A cura di Giovanni Mascherpa
I Pallbearer sono di questi tempi quello che Candlemass e Saint Vitus erano negli Anni ’80, quello che sono stati Cathedral nel decennio successivo e gli Electric Wizard tra il 2000 e il 2010: i simboli del doom, i migliori eredi possibili, in un determinato periodo storico, dei padri fondatori Black Sabbath. La critica li ha già adottati incondizionatamente come gruppo ‘eletto’, di quelli che guidano una scena e possono confrontarsi coi pesi massimi dei rispettivi settori guardandoli negli occhi. Coloro che anche solo di striscio sono riusciti a sentire l’esordio “Sorrow And Extinction” e il successore “Foundations Of Burden” non hanno potuto far altro che riconoscere il valore di questi ragazzi, impegnati in entrambi gli album finora prodotti ad adattare le sacre leggi sabbathiane al metal classico ottantiano: una fusione che rappresenta un semplice trampolino di lancio per composizioni dilatate, possenti e favolistiche, melodicamente finissime. Nelle quali si può anche ritrovare quella placidità sudista, quei ritmi paciosi che di norma sono associati a southern rock e certo sludge, e che qui rivivono sotto una forma completamente diversa. Visti di spalla agli Yob il settembre scorso, ora i Pallbearer sono approdati in Italia per quattro date, la prima delle quali è proprio quella del Lo-Fi. Assieme ai compagni di tour, gli inglesi Bast, decisamente più rumorosi e scorbutici degli headliner, vi è il fumigante duo bolognese degli Hyperwülff, ben comportatosi nell’ultimo annetto sui (molti) palchi calcati lungo la penisola. Da poco è fuori l’esordio “Volume One: Erion Speaks”, e quella meneghina è una delle prime date a supporto del disco. Tenendosi il concerto al chiuso, quella che andiamo a sopportare è una vera sauna, per nulla attutita negli effetti dall’apertura del portone in fondo al locale. Alcuni, prostrati dalle temperature equatoriali, finiranno per assistere sulla soglia della sala anche all’esibizione degli headliner, pur di godere di un minimo di refrigerio!
HYPERWÜLFF
Tra un rigagnolo di sudore e l’altro che ci scorre su fronte, braccia, gambe, praticamente ovunque, riusciamo a mantenere un barlume di lucidità per gustarci al meglio il lupesco duo emiliano. Ne avevamo testate le doti circa un anno fa al Magnolia quando aprirono per i Deafheaven, e dobbiamo dire che ci avevano convinto, nonostante in quell’occasione centrassero davvero poco con gli headliner. Non che oggi ci siano grandissime affinità con chi suonerà dopo di loro, ma il pubblico sembra più avvezzo ai grumi sludge/thrash/post-hardcore di questi due “signori”. La dimensione contenuta del Lo-Fi, lo notiamo abbastanza in fretta, acuisce gli effetti delle bordate propinateci e i volumi smodati consentono alla chitarra dal suono pieno e acuminato di The Sarge di colpirci dritti nello stomaco e piegarci in due. Come rilevato in sede di recensione dell’esordio, abbiamo di fronte un Iperlupo bicefalo: una testa si muove attratta da istinti primordiali, è assetata di sangue, risse, sconcezze. Si compiace di inondarci di bile su territori cari ad Eyehategod, primi Mastodon, i Big Business più incazzati, gli High On Fire. E lo fa bene, assecondando i bassi istinti tramite brani secchi e ferali, senza prolissità né incisi slegati dal contesto. L’altra testa, quella più razionale e riflessiva, sa dare un carattere ancora più intrigante a tutta la faccenda, lasciando fuoriuscire ambiziose pulsioni progressive e post-metal: partenze calme a percussioni trattenute, melodie in crescendo, il tipico effetto di marea montante di scuola Isis, le escrescenze monumentali dei Cult Of Luna, tempi intricati math-core. Uno spettacolo caratterizzato anche da soluzioni vocali che, ai digrignamenti della prima parte, sostituisce parti realmente cantate molto ben intepretate. Alla fine non possiamo che essere soddisfatti del gruppo di apertura, sperando che possano espandere in futuro la parte ‘colta’ e ricercata del loro sound.
