Report a cura di Giovanni Mascherpa
Londra è una città intrinsecamente doom. Il grigiore che la permea, gli spazi ristretti in cui costringe a vivere, il ritmo frenetico nel quale sguazza, portano inevitabilmente a un richiudersi nella riflessività, a ripiegarsi su se stessi e affliggersi. Più facile quindi che accada qui, piuttosto che altrove, di poter assistere, di sabato sera per giunta, a un’intera serata dedicata alla musica più compassionevole e disperata che vi sia, il funeral doom. Al Nambucca, grazioso pub con palco annesso posto in zona Camden Town, vanno in scena quattro formazioni di nicchia, non esattamente use a lanciarsi in tour mondiali e a presenziare costantemente i festival di settore. Reduci da un lungo periodo di assenza dai palchi, sono i Pantheist, fra i capostipiti di talune sonorità con lo storico esordio “O Solitude”, a fungere da headliner, appena preceduti dagli Eye Of Solitude, il cui cantante Daniel Neagoe è proprio l’organizzatore dell’evento. Due compagni tra le più quotate in questo ambito, accompagnate per l’occasione da due band ancora meno note. I Faal, da Breda, Paesi Bassi, rappresentano l’interpretazione più muscolare del genere nel lotto di compagini in programma al Nambucca, mentre i belgi Marche Funèbre, a dispetto del nome, rappresentano una variante maggiormente imparentata col doom metal classico. Arriviamo al locale quando proprio la mezz’ora a disposizione dei ragazzi di Mechelen dovrebbe già essere spirata ma, a causa di ritardi nella preparazione dello stage, che andranno ad ampliarsi con lo scorrere delle esibizioni, possiamo ammirare l’operato del gruppo quasi nella sua interezza.
MARCHE FUNÈBRE
Entriamo più o meno a metà del primo brano, alcuni se ne stanno placidamente ai tavoli, ma un buon numero di chi è all’interno sta già osservando attentamente cosa succede sul piccolo stage. Con un album in uscita a breve (“Into The Arms Of Darkness”, previsto per il 20 febbraio) e una serie di date già programmate a cavallo di inverno e primavera, i Marche Funèbre si segnalano per una verve non proprio consueta quando si affrontano determinate tematiche. Anche l’allestimento scenico, che prevede un fondale e altri due teloni rappresentanti il logo della band, è piuttosto ricco per un gruppo destinato a restare operativo per un tempo abbastanza ristretto. Le influenze principali risalgono al gothic doom di prima metà anni ’90, i cinque si fanno strada fra Paradise Lost, My Dying Bride e Anathema senza metterci grande personalità, ma hanno il merito di provare a mischiare le carte e lanciarsi su minutaggi importanti utilizzando tutti gli espedienti che il doom consente. Accanto a scatti veementi in odore di death metal e pause tremolanti altamente drammatiche, apprezziamo processioni fumose, speziate di un cantato in pulito, che potrebbero benissimo provenire da un disco dei Cathedral o dei The Wounded Kings. I molti cambi di registro tengono desta l’attenzione, anche se non tutti sono dosati e approcciati nella maniera ottimale. Nell’evocazione di panorami romanticamente desolati la band ha migliore focalizzazione e un gusto sviluppato; quando si fa prendere la mano da maggiore frenesia diventa più manieristica, anche se mai manifestamente inadeguata. Stiamo comunque parlando di una prestazione discreta, coinvolgente, che rimarrà però lontana dall’emozionalità che ci investirà fin dal gruppo successivo.
FAAL
Gli olandesi Faal chiariscono gli intenti nel primo brano, che cresce in pienezza e pesantezza partendo da profondi tremolii di basso – le corde vengono appena mosse da un archetto – e dolorosi inserti tastieristici. Non c’è fretta, sembrano dirci, una lunga introduzione è necessaria per immergersi in un’oscurità soffocante, limacciosa, che non ha nulla di rassicurante da offrire, soltanto la sua opprimente forza. I registri sentitamente funerei, rinvenibili nelle dilatazioni comatose lambite di screziature gotiche indotte dai sintetizzatori, rappresentano solo un ingrediente di uno spettro sonoro ampio, che si ravviva ciclicamente in vampate chitarristiche che non temono di infangarsi col death metal, eppure mantengono una ruvida eleganza e una visionarietà apocalittica. Non fa difetto il dinamismo ai Faal, che superata la mesta partenza incastonano lunghi riff mortuari in terremoti ritmici di ampio respiro, che non si fanno pregare ad aprirsi a progressioni trascinanti, dove la batteria divelle e abbatte e le chitarre fungono da contrappunto, ciondolando più controllate in un malmostoso, iracondo, groviglio di sapori dannati. Sembra di udire in molti frangenti gli Indesinence, capaci come la band dei Paesi Bassi di mescolare partiture old school death metal oltranziste a un sentire introverso, a un appassimento della volontà, che non solo non va in contrasto alla violenza, ma ne costituisce un’aggiunta fondamentale. L’avventuroso dipanarsi dei pezzi, tutti in grado di catturare in aperture melodiche di notevole spessore e di scatenarsi in breve su indomabili cadenze, viene coronato da una prova vocale maestosamente brutale. Quella di un re che intenda provare la sua supremazia sfoderando growl grassi, che dalle catacombe dell’anima erompono in una tempesta di graffi, strappi, profonde lacerazioni. Anche l’aggiustamento dei suoni, fin troppo secchi durante i Marche Funèbre, gioca la sua parte nel consentire ai Faal di saziare gli appetiti di chi già li conosceva e di guadagnarsi con pieno merito qualche nuovo fan.
