Report di Dario Onofrio
Fotografie di David Scatigna
Le ultime piogge smettono di colpire il capoluogo meneghino attorno al primo pomeriggio, quando centinaia di persone si mettono tutte in marcia da mezza Italia armate di kilt, corni, trucchi guerrieri e chi più ne ha più ne metta.
È il simpatico circo che accompagna uno degli eventi conceristici più amati per chi apprezza le sonorità folk metal: il Paganfest, che ritorna dopo ben dodici anni nel nostro paese. Sebbene l’onda lunga di questo genere musicale non abbia retto al cento per cento al passare dei tempi, con solo poche formazioni sopravvissute (con anche il tipo di pubblico cambiato con il tempo), quella che si è tenuta all’Alcatraz è stata una occasione per molti orfani di grandi eventi come il Fosch Fest di ritrovarsi ancora una volta sotto al palco a pogare e sudare come dieci anni fa.
Ad aprire le danze gli olandesi Heidevolk, seguiti dai nostrani Elvenking – che per l’occasione si sono presi lo slot dei primi – per poi andare verso i piatti forti della serata con Tyr, Ensiferum ed Alestorm.
Un appuntamento, quindi, imprescindibile per un certo tipo di pubblico, a cui neanche noi potevamo mancare: vediamo come è andata!
Nonostante l’inizio dei concerti sia dato per le 17:20, orario in cui in genere si è ancora in ufficio o si sta ancora sui libri, arriviamo e troviamo un Alcatraz già ricco di persone accorse da diverse parti d’Italia per seguire il concerto.
Scopriamo anche che, visto che siamo nel Belpaese, il management ha deciso di far suonare per primi gli olandesi HEIDEVOLK, che ritornano nei nostri lidi dopo tanti anni di assenza. Della masnada di guerrieri che ci aveva regalato perle come “Walhalla Wacht” è rimasto ormai il solo Rowan Roodbaert (insieme ai suoi pochi capelli) al basso, mentre sono ormai in pianta stabile Koen Vuurdichter alla chitarra e Jacco de Wijs alla voce. Se c’è una cosa per cui la formazione è nota, è quella di giocare con due cantanti, ed infatti all’altro microfono troviamo il nuovo arrivato Daniël Wansink, che va a sostituire Lars Vogel.
Il suddetto gioco, comunque, funziona sempre bene: con quel poco di pubblico per ora accorso si crea subito una atmosfera di complicità, che ci porta a canticchiare “A Wolf In My Heart”, mentre Rowan introduce i pezzi assieme agli altri due cantanti.
Gli Heidevolk sono indubbiamente una formazione ormai collaudata anche nonostante i numerosi cambi di line-up, e ci dilettano anche con brani dall’ultimo album come “Schildenmuur”, anche se il pubblico esplode quando partono i pezzi storici come “Krijgsvolk” e “Saksenland”, dai primi due dischi del combo. Un sacco di allegria, con tanto di cannoni fumogeni che di tanto in tanto sparano boccate scenografiche, per andare a concludere il set con l’immancabile “Vulgaris Magistralis”, sulla quale Wansink tira fuori anche quello che crediamo essere una specie di bastone da cavernicoli. Peccato per l’assenza di “Nehalennia”, ma è stato davvero un piacere poter rivedere i ragazzoni olandesi in forma smagliante.
Un velocissimo cambio palco, facilitato dal fatto che nessuna delle band ormai va in tour con le testate degli amplificatori, e l’atmosfera cupa e trasognante degli ELVENKING cala su un Alcatraz che comincia a riempirsi in attesa degli headliner.
Il tutto gioca evidentemente a favore di Damna e soci, i quali si ritrovano su un palco importante, a riconferma della considerazione ormai internazionale della band nostrana nel panorama power e folk metal europeo.
Si parte subito con “Throes of Atonement”, il singolo uscito nel 2024 e che sarà poi contenuto nel nuovo capitolo della saga “Readers Of The Runes”, in uscita l’11 aprile 2025. Come sempre, la presenza più iconica degli Elvenking è quella di Lethien, saltellante in giro per il palco come un elfo suonando il suo violino, che caratterizza i pezzi della band (e strappa al pubblico più di un boato) anche fra una pausa fra un pezzo e l’altro, per permettere al frontman di riprendere il fiato e chiacchierare un po’ con gli astanti.
Anche la presenza di HeadMatt alla chitarra e il ritorno di Symohn alla batteria nel 2022 sono diventate ormai parti integranti di una band in grado di dirigere l’orchestra con una facilità impressionante, nonostante non sempre i suoni siano all’altezza della situazione e dell’indubbia complessità del tenere insieme così tanti strumenti e così tante band.
La scaletta è comunque incentrata su una selezione delle ultime prove in studio: da “The Pagan Manifesto” vengono pescate “Pagan Revolution” e “Moonbeam Stone Circle”, mentre le lacrimucce appaiono per la cadenzata “Luna” e per la trionfale “The Divided Heart”, da quel “The Scythe” che decretò il cambio stilistico della formazione. Peccato per non aver avuto il tempo di sentire nessun pezzo da “Readers Of The Rune – Rapture”, anche se il gran finale con “Elvenlegions”, chiama a raccolta tutti i fan di una formazione in piena – e meritatissima – ascesa nella scena.