BAST
Si prosegue nel segno dello sludge evoluto, martoriato e trasformato in qualcosa di più complesso e pregiato della materia di partenza con i Bast, esorditi l’anno passato per Burning World Records con “Spectres”. Come per chi li ha preceduti, il suono è più sfaccettato di quello che può apparire in un primo momento, anche se il discorso per i tre barbuti che abbiamo di fronte è un po’ diverso. Se gli Hyperwülff dividono quasi in due recinti separati le proprie identità, gli albionici amano contornare le sferragliate più devastanti di stacchi meditativi, radure di vera e propria tranquillità in un mare di scariche elettriche. La vena progressiva è molto accentuata e sfocia in pause significative, che se non sono di sapore bucolico poco ci manca; esse frappongono quindi lunghi attimi di riposo fra gli attacchi multiformi che costituiscono comunque il grosso della proposta, dove il perno è il ricco lavoro chitarristico, così pieno di idee e cambi di approccio da non sembrare nemmeno che vi sia una sola ascia a dettare le linee-guida dei pezzi. A livello vocale, assistiamo a un doppio latrato particolarmente espressivo e incanalante tutti i sentimenti di odio, esasperazione e frustrazione presenti in un individuo medio: secondo schemi cari ai Mastodon, il chitarrista Craig Bryant e il batterista Jon Lee si inseguono e si azzuffano in un vociare uno più profondo, Bryant, l’altro più di gola e sibilante, Lee, conferendo ulteriore dinamismo a una band che denota una tecnica nettamente superiore alla media. Spesso quando si accentuano le finezze progressive si perde qualcosa in impatto, ma non è il caso dei Bast, che sotto alcuni punti di vista potrebbero ricordare dei Minsk un filo più concisi e ‘di pancia’. Non crediamo fossero in molti tra i presenti a conoscere bene il gruppo prima dello show, però quando la musica ha iniziato a suonare dal possente impianto del Lo-Fi non ci è voluto molto per causare un diffuso gradimento. Espresso con gesti misurati dai presenti in sala, a causa di un caldo tanto opprimente da sconsigliare qualsiasi movimento che facesse spendere ulteriori energie e sudore.
PALLBEARER
Inoltrandoci nella notte, non sopraggiunge sollievo al caldo. Tutt’altro. Solo l’ingresso dei musicisti originari di Little Rock può alleviare in parte il senso di sopraffazione che stiamo subendo noi e un’altra settantina di individui. Un numero di presenze da considerarsi accettabile se pensiamo all’alto numero di eventi in programma in questo periodo, la collocazione del concerto al lunedì sera, le sirene rappresentate dai nomi mainstream sul pubblico più pigro e meno motivato. Tocca a “Worlds Apart” introdurci nel mondo rallentato, calmo e rasserenante dei Pallbearer, e come per incanto troviamo finalmente riparo dalle disgrazie terrene e assaporiamo la purezza di intenti del quartetto. Brett Campbell non ci appare brillantissimo, la sua vocalità ozzyana è appannata, ci accorgiamo che la voce esce più sforzata rispetto alla data settembrina, e nei primi due pezzi segnala quasi sofferenza nell’approcciare le linee sottili che abbiamo imparato ad amare grazie a “Sorrow And Extinction” e “Foundations Of Burden”. Dal lato strumentale, invece, gira tutto per il verso giusto: i Pallbearer dimostrano di non patire il confronto con gli altissimi livelli delle prove in studio, padroneggiando le proprie lunghe composizioni con rassicurante calma. L’attenzione è massima, è un pubblico preparato quello che gli americani si trovano ad affrontare, e l’ascolto avviene quasi in silenzio, nel timore di alterare con la propria voce un mirabile incantesimo. E’ nelle prolungate peregrinazioni strumentali che l’avvolgente mix di doom antico, cristallino heavy metal cerimoniale, noncuranza per lo scorrere del tempo e voglia di raccoglimento trascende la dimensione musicale e si pone quale espressione artistica stimolante tutti e cinque i sensi. “The Ghost I Used To Be” e “Foreigner” spiccano leggermente nella compatta setlist, che vista l’esiguità della discografia disponibile non può comprendere chissà quali sorprese ma conferma, se ce ne fosse bisogno, la qualità altissima di tutto il materiale finora dato alle stampe sotto l’egida Pallbearer. Il sottoscritto ritiene particolarmente strabilianti le sezioni in cui Holt e Rowland si integrano alla voce di Campbell: in questi casi si tocca il cielo e si giunge a punte di grandeur così perfette che si vorrebbe congelare tali momenti e incastonarli in un pregiato scrigno, da aprire quando le noie quotidiane assestano duri colpi al nostro umore. Giungendo infine a una comunione con emozioni “alte” e incontaminate che pochi altri sanno raggiungere nel metal odierno, i Pallbearer trovano il significato ultimo del loro solitario divagare fra emozioni profondamente radicate nel loro animo sensibile. L’esibizione si chiude dopo circa un’ora e dieci, nella soddisfazione generale: solo l’afa ha potuto in parte infastidire un pubblico che se ne torna a casa del tutto compiaciuto da quanto ha appena visto e sentito.