Report a cura di Simone Vavalà
È una serata di sonorità non conformi, quella che va in scena al Legend. Black metal sì, no, forse a seconda della band considerata, ma pur trattandosi di tre gruppi molto differenti tra loro, il filo conduttore della sperimentazione è ben presente.
Ovviamente il grosso del pubblico – in una venue che fa piacere vedere pressoché piena, a riprova che la fame di concerti è forte – è qui per gli Oranssi Pazuzu, il cui atteso tour è stato rimandato per quasi due anni, tuttavia la presenza è confortante anche durante le prime due esibizioni, nonostante gli astanti della serata siano prevalentemente ascrivibili al nuovo pubblico di un certo tipo di concerti ‘estremi’, e quindi poco affini all’headbanging, alle grida e all’immagine del metallaro brutto, sporco e cattivo… Ma poco male per l’abbondanza di magliette a righe, risvoltini e baffi elaborati: quello che conta è la musica, e facciamo parlare quella.
STURLE DAGSLAND
Arriviamo al Legend nell’esatto momento in cui Sturle Dagsland (e suo fratello Sjur, da sempre altra metà di questo progetto musicale) iniziano a rovesciare sul pubblico i loro deliranti brani, e inizialmente la curiosità è forte. Le loro sonorità sono quanto di più asimmetrico, sbilenco e schizoide ci si possa attendere, ed entrambi fanno il possibile per toccare i vertici della non conformità; da una parte Sjur si occupa dei sample, della batteria campionata, della chitarra usata quasi esclusivamente come fonte di rumore, e per non far mancare niente ecco spuntare ogni tanto un sax elettrico a squarciare l’atmosfera (e i timpani). Sturle ha il compito di far percorrere alla sua ugola strade inedite e strazianti, accompagna questo intento a contorcimenti e colpi autoinflitti sulla gola à la Diamanda Galas, ma purtroppo non ci troviamo di fronte a un erede della mirabile greca: la sensazione anzi è che, almeno stasera, sia piuttosto sgolato. Non aiuta, nel quadro complessivo dell’esibizione, che colpisca il set di piatti della batteria a completamento della sua postazione senza troppo senso ritmico, facendoci pensare più a una performance a caccia del ‘lo famo strano’ che a un reale costrutto musicale. Saremo sinceri: per fortuna lo slot a loro riservato è di breve durata.
DEAFKIDS
Avevamo solo ‘sfiorato’ la band brasiliana a una passata edizione del Roadburn, quindi anche in questo caso le aspettative erano forti, e per fortuna più che soddisfatte. Rispetto ai loro dischi, molto più frammentari e noise, dal vivo il terzetto riesce a dare molta concretezza al mix di atmosfera e pesantezza che lo caratterizza, con brani anche più lunghi e dilatati. Gli strumenti sembrano quasi seguire percorsi indipendenti, che tuttavia si amalgamano alla perfezione: dietro le pelli, Mariano offre instancabile ritmiche tribali, accelerazioni d-beat e momenti più lenti, dove si inseriscono a meraviglia i loop elettronici gestiti da Marcelo Dos Santos; a tratti industrial, in certo momenti quasi danzerecci, e contrapposti mirabilmente al basso di cemento armato, distorto e pesantissimo, che lo stesso Marcelo colpisce con furia.
A completare il tutto, Douglas Leal dipinge tocchi efficaci, distorti e psicotropi con la sua chitarra, oltre a offrire atmosfere strazianti e cupissime con la sua voce deformata. Psichedelia oscura e affascinante, che non a caso trattiene in sala un pubblico sempre più numeroso ed entusiasta.
ORANSSI PAZUZU
Arriva infine il piatto forte della serata, e la band di Tampere mostra subito di essere sul pezzo e combattiva. Tre postazioni di tastiere, con Ontto e Ikon ad alternarsi ovviamente tra queste e, rispettivamente, basso e batteria, mentre EviL – defilato in un angolo ma non certo in termini musicali – oltre ai tappeti elettronici integra con urla maligne le linee vocali di Jun-His, ottimo a tenere il palco con semplici pose ieratiche. Completa il quadro Korjak alla batteria, un metronomo nei brani più ritmati e metallici, bravissimo nell’allentare la tensione e dilatare i tempi nei momenti più psichedelici, che sono alla fine il vero punto di forza dell’esibizione. Ammirevole il lavoro sui brani dell’ultimo “Mestarin Kynsi”, come detto rimasto in standby a lungo dopo la pubblicazione, ma a cui il lavoro di arrangiamento live aggiunge ulteriore qualità e mood. Come su disco, ma con un’efficacia e una capacità ipnotica ancora maggiore, i pezzi degli Oranssi Pazuzu diventano suite che superano i dieci minuti, accompagnandoci in trip degni degli anni Settanta più lisergici, in cui solo gli strappi vocali, alla fine, segnano un passo più canonicamente metal. Si tratta ancora di black metal? Metal sperimentale? Rubiamo una bella definizione offerta da un’amica al concerto: ‘Grateful Dead metal’, che ci pare esprimere bene la capacità musicale e atmosferica di questi demoni venuti dalla Terra dei Mille Laghi.