Puntualissimi dopo una breve pausa, compaiono le splendenti rune dei TYR sul palco dell’Alcatraz, segno che stiamo per entrare nel mondo della mitologia nordica con la formazione delle Fær Øer, pronta a portare in terra nostrana i pezzi dell’ultimo “Battle Ballads”, un disco che, insieme al precedente “Hel” ha portato a uno spostamento verso territori più vicini al power-viking metal.
Nonostante ciò, l’apertura è affidata alla più marziale e cadenzata “By The Sword in My Hand”. La formazione guidata dagli inossidabili Heri Joesen e Gunnar Thomsen, con il nuovo acquisto Hans Hammer alla chitarra, che dimostra ormai di essersi perfettamente integrato nello mood del gruppo, dimostra quindi un fedele attaccamento anche ai dischi forse meno melodici, ma più in linea con lo spirito del dio nordico da cui prendono il nome.
Non mancano comunque le incursioni, appunto, nella nuova vita della band, con “Axes” e “Dragons Never Die” che causano subito lo scatenarsi del pogo nelle prime file, mentre Joesen ci ringrazia per la calorosa accoglienza. Gran parte della scaletta è però affidata a quelli che, a nostro avviso, sono i pezzi veramente affascinanti e ipnotici dei Tyr, come “Regin Smiður” e “Hail To The Hammer”, che calmano per un attimo gli animi dei pogatori seriali per permettere a tutti di apprezzare la vena da cantori erranti del quartetto.
Tadeusz Rieckmann, dietro alle pelli, è sempre una garanzia di spettacolo e precisione, soprattutto su questi pezzi così complessi e intricati da sembrare quasi progressivi, e, nonostante le basi registrate, finiamo pure per saltellare su “Hammered”, la traccia che apre l’ultima fatica in studio dei nostri. Il gran finale non può che essere però affidato a “Hold The Heathen Hammer High”, esempio perfetto di come si può scrivere una canzone veloce, ma mettendoci dentro una gran quantità di tecnica musicale: gli dei devono aver sorriso ancora una volta.
Ora l’Alcatraz comincia ad essere veramente gremito, quando Markus, Sami, Petri e soci salgono sul palco.
Non c’è che dire: gli ENSIFERUM, nonostante tutto, sono una di quelle band in grado di richiamare ancora una folla di persone sotto al palco, forse complice il fatto di non essersi mai fermati da quando, nel 2004, Jari Mäenpää ha abbandonato la band dopo “Iron” per dedicarsi ai suoi Wintersun.
Quella che ha suonato sul palco milanese è una formazione ormai rodata e navigata: una macchina da festival in grado di impastare il pubblico suonando qualsiasi cosa, con una scaletta ben equilibrata fra le vecchie glorie e l’apporto, a nostro parere, fondamentale del nuovo tastierista e cantante Pekka Montin.
Dall’ultimo “Winter Storm” parte immediatamente “Fatherland”, che rende subito l’Alcatraz un campo di battaglia innevato con vichinghi che si fronteggiano da un lato all’altro, per poi procedere a festeggiare dopo la vittoria con la divertentissima “Twilight Tavern”.
Abbiamo visto così tante volte Petri Lindroos esibirsi con questa band che ormai diamo per scontato che sia la faccia degli Ensiferum, e il suo growl maturato in anni e anni con i mai troppo compianti Northern cattura l’attenzione di tutti gli astanti anche stasera, quando introduce uno dei pezzi storici della formazione: quella “Tracherous Gods” che è stata ripescata nelle scalette della band solo nel 2022 e che ha fatto scendere una lacrimuccia a tutti coloro che seguono gli Ensiferum sin dal primo e fulminante disco d’esordio.
Oltre a questa perla non possono neanche mancare i grandi classici come “Lai Lai Hei”, ma anche la trasognante “Andromeda”, dal penultimo “Thalassic”. Sono in particolare i pezzi dove le voci pulite hanno un ruolo molto preponderante coi cori che l’apporto di Pekka Montin diventa fondamentale, proprio quando si stacca da dietro la sua tastiera per supportare i suoi sodali nel raggiungere note molto più alte del solito, garantendo alla performance una base in più su cui arricchire l’intensità del concerto.
E dopo “Victorious” arriva la vera chicca della serata: l’intera “Victory Songs”. Chi è cresciuto ascoltando i dischi degli Ensiferum non può non serbare un posto speciale nel suo cuore per questo vero e proprio anthem, con dieci minuti che si alternano fra cori epici, sfuriate melodiche e atmosfere malinconiche, che chiudeva degnamente l’omonimo album del 2007 e che non veniva suonata dal lontanissimo 2015.
Ovviamente, gli astanti vanno in visibilio (vista anche l’età media ad attestare come molti dei presenti abbiano ascoltato ed apprezzato il disco sin dalla sua uscita), con tanto di cori, mani che si muovo all’unisono – e, ovviamente, del sano e divertente pogo.
