Introduzione a cura di Elio Ferrara Report a cura di Carlo Paleari ed Elio Ferrara Fotografie di Simona Luchini
In occasione del loro tour di promozione al nuovo album “In Cauda Venenum”, gli Opeth fanno tappa all’Alcatraz di Milano, accompagnati dai The Vintage Caravan. L’orario di inizio del concerto è stato fissato alquanto presto, alle ore 18.45, dato che tutto si dovrà concludere per le 22.00, lasciando il campo libero, essendo sabato sera, alla discoteca. La presenza di pubblico è cospicua e non ci saremmo aspettati diversamente, perchè gli Opeth sono un gruppo che ha conquistato tanti appassionati e, nonostante molti fan non abbiano gradito il loro netto cambio stilistico di qualche anno fa, non si tirano comunque indietro quando si tratta di vederli all’opera dal vivo. In effetti la band svedese, al di là di tre-quattro pezzi nuovi o comunque più recenti, continua sistematicamente a riproporre canzoni che rimandano alla propria discografia passata: potrebbe sembrare quasi contraddittorio, ma alla fine, come confermerà proprio l’entusiasmo e l’accoglienza dell’audience presente, sono quelle le canzoni che la maggior parte della gente che va ai loro concerti ama ancora ascoltare. Ecco che allora gli Opeth dal vivo riescono nell’impresa di far coesistere queste loro diverse anime, scegliendo i pezzi e arrangiandoli in maniera che tutto sembri quasi una naturale evoluzione: ad esempio i brani nuovi suonano più duri di quanto non lo siano su disco, mentre quelli più datati danno l’impressione di aver smussato in qualche misura certi passaggi più aggressivi. Come risulta palese (ma è ormai risaputo), persino negli sporadici casi in cui Åkerfeldt fa ricorso al growl, l’utilizzo che ne fa non è certo lo stesso di una decina d’anni fa, avendo ammorbidito e adattato la sua tecnica di canto in funzione del nuovo contesto. Fatta dunque questa premessa, passiamo al report del concerto.
THE VINTAGE CARAVAN
La band islandese è composta da un trio molto giovane, nonostante abbia alle spalle già diversi anni di attività, avendo iniziato praticamente da teenager. Diciamo che, come genere, un hard rock dal sapore settantiano, ci sembra tutto sommato una scelta azzeccata per quello che è lo stile attuale degli headliner (fatte salve tutte le premesse precisate nell’introduzione), ma sin da subito la nostra sensazione è che i The Vintage Caravan abbiano scelto d’indurire parecchio i suoni, tanto da sembrare in qualche frangente quasi metal. Il loro disco più recente è “Gateways”, dell’anno scorso, dal quale ripropongono subito “Reflections” e poi più avanti un altro paio di tracce, ovvero “Set Your Sights” e “On The Run”, lasciando spazio anche a canzoni tratte dai più datati “Arrival” e “Voyage”. Molto bello “Innerverse” con il suo arpeggiato iniziale e finale, scandito da un esplosivo ed infuocato intermezzo, al quale segue un pezzo articolato e particolare come “Babylon”. Il bassista chiede la partecipazione del pubblico per una party song quale “Expand Your Mind”, mentre ai saluti la band ripropone un suo classico: la zeppeliniana “Midnight Meditation”. Un’ottima esibizione, anche se, ad essere sinceri, dal vivo i The Vintage Caravan ci sono sembrati meno raffinati rispetto a quanto si possa ascoltare su disco, forse anche perchè, mantenendosi come trio, rinunciano inevitabilmente a tanti particolari e dettagli che invece riescono ad inserire in studio, puntando più sull’impatto e sulla potenza sonora.
