EYES OF EDEN
Si scriveva sopra di female-fronted band, per l’appunto, e allora chiediamocelo subito: caro Waldemar, ma c’era proprio bisogno di metter su un gruppo di siffatta guisa? Gli Eyes Of Eden, al loro primo tour e con al microfono la giovanissima (vent’anni!) Franziska Huth, sono sembrati in primis una band stolidamente nella media e praticamente inutile. Sappiamo tutti quanti quanto sia valido Sorychta in sede di riffing – il suo lavoro nei Grip Inc. è tutto lì a dimostrarlo! – ma quando anche le sezioni chitarristiche paiono scostanti e non sempre ispirate come si deve, c’è qualcosa di troppo che non quadra. A livello ritmico ci siamo, gli Eyes Of Eden sembrano proprio l’incrocio tra Grip Inc. e Lacuna Coil (la band che più di ogni altra si è giovata, nel corso della propria carriera, della bravura del producer tedesco), ma l’approccio compassato e acerbo della Huth vanifica buona parte del lavoro di Waldemar, di Tom Diener alla batteria e della corpulenta Alla Fedynitch al basso. La prestazione complessiva del gruppo è stata in crescendo, ma davvero l’accoglienza dell’audience non è andata al di là di qualche tiepido applauso e temerari battimani. I brani eseguiti – anche piuttosto bene, se si esclude l’inesperienza e l’impaccio della singer – sono risultati a malapena interessanti, frutto di un disco che, sebbene sia formalmente buono, non aggiunge veramente niente ad una scena già fin troppo congestionata. Da rivedere più avanti, quando la Huth sarà cresciuta un po’.
PARADISE LOST
Dopo una bella mezz’oretta di attesa, durante la quale la venue si è progressivamente riempita senza però raggiungere neanche lontanamente il sold-out, ecco finalmente le lucette dei tecnici di palco lampeggiare nel buio e partire l’intro strumentale. Holmes, Mackintosh, Aedy, Edmondson e Singer, non propriamente ancora dei ragazzini, non dimostrano affatto il loro invecchiare e attaccano gli astanti con la vigorosa “The Enemy”, prima accorsa di una numerosissima rappresentanza scelta dall’ultimo album, segno tangibile di come i Paradise Lost credano moltissimo al loro presente e tentino di non aggrapparsi più di tanto al loro glorioso passato. I ragazzi non sono mai stati mostri di dinamismo, ma il carisma e la potenza che riescono a trasmettere anche da fermi è davvero sorprendente. Aaron Aedy è quello che, come al solito, si sbatte di più, sudando come un dannato ed incitando le prime file. Nick Holmes resta compassato ma cordiale, regalando una prestazione più che discreta. Certamente molti dei presenti saranno rimasti di sasso, non avendo potuto ascoltare neanche un brano da “Icon” e soltanto “Enchantment” da “Draconian Times”, probabilmente i lavori più conosciuti del Paradiso Perduto, ma le esecuzioni di altri pezzi storici (“As I Die”, “Gothic” e soprattutto “Pity The Sadness”) avranno placato un po’ la sete di passato del pubblico. Pubblico peraltro molto preparato e ben reattivo anche sul repertorio più recente del gruppo, in occasione di “No Celebration”, “So Much Is Lost” e della apprezzatissima “One Second”. Bis affidati a “Never For The Damned” e “Over The Madness”, conclusione con il singolone “Say Just Words”. In definitiva, quindi, si è trattato di un bel concerto, scivolato via rapido, minimale, abbastanza appagante, ma certo non memorabile; esibizione che comunque ha confermato il buonissimo stato di forma dei Paradise Lost, nulla da eccepire.