Dopo questa botta emotiva, per riprendersi non c’è niente di meglio dell’ignorantissima “Two Of Spades” e, per concludere, di quella che Petri definisce “La canzone che tutti conoscono come ‘Tattaratà Tattaratà'”. Ovviamente, il cantante finnico sta parlando di “Iron”, immancabile brano che da anni chiude le esibizioni dei guerrieri finnici: anche stavolta non hanno lasciato superstiti, accontentando sia i nuovi che i vecchi fan, in un vero e proprio abbraccio collettivo attorno al fuoco a raccontare storie epiche e bere idromele.
Setlist Ensiferum:
Fatherland
Twilight Tavern
Treacherous Gods
The Howl
Lai Lai Hei
Andromeda
Victorious
Victory Song
Two of Spades
Iron
Finita la cavalcata epica degli Ensiferum, in breve tempo, a prendere il posto di stendardi, spadoni e altro arrivano le intramontabili paperelle giganti degli ALESTORM, accolte da una ovazione e l’immancabile coro “Bilbo Baggins Carabiniere”, tratto da “Il Signore degli Anelli dello Stadio” dei Nanowar Of Steel, ormai diventato un must per eventi di questo tipo.
È da tempo, ormai, che abbiamo appianato le nostre divergenze con il capitano Chris Bowes, unico sopravvissuto della line-up originale, che nel tempo ha trasformato la band di pirati scozzesi in un gruppo molto più faceto che serio, in cui l’elemento piratesco ha ceduto il passo ad un mood decisamente più scanzonato.
Ne è un segno il fatto che, prima di iniziare, la crew viene anche a filmare il pubblico chiedendogli di fare ‘gesti tipicamente italiani’, mentre di sottofondo vanno le note di “We Will Rock You”. In mezzo agli astanti in kilt cominciano a spuntare anche persone vestite da banana e bottiglia di birra, che saranno i primi ad essere presi di mira nel pogo quando il quintetto – che poi è un sestetto per via della presenza fissa di Patty Gurdy e della sua ghironda – fa la sua ‘trionfale’ apparizione sulle note di “Keelhauled”.
È indubbio che i più puristi storcano il naso di fronte a una apoteosi di demenzialità e goliardia così espressa, con una scaletta che, salvo un paio di brani, è molto simile a quella suonata al Luppolo In Rock 2024. Ci sono però un po’ di chicche, a partire da “Shipwrecked”, per non parlare del siparietto demenziale sulla cover di “Hangover” di Taio Cruz, con tanto di scenetta con un membro della crew vestito da squalo che insegue il povero Máté Bodor e la sua chitarra.
Il circo degli Alestorm procede a gonfie vele, con la Gurdy che ogni tanto si impadronisce del microfono per cantare alcune parti dei brani, come in “Voyage Of The Dead Marauder”, mentre le parti più acustiche chiamano le persone del moshpit, sempre furiosissimo, a riposarsi e sedersi per vogare.
Ed è proprio questa pratica a prendersi la scena quando parte “Nancy The Tavern Wench”, unico brano suonato dal primo disco in studio degli Alestorm, apprezzato in particolare dai fan di vecchia data e forse da chi è all’Alcatraz per i gruppi precedenti agli headliner. E che party sarebbe senza “P.A.R.T.Y.”, dove tutto si trasforma in una discoteca power metal mentre la gigantesca paperetta a centro palco ‘balla’ grazie a un povero membro della crew infilato nel gonfiabile?
Dopo “Shit Boat (No Fans)” è quindi il momento degli encore, che non possono che partire con un altro anthem della masnada piratesca, cioè “Drink”, mentre il pogo più assatanato parte con la successiva “Wooden Leg!”. È passato tanto da quando gli Alestorm chiudevano i loro concerti con “Captain’s Morgan Revenge”, ed ormai il finale è affidato alla ben più nota “Fucked With An Anchor”, che comunque causa grasse risate fra gli astanti, specialmente quando dei gonfiabili spuntano da sotto al palco scrivendo un colossale ‘FUCK YOU’, per poi chiudere definitivamente il cinema con quel nomignolo che gli fu affibbiato dai Grave Digger: “Rumpelkombo”.
Con uno scroscio di applausi e un boato del pubblico, si chiude quindi questa edizione del Paganfest, che è riuscita, almeno, a riempire metà dell’Alcatraz con capienza massima. È un segnale che questa scena sta bene? Si e no, se ci vogliono eventi così tanto particolari per richiamare gente da tutta Italia, ma sinceramente va anche bene così, ritrovandosi sotto il palco con una birra in mano fra fan di vecchia data.
Setlist Alestorm:
Keelhauled
Shipwrecked
Mexico
Under Blackened Banners
Alestorm
Hangover (Taio Cruz cover)
Fannybaws
Zombies Ate My Pirate Ship
Voyage of the Dead Marauder
Nancy the Tavern Wench
Uzbekistan
P.A.R.T.Y.
Shit Boat (No Fans)
Drink
Wooden Leg!
Fucked With an Anchor
Rumpelkombo
TYR
ENSIFERUM
ALESTORM
pubblico