Report a cura di Giovanni Mascherpa
Non sono passate ere geologiche da quando i Pain Of Salvation si sono ripresentati al massimo splendore dal vivo per suonare interamente il loro disco più celebre, “Remedy Lane” (dicembre 2015, peraltro sempre al Magnolia). Chi c’era ricorda di una prestazione assassina degli svedesi, presentatisi in una versione veracemente metal non sempre dominante nella loro discografia. Mentre con “In The Passing Light Of Day” Daniel Gildenlöw ha chiarito che in questa fase della sua vita è desideroso di riprodurre un suono duro, animoso, sfaccettato, ma che possa comunque infondere quella passionalità e sensibilità mai mancate dall’esordio “Entropia” ad oggi. L’attesa è grande per quest’unica data italiana della tournee europea, il nono full-length del gruppo ha riportato i Pain Of Salvation allo splendore delle loro opere più rinomate, che al di là dei rispettabilissimi gusti personali non possono che essere individuate nei primi quattro album. Una compagine che nei due capitoli di “Road Salt” sembrava digradare verso dignitose consuetudini prog vintage si è ripresa con un rapido colpo di reni il trono della scena progressive internazionale. L’affluenza al Magnolia si fa importante già pochi minuti dopo l’apertura delle porte e per l’orario d’inizio dei supporter Port Noir, tra chi è già sotto la tensostruttura dove si terrà il concerto e chi conversa amabilmente negli altri spazi del locale, il numero dei presenti è ben nutrito. Così, anche il finora poco noto terzetto di spalla può giovare di una platea nient’affatto spoglia…
PORT NOIR
Il progressive dei Port Noir, conterranei degli headliner, non nasconde affatto le sue ascendenze nordiche. E, detto senza malizia né con tono canzonatorio, anche l’outfit dei musicisti ne segnala chiaramente la provenienza. Ci siamo ormai abituati a vedere in giro per i palchi europei giovanotti scandinavi con facce da bravi bimbi, in possesso di una tecnica strumentale stupefacente e di un controllo ferreo delle proprie doti. Gli autori del recente “Any Way The Wind Carries” (sfornato nella primavera del 2016) ostentano il suono massiccio, compatto, lucidato scrupolosamente, portato alla ribalta soprattutto dai Leprous; musica sinuosa, che incamera la durezza del post metal e trattiene il fare ammiccante dell’alternative e di certo pop molto chitarristico, così da mantenere un equilibrio ruffiano ma sostanzialmente riuscito fra molteplici tendenze stilistiche. Proprio ai dioscuri norvegesi di Einar Solberg si accosta la proposta dei Port Noir, che al confronto dei più famosi colleghi si concedono a trame più scorrevoli e dirette, concentrandosi sulla forma canzone e cedendo poco alle voglie di istrionismi. Dettagliatissimo il lavoro ritmico, il principale motivo di varietà dei pezzi risiede appunto nel nervosismo percussivo, che ha il potere di agganciare l’ascoltatore a groove dinamitardi, oppure languidi e pacati, e prepararlo adeguatamente alle evoluzioni di chitarra e basso. I dialoghi degli strumenti a corde partono il più delle volte da combinazioni elementari, si arricchiscono e gonfiano in corso d’opera, condensando nobile algidità e vibranti slanci emotivi. Da comuni radici si dipartono cavalcate terremotanti, indugi, plumbee ballate, giostre di suoni sintetici e tentatori. Dopo qualche minuto di studio, i presenti non mancano di far percepire ai tre di Södertälje tutta la loro approvazione: i tre quarti d’ora disponibili passano in un lampo, i Port Noir riescono nell’impresa di non sfigurare e d’ingenerare la voglia di andare oltre quanto ammirato in concerto. Talenti in rampa di lancio.
