Introduzione a cura di Giovanni Mascherpa
Report a cura di Simone Vavalà
Avevamo già capito con “Valonielu” e il successivo tour che gli Oranssi Pazuzu stavano svoltando da una dimensione prettamente underground a una di band paradigma di un certo modo di intendere l’estremo. Ora che abbiamo ascoltato “Värähtelijä”, possiamo affermare con convinzione che come questi ragazzi finlandesi oggi non c’è in giro quasi nessuno e che il loro ardito incrocio di black metal e psichedelia ha raggiunto nuovi confini di delirio e coraggio. In piena libertà compositiva, fregandosene di tutto e tutti, il combo capitanato dal fantasioso tastierista-manipolatore EviL si è spinto ancora più lontano nel suo processo di ricerca, sfornando quello che è forse il lavoro più arduo da comprendere della sua discografia, ma anche quello alla lunga destinato a ergersi quale pietra miliare per un intero movimento. Sulle ali quindi di un quarto full-length che, nel bene e nel male, sta facendo discutere parecchio gli appassionati dell’estremo, fra chi definisce gli Oranssi Pazuzu nuovi geni rivoluzionari e chi li bolla di vanagloria e pretenziosità, i timidi nordici si sono avventurati in un nuovo tour europeo. La prima delle tre date italiane previste (quella di Torino salterà poi all’ultimo momento, causa problemi influenzali di alcuni membri della band) va in scena al Lo-Fi, posto ideale per chi si nutre di suoni ‘space’ ventiquattro ore al giorno. A fungere da ancella nella fresca serata milanese ci sono i Nibiru, una delle realtà più allucinate e talentuose sfornate dalla nostra penisola nell’ultimo lustro, molto affini per intraprendenza e sprezzo delle regole agli headliner. Vi diremo più avanti del peccatuccio di pigrizia/inesperienza dei finnici, presentatisi per l’effettivo inizio del concerto con un’ora abbondante di ritardo causa procrastinazione del soundcheck, mentre sul piano musicale abbiamo avuto solo positive conferme e la sensazione, sia per gli Oranssi Pazuzu che per i Nibiru, di essere stati faccia a faccia con qualcosa di incomprensibile, terrificante e smisurato. Siamo stati travolti, spazzati via, e ce ne siamo davvero compiaciuti. Di seguito, tutti i motivi di questo squisito macello cosmico e spirituale.
NIBIRU
Pochi minuti di ritardo sull’ipotetica tabella di marcia, ed ecco apparire i nostrani Nibiru. Consolidata ormai la formazione a quattro, che ha visto Siatris spostarsi dalla batteria alla chitarra, con l’ingresso dell’efficace L.C. Chertan dietro alle pelli, l’ennesimo loro concerto a cui assistiamo in pochi mesi è anche l’ennesima conferma: i Nibiru sono assolutamente una realtà eccellente del panorama estremo italiano, sia per capacità compositiva che per resa dal vivo. I loro live sono veri e propri rituali che spaziano dallo sludge alla psichedelia, con puntate in territori più propriamente doomeggianti e sprazzi di intelligente black metal, più per la grande atmosfera che sanno evocare che per le coordinate musicali vere e proprie. La massiccia sessione ritmica, completata dal basso mastodontico di Ri, non perde un colpo e ci trascina in un gorgo di ipnotico tribalismo per un’intera ora, mentre i due cantanti-chitarristi sanno far correre più di un brivido lungo la schiena, tra effetti azzeccatissimi e linee vocali estratte pari pari da un grimorio rinascimentale. Strepiti gutturali e sussurri satanici si alternano in questa discesa agli inferi e la scelta dell’enochiano come lingua, che definire particolare è eufemistico, aggiunge decisamente molto al loro sabba, così come è inevitabile, a riguardo, citare l’enorme presenza scenica di Ardath: senza mai alcun atteggiamento da star, grazie anzi a una staticità ieratica e al solo fisico, il frontman riesce ad essere sempre un perfetto Maestro di Cerimonie. La loro setlist, data la dilagante costruzione dei brani, si riduce a due pezzi tratti da “Padmalotus”, ossia “Krim” e “Khem”, oltre alla nuova “Teloch”, title-track dell’EP in uscita in questi giorni. Grandissima prova, orecchie che fischiano, peccato solo non aver potuto ascoltare un brano in più: ma il taglio della prevista “Apsara” non è stato per volontà dei quattro torinesi, come vedremo nel seguito.
ORANSSI PAZUZU
Sono infatti le 23.15 quando sul palco salgono gli attesissimi headliner, e bisogna ammetterlo: si comportano come tali a tutti gli effetti. Il vostro affezionato recensore era al Lo-Fi fin dal pomeriggio, e pare corretto sottolineare come entrambe le band siano arrivate piuttosto tardi. Ciò nonostante, i Nibiru hanno professionalmente svolto un breve soundcheck quasi immediatamente, mentre gli Oranssi Pazuzu hanno deciso, incomprensibilmente, di optare per un linecheck di quasi quaranta minuti prima dell’esibizione vera e propria; non solo risulta veramente fastidioso attendere così tanto nella fase oraria in cui il giovedì volge al venerdì, ma è evidente che si spiega così l’eliminazione di una canzone dalla scaletta dei Nibiru. Ecco, visto che non stiamo parlando dei Black Sabbath, ci pareva giusto anche una nota relativa alla professionalità, tema da cui la band piemontese è uscita totalmente vincitrice. Ma tornando alla dimensione puramente musicale del combo finlandese, be’, decisamente nulla da dire. Quanto detto sulla precedente esibizione, per capacità di trascinare in un Altrove mistico ed emozionante, viene assolutamente replicato con efficacia; veri e propri Pink Floyd del male, gli Oranssi Pazuzu donano un’altra ora di serrato rituale agli astanti, riproponendo quasi per intero il loro recente “Värähtelijä”, decisamente candidato tra le migliori uscite dell’anno. E non fanno nessun prigioniero nemmeno dal palco: se l’iniziale “Saturaatio” presenta il campo da gioco, in perfetto equilibrio tra psichedelia e sfuriate violente, la successiva “Lahja” cala subito il poker d’assi rubando il respiro con l’affascinante linea delle tastiere e il tappeto di basso e chitarra, perfetta tela per gli squarci vocali di Jun-His. Luci, fumo, pose profetiche ben completano visivamente il quadro complessivo, invariato e assassino fino alla conclusiva, magniloquente “Vasemman Käden Hierarkia”: una vera e propria suite maligna che toglie ogni speranza residua di tornare a casa con scampoli di udito o di serenità interiore. i sei brani proposti si configurano complessivamente come un cammino doloroso, emozionante, senza soluzione di continuità, su cui le chitarre ricamano gemme di barrettiana memoria per un’abbondante ora, mentre solo la batteria ossessiva di Korjak sembra offrirci un appiglio di salvezza mentale. Una serata complessivamente da incorniciare, a parte le summenzionate complicazioni tecniche; e che ben spiega la convocazione di entrambe queste grandi band all’ormai imminente e preziosa vetrina del Roadburn.