EYE OF SOLITUDE
Gli Eye Of Solitude incarnano a meraviglia il concetto di funeral doom. Se si sta cercando qualcosa che emani disperazione a ogni nota e non venga mai meno a questa necessità di ridurre al lumicino la forza d’animo, a favore di un contrarsi e addolorarsi sconfortato fino allo stato larvale, ecco che il combo londinese fa veramente al caso vostro. L’immobilismo in questi casi è un pregio a cui si arriva lungo un percorso di perigliosa raffinatezza, che passa anche da un vestiario curato ma non pomposo per i musicisti – camicia scura della stessa tonalità, batterista compreso – e un portamento che, nella sua compostezza, emana già quegli umori di tristezza che la musica compone con civile, ma devastante, potenza. Un martellamento lacrimoso, un cospargersi di tagli a segnare le proprie sconfitte, ecco cosa rappresenta una performance degli Eye Of Solitude. Il ruggito infinito di Neagoe si installa in mezzo allo scrosciare vertiginoso delle chitarre, cadenti perpendicolarmente su di noi a piegarci, fletterci in uno stato di prostrazione definitivo. Peccato non ci sia un tastierista di ruolo, così come si sarebbe potuto soprassedere su qualche effetto di raddoppio della voce nei languenti interventi in pulito, ma a parte questi due difetti marginali, il concerto ci ipnotizza dal primo all’ultimo minuto. Non possiamo che rimanere immobili, rapiti da una sensibilità così forte nel far trapelare le proprie angosce e smarrimenti, che nella cupezza marmorea, corrosa di una mansueta poesia evocante la sensazione di assistere a un lungo addio alle cose belle del mondo, fa attecchire e germogliare una bellezza di morte che solo Worship e Shape Of Despair, su coordinate simili, sanno raggiungere. Il minutaggio quasi da headliner – circa un’ora – permette agli Eye Of Solitude di sviluppare il proprio discorso senza impedimenti, basando la scaletta sull’ultimo album “Cenotaph”, arrivato tra noi a settembre 2016. Come un flebile respiro incapace di spegnersi, ma che nella sua debolezza rinasce più volte riprendendo le forze, la formazione si rende protagonista di un concerto maiuscolo, raro perché portare lo sguardo a panoramiche così annientate nella voglia di vivere, non concedendo nulla alla noia, è una dote posseduta da pochi.
PANTHEIST
I Pantheist impiegano parecchio tempo per il loro cambio palco, aggravando un ritardo già elevato sulla tabella di marcia. L’orario di inizio sarebbe assolutamente naturale in un locale italiano al sabato sera, diventa scellerato per le abitudini d’Oltremanica. Così, se fino agli Eye Of Solitude c’era un’accettabile partecipazione, quando Kostas Panagiotou in saio e i suoi compagni danno finalmente avvio alla loro esibizione le presenze in sala sono drammaticamente calate. E andranno a diminuire ulteriormente in corso d’opera, complice un set piuttosto lungo e, dato ben noto per chi conosce la band, costellato di una vena progressiva decadente che poco si concilia a una stanchezza incipiente. Ed è francamente un peccato che in pochi si siano fattivamente goduti il concerto, perché rompendo un silenzio che durava oramai da qualche anno – discograficamente siamo fermi a “Pantheist” del 2011 – i Pantheist offrono una prestazione estesa nella durata e pressoché impeccabile nell’esecuzione, permeata di quel senso di occasione speciale che l’evento in sé avrebbe dovuto essere. Al centro, nella posizione sul palco e nelle trame strumentali e vocali, vi è l’ingombrante personaggio di Panagiotou, che incurante dei larghi vuoti in sala si produce in uno stage-acting istrionico, posseduto dall’energia che paiono avere le persone in preda a crisi mistica. La gestualità da santone, il fiammeggiare delle pupille, soprattutto gli scatti teatrali della voce prendono all’amo chi ha ancora un minimo di attenzione da spendere. Le tastiere contemplano a loro volta un potere suggestionante notevolissimo, districandosi fra parentesi baroccamente cerimoniali e punteggiature eteree, spesso in dialogo elegante con la voce. Gli altri strumentisti stanno più indietro, sia negli interventi sonori che per quanto riguarda una presenza scenica ridotta ai minimi termini. Non è facile essere sempre ben presenti di mente quando le chitarre si assentano e il misticismo si diffonde sovrano, ma se si hanno veramente a cuore queste sonorità si rimane favorevolmente impressionati dallo stato di forma del gruppo, preparatosi al meglio e autore di un concerto vibrante, purtroppo vissuto nella sua interezza da non più di una trentina di persone!