(Elio Ferrara)
Setlist:
Reflections
Crazy Horses
Set Your Sights
Innerverse
Babylon
Expand Your Mind
On The Run
Midnight Meditation
OPETH
Sono da poco passate le 20.00 quando le note di “Livets Trädgård”, cupe e sinistre, si riversano sul pubblico assiepato dell’Alcatraz, accompagnate da un video che gradualmente va a disegnare il logo della band. I cinque musicisti fanno progressivamente il loro ingresso sul palco: Martin Axenrot al centro, su una pedana rialzata; alla sua destra le tastiere di Joakim Svalberg, mentre alla sua sinistra, solidissimo ma sempre defilato e seminascosto, l’ottimo Martin Mendez. La prima linea, invece, rimane appannaggio di Fredrik Åkesson e, ovviamente, di Mikael Åkerfeldt, che sale sul palco agghindato con un cappello a tesa larga, oggetto nel corso della serata di diverse battute da parte del frontman.
Il concerto si apre con “Sveket Prins”, dando subito un assaggio al pubblico della resa dal vivo del recente “In Cauda Venenum”: la performance dei musicisti è di altissimo livello, ma il brano forse non è perfetto per aprire il concerto e la differenza, in termini di entusiasmo, si vede immediatamente quando gli Opeth attaccano “The Leper Affinity”, che invece scatena il putiferio, riportando il pubblico ai fasti della fase più amata della band svedese. Lo spettacolo prosegue in maniera intelligente, bilanciando episodi recenti con altri provenienti dal passato: l’accostamento, grazie ad un sapiente lavoro negli arrangiamenti, non risulta mai stonato e, anzi, riesce a valorizzare gli episodi più energici come “Hjärtat Vet Vad Handen Gör”, accompagnata da proiezioni infernali di fiamme e luci rosse, che precede invece l’ombrosa umidità spettrale di “Reverie / Harlequin Forest”.
Åkerfeldt, come sempre, scherza e intrattiene con il suo umorismo tagliente, cogliendo al volo gli spunti che gli arrivano dalla platea, come quando si ritrova a domandarsi il perchè del premio Nobel alla letteratura assegnato a Bob Dylan quando al mondo ci sono testi estremamente più poetici come “You suffer… But why?” (citando il noto brano dei Napalm Death). Non mancano anche le dichiarazioni di gratitudine e affetto verso il nostro Paese, che ha dato i natali a moltissime formazioni progressive rock tanto care al frontman e che è stata una delle prime ad apprezzare la proposta degli Opeth, fin dai tempi del loro primo tour in Italia, di supporto ai Cradle Of Filth.
Tornando alla musica, invece, colpisce positivamente la scelta di qualche brano inusuale nella sezione centrale: ci riferiamo a “Nepenthe” e “Moon Above, Sun Below”, composizioni difficili, poco inclini alla dimensione live, eppure sorprendentemente efficaci. Uno dei picchi della serata, però, viene raggiunto con “Hope Leaves”, meraviglioso estratto da “Damnation”, che vede la band in forma smagliante, con un eccellente Fredrik Åkesson alla chitarra solista. Vista la lunghezza dei pezzi, il concerto si avvia lentamente verso la sua conclusione, prima con una sempre esaltante “The Lotus Eater” e successivamente con “Allting Tar Slut”: quest’ultima, in particolar modo, esce rafforzata nella sua riproposizione dal vivo, riuscendo a convincere anche chi, come il sottoscritto, non l’aveva inserita tra gli episodi meglio riusciti di “In Cauda Venenum”.
Gli Opeth si congedano tra gli applausi, ma naturalmente il concerto non è ancora finito, per la felicità dei numerosi fan accorsi. Mancano ancora un paio di episodi prima di far calare definitivamente il sipario su questa serata: per prima “Sorceress”, che sfrutta al meglio il maxischermo alle spalle della band, e dopodiché la devastante “Deliverance”, ormai un vero e proprio classico accolto dalle acclamazioni del pubblico. Forse quello a cui abbiamo assistito non sarà stato il miglior concerto degli Opeth a cui abbiamo presenziato (anche a causa di un suono non sempre all’altezza, bisogna dire), ma certamente uno spettacolo come questo rappresenta oggi il miglior compromesso possibile per una band che ha ancora tutto l’interesse nel voler abbracciare la propria carriera nella sua interezza, cercando di accontentare tanto i fan del passato quanto gli appassionati della svolta prog rock.
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