene per metà, il trio non si risparmia e anzi dà sfoggio di ottime capacità tecniche, visto che con chitarra-basso-batteria sviluppano una tale forza d’urto da non lasciare nessun presente insensibile. Con i loro suoni psichedelici e settantiani, il trio dà l’impressione di aver consumato letteralmente i vinili di gruppi storici come Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, per poi fare propria quell’attitudine di usare riverberi e assoli. Infatti, nelle successive canzoni, prendendo sia dall’ultimo album uscito “Crystallized” sia dal precedente “Gateways” con “Reflections”, riempiono via via l’aria di vibrazioni e scariche elettriche. Dopo tre brani a tutta, prende la parola il bassista Alexander Örn Númason ringraziando i presenti e rivolgendo parole di amore verso l’Italia, prima di presentare il pezzo successivo, “Innerverse”, con un salto indietro nel tempo a quel “Arrival” del 2015 che tanto aveva colpito il panorama hard rock. Il pubblico apprezza e si fa guidare nel tenere il tempo fino agli assoli finali di Óskar Logi Ágústsson, istrionico non solo alle sei corde ma anche dietro il microfono. Si ritorna poi all’ultimo uscito con la carica di “Forgotten”, dove il ritmo si fa più serrato e tutti e tre partecipano ai cori, e con “On The Run”, cantata da buona parte del pubblico. Ci si avvia verso la parte finale dello show dei The Vintage Caravan con il solo alla batteria di Stefán Ari Stefánsson che anticipa poi “Expand Your Mind” dal debutto del 2014 “Voyage” e “Set Your Sights” invece tratto da “Gateways”. Finisce così un’ottima prova del trio islandese, che ha saputo in quarantacinque minuti condensare tutta la loro creatività che deve tanto alle storiche band progressive e hard rock anni Settanta e ha portato all’ovazione del pubblico, in piedi per applaudire tanta genuina carica.
OPETH
Il meteo continua ad essere incerto sopra Ostia, ma questo non ferma assolutamente la gente, che ha continuato ad arrivare durante la conclusione della prima parte dello spettacolo e che, a pochi minuti dalle 21, riempie tutta la platea e quasi l’intera gradinata del teatro romano. Il vento, costante per tutta la serata, porta con sé le note registrate di “Seven Bowls” degli Aphrodite’s Child, con cui fanno ingresso sul palco i cinque acclamati musicisti. Gli Opeth vogliono subito mettere in chiaro che sono carichi, vuoi per l’unicità della location, vuoi perché con l’Italia c’è sempre stato un filo diretto e preferenziale (dato il grande ritorno del pubblico ad ogni data). La partenza con “Demon Of The Fall” ci presenta Mikael Åkerfeldt in ottima forma, con il suo potente growl, con il suo impeccabile stile e il suo cappello che dovrà appoggiare quasi subito perché non gli voli via. Risolto un piccolo problema alla chitarra, comincia quello che sarà un punto forza di tutta la serata: Mikael comincia una serie di divertenti siparietti in cui dialoga con il pubblico, ricordando che l’Italia ama gli Opeth e gli Opeth amano l’Italia, fin dalla loro prima volta nel 1996. Ai primi titoli urlati dai molti fan, risponde che è troppo presto per le richieste e che, tra i fumi sul palco e i mulinelli sviluppati dal vento, sembra quasi che ci siano i fantasmi. Un giro di parole per presentare la successiva “Ghost Of Perdition”, dove comincia a farsi notare il nuovo entrato, il batterista Waltteri Väyrynen (Abhorrence, ex Paradise Lost, ex Bodom After Midnight) che, anche se presentato poche settimane fa, è già ben integrato e molto preciso nei cambi di ritmo e nelle pestate. Dopo un primo assaggio dal passato, arriva l’unico brano che giustifica il nome al tour, quella “Hjärtat vet vad handen gör” dall’ultimo lavoro “In Cauda Venenum” che dal vivo prende un’altra dimensione rispetto alla resa su disco. Continuano i momenti ilari con Åkerfeldt che scherza sul suo abbigliamento assicurando che non lavora in un ristorante nonostante la camicia bianca e il gilet nero. Ecco, sembra tutto così surreale, un’ambientazione teatrale, dei musicisti davvero d’impatto, un folto pubblico che ascolta seduto le devastanti partiture di “The Leper Affinity” con gli assoli di Fredrik Åkesson tenendo ognuno il tempo come meglio può, chi ondeggiando la testa o il busto, chi battendo il ritmo con le mani. Ma è tutto vero, e nonostante l’atipicità della situazione si è tutti in una bolla, suggestionati dalle nebbie delle macchine del fumo che vorticosamente avvolgono i nostri sul palco, ammaliati dai suoni che l’acustica dall’antico teatro propone senza pecche. “Reverie/Harlequin Forest” coinvolge tutti i presenti con le sue malinconiche melodie e con il suo ritmo sincopato in conclusione, tanto che finita la canzone Mikael asserisce che se si vuole si può pure ballare. Canticchiando i Queensrÿche, passa poi a “Nepenthe” tratta da “Heritage” dando libero sfogo a momenti jazz dove possiamo anche vedere il sincronismo tra il nuovo entrato Waltteri e il veterano Martin Mendez al basso. E per completare l’elogio degli strumentisti, se abbiamo sentito la sua presenza con i tappeti di tastiere, con l’introduzione e l’accompagnamento di “Hope Leaves” abbiamo la certezza che Joakim Svalberg è l’artista giusto in un gruppo come gli Opeth, con i suoi cori e i suoi arrangiamenti a volte eterei, a volte psichedelici, come nella successiva “The Devil’s Orchard” e i suoi suoni da piano Hammond. Nei suoi momenti discorsivi, il frontman afferma che deve ripassare alcune canzoni visto il prossimo tour che hanno già definito (le date del ventennale di “Blackwater Park” e altri album usciti a cavallo del 2000, che però non passerà, almeno per ora, per l’Italia) e comincia a canticchiare e a suonare “Face Of Melinda” da “Still Life” e “Harvest”. Si interrompe però dopo le prime strofe e presenta l’ultima canzone prima di quella che afferma sarà una breve uscita di scena per poi rientrare acclamati: “The Lotus Eater” da “Watershed”. Quello che aveva previsto poi puntualmente avviene, dato che dopo pochi secondi dall’uscita dal palco rientrano per quello che sarà il gran finale. “Sorceress” e soprattutto “Deliverance” fanno scatenare tutto il teatro, con il liberi tutti che porta a riempire la platea e a seguire da vicino quello che si può definire un ottimo spettacolo, con un gruppo che ha saputo modificare radicalmente il loro suono negli oltre venticinque anni di carriera ma che non tralascia nulla nella messa in opera dal vivo, accontentando gli ascoltatori storici e pure quelli che hanno apprezzato la deriva progressive. Lo show è finito, la bolla che si era creata e che ha protetto dalla pioggia il pubblico è scoppiata, la gente ritorna attraverso rovine romane alla vita di tutti i giorni, sicura di aver vissuto un momento di teatralità nel panorama metal più antinconformista.
Setlist:
Demon Of The Fall
Ghost Of Perdition
Hjärtat Vet Vad Handen Gör
The Leper Affinity
Reverie/Harlequin Forest
Nepenthe
Hope Leaves
The Devil’s Orchard
Face Of Melina/Harvest
The Lotus Eater
Sorceress
Deliverance