PAIN OF SALVATION
Ogni giornata dovrebbe contenere quanto condensato emotivamente dai Pain Of Salvation in quasi due ore di concerto: tenerezza, dolcezza, forza, speranza, follia, divertimento, grinta, nervosismo, a volte mescolate assieme, in altre occasioni ben discernibili e accostate affinché nel contrasto ogni sensazione guadagni intrinsecamente forza. A questo punto della loro storia, chiudere i Pain Of Salvation nei confini, seppur ampi, del prog metal è terribilmente riduttivo, perché per come suonano e per l’urgenza con cui affrontano i concerti, i cinque svedesi sono definibili semplicemente come una meravigliosa espressione di metal tout-court, cui altre definizioni possono solo apparire limitanti. Anche solo nel linguaggio del corpo, per dire, uno scuotimento di chiome così frenetico come quello di Gildenlöw e compagni non lo si vede così spesso nemmeno da gruppi death o thrash, figurarsi se ce lo aspettiamo da una formazione che dovrebbe trarre linfa vitale dalla finezza strumentale. Invece il sudore scorre a fiumi, in una serata fresca all’esterno ma che nel tendone dove è posizionato il palco diventa torrida e ci fa quasi assaggiare temperature estive. Daniel compare sul palco, poco prima dell’inizio effettivo dell’esibizione, per dedicare quanto andranno a suonare ad Alberto Granucci, fan della band deceduto poche settimane prima dell’inizio del tour e già ricordato dal musicista in un lungo e sentito post sulla pagina Facebook ufficiale del gruppo. Il via vero e proprio è dato da “Full Throttle Tribe”, e nell’orgogliosa affermazione di appartenenza a quella grande famiglia che è la band, proferita con una potenza di fuoco debordante, iniziamo a percepire la stretta contiguità fra le idee professate nell’ultima prova in studio e il modo di intendere i live odierno. Ci mettono qualche minuto ad emergere le avveniristiche tastiere di Daniel Karlsson, il suono non rilascia subito quella pulizia esecutiva che ci si aspetterebbe, ma ciò non turba per nulla, perché l’impeto e l’attenzione ai dettagli sono comunque di prim’ordine. L’asse vocale Gildenlöw-Zolberg non si fa pregare nell’elargire intrecci suadenti, intersecando la maggiore virilità del leader alle note alte e quasi da voce bianca del più giovane sodale. “Reasons” detona circense sfruttando la miscellanea di voci sovrapposte, che non vengono sporcate in purezza e forza e suonano perfino più altisonanti che in studio. I nuovi pezzi, a sentire i cori che si alzano a rafforzamento di quanto arriva dai microfoni, sono assurti in breve tempo al rango dei classici e pure un brano leggermente più quieto in origine come “Meaningless” diventa un’apoteosi di pesantezza e melodie siderali, se suonata con l’intrepida pazzia positiva denotata al Magnolia. “Linoleum”, unico estratto di “Road Salt One”, risplende di un fluire scorrevole da singolo, ma scappa via appena possibile verso filler ritmici inconsulti e vocalizzi ad effetto, che pongono in risalto le capacità ‘attoriali’ del poliedrico cantante/chitarrista. Quanto accade con gli episodi pescati da “Remedy Lane” è ancora più degno di nota: “A Trace Of Blood” si traveste da cavalcata thrash, ci pare addirittura accelerata nei tempi da un drumming massacrante, fattore che non fa perdere il filo del discorso a chitarre tritatutto – ma poetiche come non mai – e un assalto vocale incalzante e frastornante. Non sono da meno “Rope Ends” e “Beyond The Pale”, riprodotte in grande stile, fustiganti anche nei passaggi più ardui e cerebrali, infervorate dalla risposta fragorosa dei fan. L’avvio di “Ashes”, probabilmente la canzone più nota del repertorio anche da chi non segue abitualmente la band, fa crescere i decibel in sala e l’esecuzione non tradisce cotanta entusiasta accoglienza. Osservare Gildenlöw all’opera fa capire come nel suo caso classe e talento vadano di pari passo alla gioia di suonare: gli atteggiamenti amichevoli verso la folla non sembrano avere nulla di studiato e i sorrisi e le battute con cui si rapporta a chi ha davanti trasmettono una genuina riconoscenza per l’affetto che circonda lui e i Pain Of Salvation. La toccante “Silent Gold”, riarrangiata senza la batteria, così da arrivare a noi ancora più incorporea e rallentata, fa da preambolo a una “On A Tuesday” che non fa partire mosh ciclopici solo per la composizione del pubblico, non proprio zeppo di casinari di professione. Se valutata per la sola vigoria dei riff e la pressione dei suoni, l’opener di “In The Passing Light Of Day” potrebbe servire quale arma d’assalto definitiva, facendo quasi impallidire la già eccellente versione dell’album. Confronto che non si pone nemmeno per “The Physics Of Gridlock”, rivisitata con un brio e una divertita fantasia percepibile solo in parte in origine. L’encore è di quelli che restano nella memoria: Daniel, fradicio di sudore, si ripresenta da solo per iniziare una canzone ‘che di solito dedico a mia moglie’, ovvero la struggente “In The Passing Light Of Day”. Infiniti, in senso positivo, i primi minuti, quando il mastermind rimane da solo con la sua chitarra a intonare le amorevoli lyrics per la prima parte del pezzo. Gli altri musicisti ritornano di soppiatto on-stage e si riallacciano al tema portante, confezionando l’ennesima esecuzione estasiante della serata. Non abbiamo nulla di negativo da segnalare e crediamo non vi sia stata una sola persona uscita non meno che felice dal Magnolia: per quello che si è visto e sentito, probabilmente anche chi non li ha mai amati o proprio non considera certe sonorità, di fronte a una performance del genere avrebbe cambiato idea su tutta la linea nei confronti dei Pain Of Salvation!
Setlist:
Full Throttle Tribe
Reasons
Meaningless
Linoleum
A Trace of Blood
Rope Ends
Beyond the Pale
Ashes
Silent Gold
On a Tuesday
The Physics of Gridlock
Encore:
The Passing Light of Day